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Thrinakìa septième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.23 N.1 2025

Potrei incominciare dalla nascita

DOI: 10.17613/hwr2q-4fp90

Gianluigi Redaelli

magma@analisiqualitativa.com

Gianluigi Redaelli (Palermo) | Potrei incominciare dalla nascita | Terza opera classificata Sezione Autobiografie | Thrinakìa Settima edizione Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | Motivazione della giuria: Il percorso di crescita e partecipazione di una sensibilità umana non asservita alla tossicità delle prescrizioni e delle condizioni sociali, restituita attraverso una scrittura consapevole e tenace che implica una riflessione e un’immaginazione radicate nella portata generativa di senso di un’etica rinnovatrice, animata dal dissenso alle culture mafiose e al depauperamento delle risorse naturali, all’impoverimento economico e culturale, e al degrado sociale.

 

 

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Thrinakìa septième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile | 31 mai 2024 | Le Mai des Livres | Palais de la Culture | Ville de Catane

Per raccontare questa parte della mia vita in Sicilia devo prima presentarmi.

Potrei incominciare dalla nascita, già di per sé eccezionale. Nasco infatti il 16 Aprile del 1943, lo stesso giorno in cui nei laboratori della Sandoz, (lo scoprirò in seguito) fu scoperto e inventato il potente allucinogeno LSD, e forse per questo un po’ sballato lo sono sempre stato.

Poi, fatto eclatante, sono potuto venire al mondo per una gran botta di culo, come si dice. Infatti, proprio il giorno prima del parto, mia madre era stata spostata, per non so quali ragioni, da un’ala dell’ospedale a un’altra, e proprio quella da cui proveniva fu colpita disastrosamente dai bombardieri alleati che imperversavano sulla zona. Questo fatto ha però comportato l’inconveniente di non avere traccia dell’ora della mia nascita e ciò fa sì, ahimè, che non possa godere di un oroscopo completo, mancando l’ascendente.

Testardo come un Ariete lo sono sicuramente, ma ingenuo e boccalone come cosa? Comunque nella città dell’Umberto Bossi, (l’ex Terribile Hulk), il luogo della mia nascita può essere ubicato solo anagraficamente poiché il concepimento (con il cuore e non solo) dovette avvenire tra Milano e la Sicilia. Probabilmente a Palermo, dove allora bazzicava mio padre con l’incarico di Ispettore della Germani-Scappino, (sì, proprio quelli del famoso nodo).

Circa nove mesi prima che la moglie di mio padre diventasse anche mia madre, infatti, la coppia aveva fatto un lungo giro turistico dell’isola. Un viaggio che lei poi ricorderà spesso con sospiri struggenti. E mi sa che in quell’occasione ci fu la semina giusta. Tutto questo per dire che nelle mie
vene scorre forse anche sangue siculo-terrone, motivo che ha spinto i miei passi in un lungo vagabondare, e che dopo un’adolescenza irrequieta al Nord e varie tappe al Sud ha finito per farmi approdare, quale emigrato al contrario, nella tranquilla terra di Turiddu.

Per raccontare come sia arrivato alla fine in Sicilia devo partire da una fase della mia vita negli anni 70 quando vivevo in una comunità sociale, Il Guado, nell’ampia periferia milanese, dove tra le varie attività c’era anche la gestione di un bar in cooperativa, del cui ricavato economico si decideva ogni volta di destinarlo alla ricerca e studio di altre esperienze di cooperative sociali. Il tutto è riportato dal diario che allora tenevo.

Così a Gennaio 1973 su suggerimento di un socio del Guado, Salvatore, siciliano che ci segnala la presenza d’una realtà cooperativistica in Sicilia, a opera di Danilo Dolci si decide di scegliere quella meta per il nostro primo viaggio alla scoperta del mondo cooperativistico. Abbiamo a disposizione due mezzi, il mio pulmino VW, e quello del Guado un Ford Transit. Qualcuno butta là l’idea di farci l’impianto a gas al mio pulmino, per risparmiare sul carburante, e in un paese vicino, a Cuggiono, c’è un’officina specializzata. Se ne parla a tavola e si decide di procedere, facendo fifty-fifty per il costo fra me e la Comune.

