Anna Maria Palazzolo (Catania) | Numero venticinque | Prima opera classificata Sezione Autobiografie | Thrinakìa Settima edizione Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | Motivazione della giuria: L’opera autobiografica delinea una grammatica e una scrittura creativa che tiene insieme, in modo vivo e sensibile, elementi fattuali e di veridicità sperimentati in prima persona dall’autrice ed elementi di finzione che le permettono di scoprire e riscrivere l’esperienza vissuta e raccontare il mondo che la circonda.
Thrinakìa septième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile | 31 mai 2024 | Le Mai des Livres | Palais de la Culture | Ville de Catane
Ho bisogno di scrivere, raccontarmi, smettere di dialogare e bisticciare solo con me stessa, ne ho bisogno per mettere in ordine l’orda di pensieri che mi rincorrono come cavalli in corsa. Ormai lo faccio in modo compulsivo ovunque io mi trovi e su ogni pezzo di carta che mi capita sottomano, lo sto facendo anche adesso mentre stringo fra le dita il n° 25. Aspetto il mio turno in riga, ansiosa, girando lo sguardo d’intorno, infastidita dallo stare insieme con altri dentro uno stanzone afoso e sporco dell’ASL.
Sul muro, tra le tante carte appiccicate, leggo articoli sulla Donazione, sul diabete, sulle Malattie rare... E un trafiletto che mi fa sorridere “si possono lasciare in sospeso parole, pensieri dolori ma non per sempre, prima o poi bisogna riaprire quella porta o chiuderla definitivamente.”
Sorrido infastidita, le solite frasi di merda penso, mentre la calca di persone disordinate mi irrita facendomi dolere il petto per il respiro che diventa come grosso catarro ingombrante.
Una bimba piange capricciosamente e la sua mamma la lascia fare, sta Zitta! Vorrei urlarle, mi irriti!
Per me, che penso confusamente e continuamente censurando, la metafora della porta che si apre o che si chiude non vale, anzi mi procura un grande disagio. Io sono un grande calderone pieno di pensieri, parole e dolori, un grande calderone sopra un fuoco non ancora spento: me ne accorgo oggi che gli spettri dispettosi del passato stanno soffiando sotto la cenere ancora calda.
Numero 25!
Sussulto!
Scatto in piedi. È il mio turno.
In collegio le monache e le mie compagne mi chiamavano così: Numero 25.
Chissà se la mia mamma mi ha mai cullato. Oggi lei dice sì, esitando, e poi aggiunge rigirando mollemente i pollici rugosi.
Chissà se mi chiamava per nome, un nome piccolo dolce che oggi mi ripeto nella mente accarezzandomi.
Un numero tra quaranta bambine, un nome che sentivo imperioso o squillante ogniqualvolta mi era assegnato un posto nuovo o una divisa, e che rintronava nel mio piccolo essere quando, per le suore, combinavo una marachella.
N. 25! Nello stanzino e senza cena!
A volte aspettavo giorni prima di ricevere la punizione.
Subivo il castigo senza capirne la ragione, eppure nell’atto di fare la marachella io mi sentivo importante, grande, ma finivo sempre dentro lo stanzino. Al buio.
Avevo paura delle storie che raccontavamo noi bambine, quando non era il nostro turno.
Avevo paura quando incespicando e annaspando le mie manine sprofondavano tra i grani del frumento; temevo che qualcuno o qualcosa me li potessero afferrare e tirare giù, fino alle porte spalancate dell’inferno.
Lo stanzino era un piccolissimo vano, quasi un metro per un metro, ma molto alto, altissimo. Il granaio lo chiamavamo, la paura si ferma nelle parole, e anche perché su di una delle pareti all’altezza della mia testa c’era un portellone di ferro con una manigliona; da lì usciva il grano, da lì uscivano i miei mostri, i topi e quella presenza con gli occhi di fuoco.
Per ogni chicco smosso un’invasione di famelici grilli, li sentivo sfregare contro la mia pelle e la mia mente metteva una canzone con una sola nota: uscirò da qui!
No! Le monache non erano furbe, io non riuscivo a formulare l’atto di pentimento che oltretutto dovevo recitare in latino, ero troppo impegnata a lottare. Dovevo stare attenta mi dicevo. Meglio le punture degli aghi sulle labbra, meglio le bacchettate sulle mani bagnate, cento volte meglio quello schiaffo secco che ti faceva sentire il fischio del treno per ore. Ogni volta era sempre peggio e quando uscivo da lì mi ripromettevo che quella sarebbe stata l’ultima volta, ma così non era.
Il rito era sempre lo stesso: Marachella = Stanzino.
Per alcuni secondi sentivo le mani di Suor Matilde salde sulle mie spalle all’altezza del collo, in un punto preciso, poi i due pollici sembravano schiacciare un pulsante, la spinta non era violenta ma precisa. Facevo in tempo a girarmi, la porta sbatteva sul mio viso e io mi trovavo inghiottita tra il frumento il buio e la paura, come una martire pronta ad affrontare il sacrificio. Poi più niente. Sono fortunate le ragazze di oggi a possedere il telefonino, avrei potuto giocare, mandare messaggini oppure chiamare qualcuno……. mammaaaaaa!
