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Thrinakìa settima edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.23 N.1 2025

Cosi duci

DOI: 10.17613/t0ymm-46j93

Astrid Denaro

magma@analisiqualitativa.com

Astrid Denaro (Roma) | Cosi duci | Seconda opera classificata Sezione Racconti autobiografici | Thrinakìa Settima edizione Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | Motivazione della giuria: Il ritorno dalla nonna, in Sicilia, dopo la pandemia si trasforma in un nuovo viaggio nell’infanzia della tenera donna. Scivolano lente le emozioni, in ogni parola scorre un moto d’affetto e di ricordo. Ne scaturiscono note carezzevoli, memorie deliziose di quella bambina che fu, perché in fondo, come chiosa l’autrice, "Chi parte non parte mai davvero”.

 

 

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Thrinakìa settima edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | 31 maggio 2024 | Il Maggio dei Libri | Palazzo della Cultura | Città di Catania

Ero atterrata presto quella mattina e avevo così potuto godere dello spettacolo mozzafiato della costa di Punta Raisi vista dallalto. Per un turista non abituato, larrivo allaeroporto di Palermo potrebbe scatenare qualche timore. La pista di atterraggio è, infatti, così vicina allacqua, che fino al confortante momento in cui le ruote incontrano il suolo, si potrebbe pensare che il pilota voglia tentare un ammaraggio. Per chi invece, come me, quellesperienza lha vissuta decine di volte, la vista dalloblò è commovente. Lacqua azzurra e trasparente fa venire voglia di tuffarsi, anche in inverno.

Come previsto, la manovra avvenne senza difficoltà e, un numero imprecisato di minuti dopo, il portellone anteriore si aprì, lasciando defluire una fila congestionata di passeggeri stanchi e assonnati, con i visi seminascosti dalle mascherine.

Quando raggiunsi la scaletta, la luce abbagliante mi costrinse a socchiudere gli occhi. Lasciai che laria tiepida mi avvolgesse per un momento, prima di iniziare rapidamente a scendere i gradini, lo zaino come sempre troppo pesante per le mie spalle piccole.

Quando toccai lasfalto, mi abbassai per un attimo la mascherina e inspirai lentamente e profondamente. È inconfondibile, lodore del mare, anche se lo si sente dalla pista di un aeroporto. Dopo aver, non senza difficoltà, preso posto sulla navetta, accesi il cellulare. Iniziò a vibrare così insistentemente che mi parve arrabbiato di essere stato trascurato durante il viaggio. Fra le decine di messaggi e notifiche, la maggior parte erano di mio padre: Sei partita? A che ora arrivi? Ti vengo a prendere? e poi Che cosa vuoi mangiare?. Sospirai e risposi Sono atterrata adesso, non ti preoccupare prendo lautobus. Passo prima dalla nonna, non mi aspettate per pranzo. Unaltra serie di messaggi, questa volta di offesa protesta, cominciò a farsi strada sullo schermo. Scossi la testa e mi infilai lo smartphone in tasca, ancora troppo stordita dal pisolino fatto in aereo per affrontare la conversazione.

Un paio dore dopo, scesi al capolinea degli autobus, nella piazza del paese in cui la mia famiglia aveva vissuto per generazioni. Poche centinaia di metri mi separavano dalla mia destinazione.

Suonai il campanello. Attesi.

Chi è?

La nonna aveva più di 90 anni, ma nonostante ciò viveva da sola e, pur necessitando di alcuni minuti, non mancava mai di rispondere al citofono. Mi salutò allegra, sorpresa di vedermi, e mi ordinò di togliermi la mascherina, che portavo sempre in sua presenza, e di mettermi a sedere sul divano, vicino alla stufa. Il cielo era limpido e azzurro, nonostante fosse pieno inverno, ma laria fredda della stanza non rispecchiava il tepore che il sole sembrava emanare. In pochi minuti, il piccolo tavolino da caffè di fronte a me si ricoprì di piatti e ciotole traboccanti di dolci fatti in casa.

Mi trovavo in Sicilia per le feste natalizie, anche se ormai da molti anni vivevo lontana dallisola. Dopo la laurea mi ero trasferita per qualche mese in una piccola città della Germania, prima di stabilirmi definitivamente a Praga. A tornare in Sicilia facevo sempre fatica, non per ragioni economiche o per mancanza di tempo, ma per una sorta di malessere che mi aggrediva nel momento in cui mi ritrovavo in quella terra della quale, pure, provavo tanta nostalgia. Chi parte non parte mai davvero, ma non riesce mai neppure davvero a tornare. Masticavo voracemente paste alla zuccata, buccellati e biscotti intrecciati. Quei sapori non mi stancavano mai. Sapevo di doverne approfittare fino a che avessi potuto, perché in pochi giorni avrei ripreso laereo per Praga e le feste sarebbero finite e i buccellati ripieni di fichi secchi o di mandorle sarebbero rimasti un ricordo. Certo, ne avrei portati alcuni con me, ma il sapore non era mai lo stesso, quando li mangiavo sulla terraferma. Forse era il caffè ad essere diverso, lacqua del rubinetto troppo calcarea, o troppo poco, per accompagnare adeguatamente quei dolcini zuccherosi e irregolari. Nella loro irregolarità era parte della loro bellezza, perché era il segno inconfutabile che non fossero usciti da qualche sacchetto di plastica certificato, ma dalle mani di qualcuno che la ricetta non la leggeva neanche più.