Alla fine il 28 sabato si parte, con due pulmini, uno il mio, con Salvatore, Luciana e Paolo mentre sul Ford ci sono Marco, alla guida, Anna, e gli amici del bar, la coppia Michele e Rosanna, e Sesto, sono quelli che hanno deciso di fare questa esperienza. Del viaggio non ho particolari ricordi, di certo non corriamo, ce la prendiamo comoda, ci si ferma spesso e io qualche volta ho il problema di trovare il rifornimento GPL, comunque quando finisce il gas, commuto in benzina.

Facciamo tappa anche a Napoli e nel tardo pomeriggio del 30 siamo a Reggio Calabria, con negli occhi gli infiniti magnifici paesaggi del nostro Bel Paese, pur percorrendo un’autostrada che è continuamente con cantieri e deviazioni. In particolare godono e si meravigliano quelli che hanno viaggiato poco, cioè quasi tutti, esclusi io e Salvatore.

Poi però c’è il traghetto da Reggio a Messina che è una novità assoluta per tutti, meno che per la nostra guida, che ne approfitta per darci lezione di lingua sicula a proposito di come si deve dire arancine, alla palermitana invece che arancini, alla messinese, quelle squisite frittelle-polpette di riso con carne e formaggi, di cui ne facciamo una scorpacciata, con provvista abbondante, sulla nave.

Finalmente dopo un altro percorso fantastico costeggiando il mare, su una autostrada spesso interrotta, con deviazioni sulle statali, arriviamo a Palermo il 1° Maggio, ci dev’essere in corso una manifestazione perché i vigili ci deviano su una strada diversa da quella che stavamo percorrendo, ma Salvatore che conosce la città ci indica la direzione per proseguire verso Partinico, dove arriviamo per una strada un po’ difficile verso le 18, e qui attendiamo l’arrivo del Ford, che tarda, stranamente si è perso perché solitamente marciamo vicini. Quando finalmente compare è passata quasi un’ora, Marco ci racconta che ha dovuto fermarsi poco dopo Palermo, in un’area di sosta perché Rosanna si era sentita male.

Dobbiamo andare a Trappeto, al Borgo di Dio, dove c’è Danilo Dolci, ma siamo indecisi se fermarci per la notte a Partinico, ma chiedendo in giro, pare che non ci sia un campeggio nelle vicinanze, così andiamo a Trappeto. Ottima accoglienza di alcuni collaboratori di Dolci, tra cui Salvo, che ci indica tre camere dove ci sistemiamo alla bell’e meglio. Poi ci accompagna in una pizzeria con vista mare, dove ci satolliamo, e ci dice che l’indomani potremo incontrare Danilo. Ci racconta anche un po’ di quella storia ricca di avvenimenti e battaglie. Fin dagli anni 60 sono iniziate manifestazioni per la realizzazione di una diga che permettesse la fruizione di acqua nella zona, si sono formati diversi comitati popolari, ci sono stati scioperi d’ogni genere, pure quello famoso alla rovescia, inventato da Danilo, in cui i disoccupati lavoravano, digiuni e anche arresti e processi, ma la lotta dura e convinta l’ha spuntata e da qualche anno la diga è in funzione.

Quando chiediamo a Salvo notizie sul movimento cooperativistico ci dice che dobbiamo parlarne con Franco Alasia, il principale collaboratore di Dolci, che in effetti il giorno successivo incontriamo, e col quale abbiamo un lungo interessante scambio di opinioni.

Ci fornisce dati precisi di varie cooperative che si sono formate, come la Cooperativa edile La Fontana, la Cooperativa Consorzio irriguo Jato, la Cooperativa cantina sociale Conca d’Oro, la Cooperativa  intercomunale coltivatori ortofrutticoli, tutte a Partinico con centinaia di soci, e la Cooperativa cantina  Il Progresso di Menfi, e la Cooperativa di abitazione a Menfi, creata dopo il terremoto del 68.