Ma ero sola. Sola ad affrontare le mie fantasie, rinchiusa nello stanzino che puzzava di vomito, piscio e paura, lacrime e moccio. Sola a sentire scorrere l’urina calda fra le gambe come colata di lava incandescente per poi sentirla raffreddare dentro le mie scarpe, dura come roccia. Sola, ferma, tremante e immobile a lottare con la mente che mi tappava la bocca per gridare in silenzio e non prolungare così la mia espiazione.
Ma chi mi tratteneva le mani dietro la schiena e mi teneva immobile?
Trovavo risposte nei sogni agitati, così, a volte ero Garibaldi a capo di una folla di Suore lanciate contro il portale della Chiesa; ma avevo osato troppo, la cosa con gli occhi rosso fuoco mi inceneriva togliendomi il respiro, mi sussurrava nell’orecchio con voce cavernosa da qui non si può scappare. Gli echi del suo ansimare soffocavano le mie grida, si ingigantivano nella mia mente nella lotta per prendere fiato; poi, sfinita, restavo in un angolo a sognare imprese tra il frastuono delle altre bambine.
Fuori dello stanzino ero la protagonista impavida e coraggiosa, mettevo un berretto rosso in testa, un fazzoletto intorno al collo e con una finta spada sguainata incitavo le mie compagne ad andare su di una splendida isola deserta, luminosa, piena di verde e di sole, scovavo lo scrigno del tesoro dentro una pianta carnivora, mai dentro una grotta; lì non volevo andarci neanche.
Con l’immaginazione, uccidevo la pianta a rischio di lasciarci le dita, prendevo il tesoro, pesantissimo, riuscivo a sollevarlo e a gridare forte. Sono io la più forte! Io! Numero Venticinque!
Neanche io riuscivo a chiamarmi per nome…
Ecco il piano terapeutico per tre mesi… firmi qui! Lei chi è?
La moglie! Rispondo mentre chiudo il mio libriccino. Non mi piace il termine compagna. A volte non amo i dettagli!
Esco dallo stanzone dell’ASL, accecata dal sole di agosto.
È tardi devo andare al lavoro, divorerò le ore che mi separano da stasera.
Stasera arriva Marco.
Suor Teresa mi prometteva il Paradiso se avessi riscattato con la preghiera e soprattutto con la penitenza i miei peccati, stare in ginocchio con le mani dietro la schiena era necessario.
Veniva a prendermi nel cuore della notte, mi teneva per mano percorrendo un lungo corridoio ed era come se un’edera si avvinghiasse a me trascinandomi (come odio le strette di mano) anche le cicale trattenevano il fiato, domani li avrei sentite gridare ossessivamente il mio nome fra i rami: Venticinque Venticinque Venticinque Venticinque Venticinque...
La stanza in fondo al corridoio era buia, la luce arancione dei lumini sparsi rischiaravano appena le finestre che parevano sprangate dal nero della notte. Restavo attaccata a quella grossa mano fino a quando la chiave nella serratura non girava due volte.
Da qui non si può scappare, una voce cavernosa sembrava risalire direttamente dagli inferi facendomi fare un mezzo giro come colpita da uno schiaffo Suor Teresa abbassandosi alla mia altezza aveva riflessa la luce dei lumini sui vetri dei suoi occhiali Un fuoco fatuo sopra il ghigno del suo sorriso dai denti marci o era forse il nero delle ombre che scavava solchi scuri tra le gengive Però sono quasi sicura di aver visto da sotto la sua nera tunica la punta di una coda a freccia che cercava di nascondere. Alza la testa e abbassa gli occhi. A volte la usava come un bastone per farmi sollevare il mento fino allo stremo. Devi dirmi come sono andate realmente le cose. Starai qui con le mani dietro la schiena fintanto... Tutto si confondeva tra il tremolare delle mie ciglia Mi infilava tra i denti serrati una pasticca dolce al sapore di menta Poi il suo palmo premeva sul mio capo e, restavo in ginocchio.
Chiudi gli occhi mi intimava mentre pregava. Se guardi il diavolo, lui, ti porterà via per sempre. Serravo gli occhi mentre baciavo il crocifisso, la carne di Cristo pativa per i miei peccati; serravo così forte gli occhi che neanche le lacrime avrebbero potuto trovare spiraglio per uscire, e l’ultima immagine che portavo con me era di un uomo dalla barba rossiccia con un basco in testa e una camicia rossa sopra di un cavallo bianco con una spada che pencolava dalla sua cintura. Aveva al polso un braccialetto, dono di Santa Rosalia, nessun proiettile poteva colpirlo. Il quadro era a grandezza d’uomo, lo aveva dipinto Suor Teresa. Suor Teresa lo venerava.
