Antonio Polino (Capo D’Orlando, Messina) | Racconti | Terza opera classificata Sezione Racconti autobiografici | Thrinakìa Settima edizione Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | Motivazione della giuria: Parole e storie si intrecciano in questa miscellanea di emozioni che l’autore fa rivivere attraverso un pregevole sforzo di memoria e un abile uso delle espressioni dialettali. L’incedere dei cunti riesce a immortale il vissuto come quadri di una esposizione. E tornano vividi i tempi che paiono ormai lontani di una Sicilia che non c’è più.
Thrinakìa septième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile | 31 mai 2024 | Le Mai des Livres | Palais de la Culture | Ville de Catane
Me nannu Cola
Sono tante le storie che mi legano a questo bel personaggio, al punto che non so da dove cominciare. Mi raccontava mia madre, che quando era in attesa della mia nascita, si rivolse a lui per sapere quale nome dovesse mettere al nascituro, perché mio padre era in guerra in Africa ed era impossibile contattarlo. Lui, mio nonno Cola, le rispose risoluto che era giusto che mi chiamassi Nino come il mio nonno materno, morto prematuramente, perché si era distinto per la sua bontà e nobiltà d’animo. Intanto che passavano gli anni aumentavano anche gli incarichi che il nonno mi affidava. Dovevo, dopo pranzo, portare a brudagghia o purceddu che “abitava” a 50 metri dalla nostra casa e per farlo, dovevo percorrere un viottolo fiancheggiato da erbacce che spesso grondavano di acqua piovana o di acquazzina.
Poi, in luglio, dopo la raccolta degli agli e della cipolle, insieme procedevamo a formare lunghe “reste” che sarebbero servite per tutto l’anno e, a lavoro ultimato, le appendevamo ai rami più bassi degli alberi di ulivo, per farle essiccare. Un inverno, mi ricordo che, per farci capire quanto lavoro c’era dietro una fetta di pane, fece partecipare me e mia sorella alla semina del frumento, qualche etto in tutto, in primavera estirpammo controvoglia più volte le erbacce dal campo di grano e a giugno finalmente arrivò il periodo della mietitura. Fece delle piccole “ regne” utilizzando una falce lucente e con mia sorella le portammo nto chianu di cimentu, “pisammu” con i nostri piedi , separammo il grano dalla paglia e dalla “sciusca” utilizzando “a boria”che solitamente si levava nel tardo pomeriggio e finalmente, stanchi, sudati e felici ci ritrovammo tra le mani un sacchetto che conteneva due chilogrammi circa di frumento di roba forti.
Dopo avere toccato con mano i sacrifici da affrontare per produrre il grano, ebbi più rispetto per la fetta di pane che, a quel tempo, utilizzavo spesso. Capii anche perché, quando il pane era ancora intero, era il capo famiglia che, prima di affettarlo, faceva il segno della Croce col coltello a menza di sutta du pani. Poi, quando avevo già 12-13 anni, nel periodo estivo, con mio nonno Cola giocavamo a briscola, mentre tutti gli altri dormivano, lui aveva già lavorato dall’alba fino alle 10 e poi aveva russato alla grande, fino all’ora di pranzo. Quando gli comunicai che ero stato promosso all’esame di terza media, sospese il suo lavoro, si drizzò sulla schiena e con le mani ai fianchi e con lo sguardo che avvolgeva tutto il mio, mi disse, con tono appropriato alle grandi occasioni : “Bravo, fai bene a studiare, ma ricordati c’ha nesciri du pezzu a porta sempri a frunti vauta” (però ricordati che, per tutta la vita, quando varcherai la soglia di casa, dovrai farlo sempre a fronte alta). Quella frase è rimasta impressa nella mia mente, ed oggi , quando ho deposto un fiore sulla sua tomba, me la sono ricordata e mi sono commosso.
‘A bracera
A differenza du fucularu, a bracera sirveva pi quaddiari a famigghia. Già a’mmatinata si ravvivava e veniva collocata ’nta conca e utilizzata per riscaldare il latte, per fare il caffè d’orzo tostato in casa e per abbrustolire il pane supa a muddetta che sarebbe poi finito nella tazza del buon latte caldo. Dopo, per tutta la giornata, a bracera riscaldava la famiglia emanando un tepore morbido e costante. Ogni tanto occorreva ravvivarla con moderate aggiunte di carbone, ma all’imbrunire veniva arricchita di molto carbone perché doveva riscaldare la famiglia per l’intera serata. Veniva posta fuori ’nto chianu e quando il carbone sfumava si riportava intra, ’nta conca. A fine cena, che veniva consumata all’apparire delle prime ombre della sera, ci radunavamo attorno a conca e adoperavamo u circu e una pesante coperta con la quale coprivamo a bracera e le nostre gambe.