Tutto questo, insieme anche a punti vendita alternativi di oggetti di artigianato, per sottrarsi all’ingerenza dei gruppi clientelari mafiosi, ha rappresentato per l’intera regione un fatto storico senza precedenti, ma ha un piccolo punto debole, che è la capacità della popolazione di proseguire sulla strada dell’impegno e della resistenza al potere e alla cultura mafiosa, che spesso è pure aiutata da esponenti governativi, come acclarato dai vari processi cui sono stati sottoposti Dolci e i suoi più stretti collaboratori.

In particolare ci racconta dell’iniziativa di Radio libera, l’emittente installata al Centro studi di Partinico nel marzo del ’70 con la quale, per più di una intera giornata, sono state trasmesse con le voci di cittadini, d’ogni genere, di diversa età, lavoratori e intellettuali, una serie di denunce documentate sulle responsabilità e le inadempienze governative per la situazione delle zone colpite dal terremoto nella valle del Belice.

E io qui ascoltavo senza immaginare come sarebbe presto diventata la nuova meta del mio cammino.

Dopo l’incontro con Alasia ci hanno proposto di andare a vedere la famosa diga sullo Jato, e
questa è la prima volta. Interessantissima la visita, i racconti che ci fanno varie persone incontrate, ma siamo al 3 maggio e ancora non abbiamo potuto incontrare Danilo Dolci. Possiamo è vero parlare con vari collaboratori, più o meno anziani dell’esperienza del sociologo triestino, ma vorremmo avere il piacere di conoscere lui.

Venerdì 4/5, si presenta un altro attivista del Borgo, che ci invita, noi che veniamo dal lontano Nord, a fare un giro per vedere i cambiamenti lì nel profondo Sud, così c’imbarchiamo tutti su un loro pulmino, pure Ford, e partiamo. Lungo giro nei paesi limitrofi, poi arriviamo a Città del Mare, un centro turistico di Terrasini che si affaccia sul golfo di Castellammare. Un luogo anche qui per chi se lo può permettere, ma c’è un piccolo gabbiotto, nel giardino, dove sono in vendita i prodotti artigianali sponsorizzati dal Centro Studi e Iniziative, comperiamo tutti qualcosa, poi ripartiamo e man mano che percorriamo una strada, io comincio a pensare di averla già vista, finché scambiandomi occhiate con Salvatore ne abbiamo la conferma quando vediamo il profilo inconfondibile del bacino, il lago Poma. Dobbiamo sorbirci il solito racconto delle gesta eroiche che ne hanno permesso la realizzazione, prima di riuscire a dire timidamente che noi veramente già ci eravamo stati.

Ma, incredibile a dirsi, anche il giorno dopo ci propongono la diga. Va bene tutto, ma ci sembra una menata insopportabile, mentre siamo intenti a discutere sul da farsi si fa avanti un ragazzo che dice di volerci parlare di qualcosa di più serio.

Usciamo dal Borgo insieme e ci sediamo in un bar tranquillo, allora lui che si chiama Domenico, ed è di Partanna, inizia a raccontarci dell’esperienza di Lorenzo Barbera, già collaboratore di Dolci, nel Belice. Praticamente snobbando un po’ quella di Trappeto, che ormai secondo lui comincia ad avere il fiato corto, a essere a un punto morto, quella di Partanna e della lotta dei terremotati è la più viva, la più importante.

Inutile dire che la sua descrizione c’infiamma tutti, forse più freddino rimane Salvatore, e decidiamo di andare senz’altro a verificare. L’indomani, prima che ci rifacciano la proposta di andare alla Diga-Monumento, e con la rituale promessa d’incontrare Danilo, prima o poi, partiamo con un solo pulmino, il Ford, direzione valle del Belice, insieme a Domenico, ma senza Michele e Rosanna che preferiscono restare per tirare il fiato e magari farsi qualche passeggiata al mare.

E’ un viaggio complicato da continue deviazioni, percorrendo la statale 113, passiamo sotto Alcamo, il paese dell’irriverente Ciullo, poi attraversiamo Calatafimi, il cui nome ci riporta sui
banchi di scuola, alle gesta epiche dei garibaldini, e vediamo pure sullo sfondo in alto il famoso
tempio di Segesta, quasi quasi ci piacerebbe visitarlo, ma non ne abbiamo il tempo. Infine, dopo un percorso tortuosissimo, improvvise ci appaiono le rovine, i ruderi, i fantasmi delle case distrutte di Gibellina.