È un eroe, ha viaggiato per mare e per terra e i suoi occhi si perdevano come se in groppa a quel cavallo ci fosse stata lei stretta a quella schiena Dicono che è stato ospite qui, in incognito, in questo collegio, aggiungeva con enfasi, ha dormito in chiesa sdraiandosi su una coperta accomodata sul pavimento e che se ne sia andato portando con se una coffa di fichidindia e cesti pieni di frumento, mandorle, fichi e datteri zuccherini e che ha dovuto far riaccompagnare Suor Temeraria da un soldato a cavallo, dicono che il soldato sia stato poi calunniato di alto tradimento. Disertore, disertore, ripeteva come un disco inceppato. Potrei giurare di aver sentito gocce d’acqua che bagnavano il mio viso come sono sicura che quelle non erano le mie lacrime.
Portami via con te lo imploravo tra un Paternostro e Un’avemaria, e il suo viso mi sembrava quello del Cristo. Lo so che sei il difensore delle cause giuste, Tu sei il liberatore. Dicono di te che hai poteri divini... Eroe rosso che sei nei cieli, gli angeli ti hanno protetto con le loro ali, libera e proteggi me a colpi di sciabola come facesti con la tua cavalla Marsala. Sono brava a schiacciare le mandorle le faccio venir fuori dalla buccia tutte intere. E il pane, con me lievita come con nessuna altra. E so lavare i pavimenti, ma su in montagna o per mare questo non serve. Aveomaria Angioletto Benedetto pregavo senza risposte mentre lui se ne stava muto come un Cristo sull’altare.
Togliti la camicia mi ordinò da dietro alzando con il bastone l’orlo della mia sottana fino a quasi le natiche. Guarda. Guarda. Ripeté senza sorpresa. Sporcacciona. Sporcacciona. Sei senza mutande. Cantilenava e diede un piccolo affondo tra le natiche che mi mandò a terra a gambe per aria. Se la rideva divertita. Poi puntò il bastone sulla mia pancia. Guarda. Guarda che ventre gonfio. Mangi come una porcella vero? Ma sai che somigli proprio a un rospetto. Ah! Ah! Ah! Vediamo come sai saltare. Salta. Salta bella ranocchietta. Salta. Salta. Non ci pensavo neppure ad aprire gli occhi non volevo guardare quello che la mia fantasia mi suggeriva e come un cieco senza guida cominciai a inciampare e a sbattere.
Anna Anna stai bene?
Il tuo sogno mi ricorda la storia di quel frate Benedettino che lasciato l’abito religioso, seguì i Mille. Ma questa è un’altra storia; le date non coinciderebbero con gli episodi storici reali. L’immaginario come vedi si nutre di miti che poi va a far parte della nostra realtà.
Anna Anna, stai bene?
Dici che ho mitizzato la figura di Garibaldi? Che per me incarna l’eroe liberatore?
Trattengo il magone che sento salire. Mi sento come se avessi sette anni e imbarazzata giustifico quasi quel ricordo. Pensieri che sono entrati in collisione mi sento dire. Non voglio far parte della alta schiera degli abusi. Lei si divertiva a farmi paura a praticare una sorta di esorcismo. Hai il diavolo in corpo, piccola orfanella, mi ripeteva spesso. Forse sono solo una bugiarda piena di fantasie, molti libri e film confondono i nostri ricordi Forse sovrappongo un sentimento di rabbia e impotenza che mi viene a trovare quando le circostanze non mi permettono di fuggire. Era una sensazione di colluttazione confusa che uscì dai miei sogni concretizzandosi e trasformandosi in ricordo sulla narrazione di mio fratello Tore che lo aveva vissuto lo stesso giorno Un omone robusto ha allacciato le mie braccia a forza dietro la mia schiena, mi tiene sulle ginocchia, fa aderire il mio corpicino magro al suo con il palmo grande della sua mano premuto sulla mia fronte, il mio corpo che non conosce abbracci suda e sente odore di pericolo aderisce e sente che non ha scampo, faccio appello alle gambe, sono veloce, sono un uccello, ma le sue gambe robuste, incrociate e ancorate ai piedi della sedia riescono a trattenere le mie gambe ferme, sento il suo respiro forte tra i capelli il palmo della sua mano sulla fronte, il suo alito sa di alcool e tintura di iodio si mescola a quello acre del suo sudore; di fronte a me un uomo in camice bianco sporco di sangue. Netto e preciso sulla narrazione di Tore, il ricordo: il gorgoglio nella mia gola inondata dal sapore del sangue, la rabbia, l’impotenza che mi scoppiavano nel petto, c’ero cascata come una allocca, lo avevo seguito senza timore con la promessa di un gelato alla menta, che avrei avuto dopo la tonsillectomia.
È comunque una violenza te ne rendi conto?
Tu eri piccola non potevi difenderti Quella violenza ti veniva da una persona, Suor Teresa mi hai detto si chiamasse, che doveva proteggerti. E che cattiveria mascherarsi da buona con quell’offerta dolce della caramella E quest’altro Dott.? Ha abusato della tua fiducia approfittando della sua professione. Non si giustifica mai la violenza anche se ne siamo circondati e la diamo per scontato. Bisogna combatterla sempre.
La crepa si allarga e il vecchio ricordo scolla un’ansa.