La nonna era immersa, come sempre, in un involtino di coperte e sciarpe, che a malapena ne lasciavano intravedere il naso e gli occhi. Bocca e orecchie erano completamente nascoste.

Era il 2021, le frontiere erano ormai aperte e il lockdown alleggerito, ma incontrarsi causava ancora una sottile sensazione di disagio. Nonostante linvito della nonna a sedermi accanto a lei, avevo preferito il piccolo divano accanto alla finestra, mentre lei si era accomodata su quello più grande, appoggiato contro la parete, tra il televisore e il mobiletto in radica di noce che ospitava un piccolo presepe un po antiquato.

Non ricordo come avessimo iniziato a parlarne, ma la nonna mi stava raccontando di quando, da ragazzina, andava dalla mastra per imparare a cucire. Mi parve una storia incredibile, uscita da un vecchio film in bianco e nero.

Ma di che anni parliamo, nonna?

Ma ero ragazzina, forse 15 o 16 anni. Ogni giorno andavo dalla mastra e lei mi insegnava a cucire a macchina, a rifare gli orli, a lavorare a maglia, ricamare, cose così. La nonna era nata nel 1930 e aveva una memoria di ferro. Ricordava chiaramente tutti i palazzi abbattuti e costruiti nel paese nel corso degli ultimi 80 anni e parlava di eventi remoti come se fossero accaduti pochi giorni prima.

Ma dopo la guerra?

Certo, dopo la guerra, non è che cera tempo per ste cose con la guerra. Poi io ero piccolina, andavo in seconda quando scoppiò la guerra. Che la nonna scrivesse e leggesse piuttosto male era sempre stato un fatto assodato, non mi ero mai fermata a riflettere sul perché. Era una bimba allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e aveva dovuto lasciare la scuola e fare la sua parte in casa.

Ma parli sempre solo di tua madre quando mi racconti della guerra, ma tuo padre? Era fuori?

Sìììì era in Africa!

Rimasi un attimo confusa.

Come in Africa? A fare che?

Eh, gioia mia, a lavorare. Io ero troppo piccola, non mi ricordo, ma mio padre doveva mantenere quattro figli e qua lavoro non ce nera. Già prima della guerra non è che si stesse tanto bene. Tramite un conoscente, mio padre e suo fratello partirono per lAfrica. Rimase a Mogadiscio dodici anni, allinizio ci scriveva e ci mandava dei soldi ogni mese.

Mi soffermai un momento sullamara ironia di quel racconto. Il mio bisnonno, dallItalia, era andato in Africa a cercare lavoro. Cercai di non distrarmi.

E poi? – chiesi.

E poi che vuoi, è scoppiata la guerra e i contatti si sono interrotti. Non arrivavano più né lettere né soldi. Non sapevamo manco se fosse vivo, a un certo punto. Perciò mia madre si dovette organizzare. Ti pare che poteva mettersi a piangere e fare la vittima, con quattro figli a mantenere. Quel poco che cera era difficile da trovare. Mio fratello più grande iniziò a lavorare a picciutteddu, dove lo chiamavano, io stavo a casa con la mamma e i piccoli.

E come campavate? Tua madre lavorava?

Mia madre si adattava, faceva quello che trovava da fare, come la chiamavano lei correva, dava na mano daiuto in casa a qualcuno, puliva, e poi avevamo la cosa delle sigarette.

Le sigarette e mia nonna mi parevano le due cose tra loro più distanti al mondo. Non aveva mai fumato e aveva sempre proibito categoricamente a figli e nipoti di farlo.

In che senso, la cosa delle sigarette?2 – non riuscivo a trovare alcuna opzione plausibile, nella mia testa.

Lei sorrise.

Ma che facevamo, la domenica mattina andavamo alla stazione e prendevamo il treno per Palermo. Arrivate a Palermo, ci incontravamo co sto cristiano che ci vendeva le sigarette. Sigarette di tutti i tipi, un sacco. Da noi non si trovavano e la gente le pagava bene, quindi andavamo a Palermo e, per portarle senza farsi notare, mia madre me le metteva nel vestitino. Io avevo dieci anni sì e no, ero tanta bellina, nessuno mi faceva caso.

Mi venne da ridere per quanto fosse assurda quella scena. Mia nonna, la signora seria e un po burbera che non usciva mai dal paese, che gli unici tragitti che faceva erano quelli per andare al supermercato o dal farmacista, che criticava amaramente le donne che la mattina osavano prendere il caffè al bar, da piccolina contrabbandava sigarette. Rimasi a guardarla senza interromperla.