È una visione, così di colpo, che lascia sbigottiti e commossi. Alcune case sembrano intatte, di altre è rimasto solo un muro, e l’atmosfera che si respira è di un villaggio silenzioso, troppo silenzioso. Proseguiamo il viaggio, pure noi in silenzio, ognuno è perso nei suoi pensieri, il senso della devastazione e quindi della morte è molto intenso, e quando chiedo a Domenico quante furono le vittime, la risposta è vaga, non si sa esattamente se più o meno di 300, e quanti dei feriti si siano aggiunti in seguito. Poi il paesaggio cambia e cominciano a vedersi baracche ai bordi della strada scendendo verso Partanna, anche qui qualche casa crollata, molte chiese danneggiate, poi uscendo dal paese, forse era una cittadina, vediamo in basso una zona totalmente piena di baracche, è il Camarro, dove, come ci fa notare la nostra guida, si è praticamente traslocata Partanna.

Appena fuori su una strada che corre circolare come fosse una circonvallazione ci fermiamo davanti a una baracca, molto grande, ben messa, è quella del Comitato Terremotati di Lorenzo Barbera. Così vedo per la prima volta un luogo e persone che presto diventeranno la mia nuova realtà, per ora faccio la conoscenza di Lorenzo, Paola la moglie, e un figlio piccolo, poi ci si siede intorno a un grande tavolo e si ascolta ciò che Lorenzo racconta delle lotte dei terremotati, negli ultimi quattro-cinque anni, compreso il rifiuto di pagare tasse, finché non inizi la ricostruzione. Ci comunica una intensa esigenza di manifestare solidarietà ed empatia, e in cambio raccontiamo anche noi qualcosa della vita al Guado.

È stato proprio un incontro interessante, e quando Paola, che non è meridionale, ha lanciato là un: Perché non venite qualcuno di voi qui a fare un po’ di esperienza nuova? Io mi sono sentito rimescolare il sangue nelle vene, come mi capita ogni volta che l’idea di una nuova avventura mi solletica. Solo Marco e Paolo, quasi all’unisono hanno scrollato la testa, per dire che era una cosa difficile da realizzare.

A sera ripartiamo salutando e ringraziando Domenico per averci dato la possibilità di avere un’ulteriore visione della realtà isolana, e con una velocità più sostenuta, e più direttamente senza fermate prima delle 23 siamo di nuovo a Trappeto. L’indomani è prevista la partenza del ritorno, e potrebbe essere l’ultima occasione d’incontrare il sommo Danilo.

Ed effettivamente di primo mattino ci convocano nella sala conferenze del Borgo, dove a capotavola c’è un omone grosso semi pelato, un faccione tondo con gli occhiali e un sorriso mite. Ci dice subito che è dispiaciuto di non averci incontrato prima e che anche ora ha pochissimo tempo da dedicarci, del resto, dice,- l’avrete capito che lì c’è molto da fare e che il tempo non passa mai.- A quel punto, un po’ indispettito, forse a nome degli altri io mi permetto di dirgli che sì anche per noi del Guado c’è molto da dire e da fare, ma da dire solamente non ce n’è. Lui rimane un attimo sorpreso e poi con un largo sorriso commenta: -Appunto è quello che avevo detto.

La mia impressione, che mi porto nella memoria, è che se mai avessi dovuto stare molto a contatto con lui, sicuramente avrei potuto avere difficoltà a gestire il rapporto con quella sua preponderante personalità.

Quando riprendiamo i nostri due pulmini per far ritorno sul continente, due tre collaboratori che avevamo conosciuto, ci vengono a salutare calorosamente, uno ci dà pure un sacchetto di nespole,
belle grosse, che qui già sono in frutto, un altro, a voce bassa, mi dice che gli piacerebbe venire con noi, ma non può lasciare.