Era quello il momento magico in cui si radunava tutta la famiglia attorno a conca e al calduccio. Si accedevano allora i discorsi dei grandi sulla campagna, sui raccolti e sui fatti salienti del vicinato, u curtigghiu per intenderci; poi c’era qualche favoletta per noi bambini, le solite domande della mamma sulla tavola pitagorica e ogni tanto ci toccava anche ripetere l’ultima poesia imparata a memoria. Questa lunga e continua esposizione al calore da bracera, provocava spesso l’insorgere di “fucili”[1] sulle gambe di noi bambini e delle donne di casa. I primi ad allontanarsi erano i nonni che andavano a letto per recitare il Santo Rosario prima di addormentarsi e utilizzavano u circu e a bracera per riscaldarsi il letto, poi era la volta di noi piccini e infine i nostri genitori. A mamma toccava spesso il compito di sistemare a bracera per l’indomani.
Doveva fare un piccolo fosso al centro per riempirlo di cinisi[2] su cui sistemava i carboni ancora accesi e ricopriva il tutto con la cenere calda. L’indomani mattina, se tutto era stato eseguito a regola d’arte, appena si scavava ’nta bracera, dal cumulo di cenere esplodeva incandescente u cinisi chi faceva un giocufocu di spisiddi[3] e si poteva aggiungere il nuovo carbone senza utilizzare u miscaloru[4]. Se invece a bracera risultava stutata erano guai, perché si doveva partire da zero e dovevamo sciusciari e sciusciari cull’occhi ancora a pampinedda, prima ca mani dritta e poi, quannu nni stancaumu, si sciusciava ca mani manca, o friddu, di matina, ’nte spisiddi e ca fami ’ncoddu[5]. Ora a bracera e a conca sunnu appinnuti alla parete del magazzino, in bella vista per ricordare con fierezza agli antichi utilizzatori e agli occasionali “passanti” il loro glorioso e indispensabile ruolo svolto tanto tempo fa.
U caliaturi
Ogni anno, ad inizio estate, ogni famigghia armava u caliaturi in uno spazio antistante la casa. Era una struttura ben esposta al sole, sorretta da quattro robusti palacciuni piantati saldamente nel terreno, su cui poggiava l’impalcatura formata da travetti e tavole. Su quel soppalco che si ergeva a circa un metro e mezzo da terra, nei mesi di luglio, agosto e settembre si stinneunu i cannizzi pi assiccari i fichi, i puma, i bruna a cutugnata, a farinata e autri cosi, mentre la salsa di pomodoro veniva fatta asciugare in enormi piatti di ceramica, coperti da veli, per ottenere l’estratto di pomodoro, inteso astrattu.
Tutto quel ben di Dio posto al sole, veniva molto frequentato da vespe, lapuni, api e anche dalle mosche ed era pericoloso avvicinarsi. Prima che il sole tramontasse, i cannizzi e i piatti dovevano essere trasportati dentro casa, per evitare che u sirinu della notte vanificasse l’azione del sole ed io spesso venivo addingatu* per svolgere questo lavoro. A fine estate, questi prodotti già essiccati, venivano buttati nell’acqua bollente per qualche istante e, dopo essere stati asciugati ben bene, venivano collocati in dei sacchi molto spessi di tela grezza e messi a riposare ’nte casci, assieme al grano ed altri cereali che costituivano di fatto le riserve invernali della famiglia. Di tutti questi prodotti io ero molto interessato, da qualche anno, ai fichi secchi. Finita quell’anno l’attività di essiccazione, iniziò per me la impaziente attesa di affondare le mie avide mani in quei benedetti fichi.
Chiedevo spesso a mia nonna Carmina quando sarebbe stato il momento e lei, con la sua proverbiale calma, mi rispondeva sempre allo stesso modo: “Quannu passa u cavaddu Jancu” . Ma io di cavalli bianchi, no ne vedevo in giro, non c’era nemmeno l’ombra. Eravamo già sotto il Natale, quando una mattina, finalmente lo vidi in tutta la sua maestosità. Corsi da mia nonna e glielo feci vedere, eccolo il cavallo bianco, le dissi, ora possiamo aprire il sacco dei fichi! Rimasi di sasso quando la nonna mi precisò, sempre con la sua serafica calma, che non era quello il cavallo a cui lei si riferiva. “Quannu arriva tu fazzu vidiri” mi assicurò. Quello che avevo visto, mi dissero poi che era il cavallo del Cavaliere Vincenzo, era bianco, era bello e maestoso nel suo incedere, ma non era quello giusto per mia nonna.
Passarono le feste natalizie e dopo qualche tempo, una mattina la nonna mi svegliò di buon’ora, mi prese per mano e mi condusse, cu l’occhi ancora a pampinedda[6], al balcone. Spettacolo! vidi il mio mondo imbiancato da un soffice manto di neve che era caduta nella notte. Questo è il cavallo bianco, esclamò e furono fiumi di fichi secchi imbottiti di noci, di nocciole e di bucce di manderino. Non li riconoscevo più quei fichi, avevano cambiato colore ma erano ottimi, erano ricoperti da uno strato di polvere bianca.