Il discorso sulla Sicilia riprende poi a Gennaio del 74, quando grazie a vari rapporti e contatti fra alcuni del Guado e altri compagni sparsi, tra i quali qualcuno che è in contatto con il Cresm, (Centro ricerche economiche e sociali per il meridione), l’organismo in cui si è trasformato il Comitato Terremotati di Lorenzo Barbera, viene deciso di realizzare un grande striscione del Cresm per sensibilizzare l’opinione pubblica e tra chi se ne occupa c’è la cellula artistica del Guado di cui faccio parte anch’io. Il lavoro si fa a Roma dove in un paio di mesi siamo in grado di presentare la nostra opera. Lo striscione si presenta come una sequenza di fotografie di momenti di lotta, dei braccianti, degli operai, nei vari periodi storici, cominciando dall’occupazione delle terre degli anni 50 con riferimenti storici ai Fasci della fine 800; immagini della lotta contro la mafia, e ogni tanto un volto significativo di uomo o di donna, e poi scritte come didascalie, a cui ho dato il mio personale contributo.

Alle 23 del 25/1/1974 lo striscione del Cresm, “Sicilia in lotta”, è ultimato, festeggiamo con lo spumante, tutti coloro che vi hanno contribuito.

A quanto pare, lo striscione verrà pure venduto a chi è interessato, e quindi dovremo provvedere a farne copie. Almeno cinque le dobbiamo portare in Sicilia, quindi i giorni seguenti ci siamo occupati a fare le copie in serigrafia e a prepararci per il viaggio. Viene deciso che ce ne dobbiamo occupare noi artisti, cioè Aldo che è siculo, la sua compagna Meira, brasiliana e io.

Così saluti toccanti con tutti, e possiamo levare le tende da Roma, il 30 c’imbarchiamo sul pulmino, che ho battezzato Pablo, per la sua tenacia e resistenza, malgrado i vari acciacchi, e prendiamo la strada di Napoli, dove arriviamo in tarda serata, e dove per accontentare Meira ci facciamo una pizza. Ripartiamo intorno alle 21 direzione sud, ogni tanto mi dà il cambio Alfio, sulla Salerno-Reggio Calabria, l’ultimo tratto dell’Autosole, che è tutta un cantiere, con continue deviazioni in unica corsia, tremenda, e al capoluogo calabro ci arriviamo intorno alle 10 del 31. Traghetto, poi fino a Cefalù, dove ci fermiamo per un pranzetto gustoso a base di pesce, e a Palermo arriviamo alle 18, dove incontriamo Remo, il nipote di Alfio che ci accompagnerà nella nuova sede del Cresm, a Gibellina.

Il nipote di Alfio sembra un ragazzo in gamba, politicizzato, ci informa sulla situazione preoccupante denunciata dal giornale del PCI, l’Unità, che sostiene esserci nel Paese uno strano clima di tensione, confermato da uno stato d’allarme delle caserme, il tutto finalizzato a un possibile tentativo di golpe. Notizia che allarma solo Meira, mentre noi italiani facciamo spallucce, ormai sono allarmi che si ripetono improbabili, come quello del lupo al lupo. Ci rimettiamo sulla strada, e Remo ci permette di evitare quei tratti più difficili, che avevamo fatto nel primo viaggio, e un po’ prima delle 21 arriviamo alla baraccopoli di Gibellina Rampinzeri.

Remo che ha parlato con Lorenzo ci dice che se nella baracca per noi, che si chiama Le Raffe, non ci stiamo tutti e tre, uno può anche andare a stare a Partanna. Ma poiché si presenta abbastanza larga, con quattro stanze, bella, tutta in legno, sembra di stare in uno chalet di montagna, decidiamo di restare tutti e tre lì.

Dopo che ci siamo rifocillati, di panini, crocchette, e verdure varie, in un bar che fa pure da mangiare, siamo tornati nella baracca e abbiamo deciso la sistemazione. In una stanza ci staranno Alfio e Meira, una più piccola per me, poi c’è n’è una rettangolare e un’altra, la più grande che sembra un magazzino, che Remo ci spiega è quella del PCI che ogni tanto tiene riunioni di una Cooperativa, ma che se a noi serve può diventare laboratorio di lavoro, infine c’è un cucinino e un bagno con doccia.

Ci corichiamo, Remo in una branda nella sala grande, e io comincio a rimuginare su quello che sarà il domani, mai più pensando che questo sarebbe stata la mia nuova vita, piena di tanto nei prossimi tre anni, e poi comunque definitiva in terra di Sicilia.

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