La nonna allora mi spiegò che quella polvere molto profumata e dolce era u tartaru. Poi fuori a scorrazzare con gli altri bambini, mentre i grandi, che non erano andati a lavorare a causa della nevicata, passavano di casa in casa a scaldarsi ai focolari accesi ed anche ad assaggiare le salsicce, i frittuli[7] e tracannavano, tra una storia e l’altra, qualche bicchiere di buon vino d’annata. E più andava avanti la giornata, più la schiera di “viandanti” ondeggianti e avvinazzati si infoltiva. A mezzogiorno i grandi erano “sazi” e volteggiavano ancora per le strade come i fiocchi di neve, mentre noi piccoli avevamo, già da un bel poco, sospeso di fare pupazzi e di tirarci le morbide palle di neve, perché ci eravamo rifugiati in casa bagnati fradici, stanchi e felici.
U fuculari di ‘na vota
A quel tempo era un manufatto importante per una casa di campagna. Veniva utilizzato principalmente per la cottura dei cibi della famiglia. A casa mia era posto nell’angolo di una stanza che si affacciava sulla campagna ed era sollevato dal piano di calpestio di circa 40 centimetri. I muri di quella stanza erano grezzi, pietrosi e affumicati, anche le tegole, e le travi e i listelli che le sorreggevano, erano nere di fuliggine per l’abbondante fumo che respiravano.
D’inverno mio nonno Cola lo accendeva all’alba per riscaldarsi, ma soprattutto per preparare la sua mitica frittata di uova, olive nere e qualche peperone du tineddu[8]. La frittura, durante la cottura, emanava un odore inebriante che si spandeva per tutta la casa e a me saliva l’acquolina in bocca. Quando era pronta, mio nonno prelevava a padedda do tribodu[9] e la depositava supra u dumunnedda[10] capovolto. Iniziava la sua colazione tagliando una spessa fetta di pane casereccio e cominciava a staccarne dei pezzetti a forma di scalpello che infilzava nel coltello e li affondava poi nella frittata, per farli riemergere colmi di buon cibo profumato e fumante che scompariva finalmente nella sua avida e impaziente bocca.
Ogni tanto buttava nelle fiamme scoppiettanti qualche nozzulu d’alivo[11] che a poco a poco prendeva fuoco emanando una strana luce, per poi scomparire nella cenere. A bruccetta[12] la utilizzava alla fine della sbafatoria, p’arricogghiri l’ultimi alivi[13]. A interrompere spesso questa mia magica visione era il perentorio ordine di mia madre che mi ’invitava’ ad andare a tavola, perché il mio latte col caffè d’orzo e il pane di casa abbrustolito supa a muddetta[14], mi attendeva.
Di tutto quell’intruglio mi piaceva solo il pane abbrustolito che rimaneva croccante nonostante l’ammollo e si portava dietro un bel profumo di grano cirusu[15] appena raccolto. Quando mio nonno ultimava la sua mitica colazione, si allontanava per andare in campagna a lavorare e u fucularu rimaneva a disposizione della famiglia per cuocere i cibi del giorno. Anche noi piccoli lo utilizzavamo spesso per mettere in cottura, ai margini o sopra la brace, le patate più piccole prodotte dal nonno, o i carciofi prelevati furtivamente nella proprietà della vicina Pippina, o le olive nere minute appena raccolte, o le nocciole, o le gustosissime castagne che provocavano spesso delle scottature alle nostre mani impazienti. Alla fine degli anni 40 u fucularu fu soppiantato dalla cucina economica, con fornetto annesso e così ni finiu u spassu a nuatri carusi[16] ma migliorò e di molto la vita dei grandi.
Note
[1] I fucili - Erano simili ad un reticolo ad anelli dai contorni scuri che, in inverno, decoravano le gambe delle donne e dei bambini. Il loro insorgere era dovuto all’eccessiva esposizione delle gambe al calore del braciere e del focolare. I maschi portavano i pantaloni lunghi e non so se avessero i fucili. Poi, in estate scomparivano.
[2] Cinisi - Scaglie piccolissime di carbone prodotte naturalmente durante il trasporto del carbone dal produttore al consumatore.
[3] Spisiddi - Faville.
[4] Muscaloru o miscaloru - Ventaglio per ravvivare il carbone, costruito artigianalmente in casa. Consisteva in una lunga e sottile treccia realizzata con le foglie del granturco e poi arrotolata e cucita ca ugghiola, fino a formare un disco su cui veniva ancorato un bel manico di legno.
[5] Ca fami ’ncoddu - Sffamati.
[6] Occhi a pampinedda - Sonnacchiosi.
[7] Frittuli - Resti di maiale, cotiche e ossa bollite.
[8] Tineddu - Tino in legno in cui si conservavano i peperoni in salamoia, le olive ed altro.
[9] A padedda do tribodu - La padella dal treppiede.
[10] U dumunnedda - Contenitore cilindrico in ferro e unità di misura di grano, nocciole e olive. Equivalente a 8,5 Kg circa.
[11] Nozzulu d’alivu - Nocciolo di oliva.
[12] A bruccetta - La forchetta.
[13] P’arricogghiri - Per prendere le ultime olive rimaste.
[14] Supa a muddetta - Sulla pinza di ferro (posta sul braciere).
[15] Grano cirusu - è il frumento non ancora del tutto maturo che viene masticato e si ricava un succo dolciastro che odora di grano.
[16] Ni finiu u spassu a nuatri carusi - Così finì il divertimento di noi bambini.