La domenica sera prendevamo di nuovo il treno e tornavamo in paese, e qua poi vendevamo le sigarette. Io tornavo piena piena, nelle tasche, nella giacca, il vestitino tutto pieno. Una volta che faceva freddo avevo un cappottino di lana, e dentro la fodera era pieno pieno pieno di pacchetti di sigarette. Si mise a ridere, rendendosi forse lei stessa conto di quanto quel racconto fosse fuori dal personaggio della nonna severa che io ricordavo da sempre.

Ma la guerra si è sentita qua? Non hanno bombardato il paese – dissi con convinzione.

Lei mi lanciò unocchiataccia.

E come no? Certo che bombardavano, cera il campo daviazione qua vicino. Una volta è venuto pure Mussolini col re a vedere il campo daviazione, a li Funtaneddi.

Quella mi parve troppo grossa, ero convinta se la fosse inventata, o che avesse i ricordi confusi.

Ma che dici nonna, il re?

Sì ti dico, fu prima della guerra, ma già cera Mussolini al governo. Io ancora andavo a scuola e ci portarono tutte a vederli, a me e alle mie compagne. Mi ricordo precisa, avevamo tutte le gonnelline blu, tutte vestite eleganti, e ci hanno portato a vedere il re con Mussolini. Il re era veramente basso.

I dettagli mi parvero iniziare a diventare rilevanti. Presi dalla tasca il mio smartphone e feci una rapida ricerca. Rimasi di sasso. Era vero. Nel 1935 Mussolini aveva davvero visitato il paese insieme allallora re dItalia Vittorio Emanuele III. La nonna aveva visto con i suoi occhi il re dItalia.

Per me, nata alla fine degli anni 80, la regina esisteva solo in Inghilterra. Tutti gli altri erano parte di una storia antica o ruderi di un passato che tardava a morire. I reali dItalia erano, nella mia testa, solo una pagina nei libri di storia, ma per mia nonna erano un ricordo vivido. Mi fece molta impressione, poi, che avesse visto Mussolini. Lidea mi provocò un forte fastidio.

Che tempi brutti che dovevano essere.

Lei fece spallucce. Ma gioia mia, noi non ci pensavamo, dovevamo pensare a campare, a mangiare, a ripararci dalle bombe; non avevamo tempo di riflettere che erano tempi brutti.

Ma quindi hanno bombardato il paese?

E ti dico di sì. Io allepoca abitavo in via Mannone, non qua, e un giorno hanno preso la casa accanto alla nostra. Loro non cerano, però la casa cadde tutta.

Era la voce di una donna anziana a raccontarmi questa storia, ma dovevo fare uno sforzo e ricordare che quelle non erano le memorie di una vecchia, bensì di una bambina di 9 o 10 anni. Immaginai come dovesse sentirsi, quella bimba gracile.

2Avevi paura quando esplodevano le bombe?

Ma non era tanto lesplosione il problema, anzi. Quando sentivi che scoppiava tiravi un sospiro di sollievo. Ringraziavi che non era caduta sulla tua casa e che non ti aveva ammazzato. La cosa che faceva veramente paura era il fischio. Fiiiiiiiii. Un fischio terribile, quando la sganciavano. Fiiiiiiiii. Quello era il momento peggiore, perché sapevi che stava per arrivare, ma non sapevi dove cadeva. Poi, quando scoppiava, ti rilassavi un momento. Te lo dico, hanno preso la casa accanto alla mia, ce la siamo scansata per 3 metri.

Guardavo le spalle della nonna muoversi nel rollò di coperte e sciarpe e cercavo di immaginare la scena, cosa si dovesse provare a trovarvisici dentro. Pensai che se casa sua fosse stata bombardata 80 anni prima, io, verosimilmente, non sarei mai nata.

Ma non cerano i rifugi? Non vi potevate riparare da qualche parte?

Sì cerano, hai presente la piazza quella nuova, che una volta si passava e ora hanno chiuso il traffico? Piazza Garibaldi? Lì cera lingresso a un rifugio. Una volta ci siamo andati, con mia madre e tutti i fratelli, ma non era un bel posto. Era pieno pieno di gente e non si respirava, sotto terra, e se una bomba cadeva lì era sicuro che non ti potevi salvare. Perciò non ci siamo andati più. Poi, tramite un parente, abbiamo fatto i bagagli e siamo andati in campagna, verso Salemi. Sto parente aveva un casolare in mezzo alla campagna e per un po ci siamo trasferiti tutti lì. Fuori dal paese era raro che bombardassero, si stava più tranquilli.

E per la spesa come facevate?

In campagna ci arrangiavamo come potevamo, in paese davano le razioni. Che schifo quel pane di segala, ogni giorno solo una fetta di pane di segala, mi viene da vomitare ancora se ci penso.

Io protestai – ma come, è buono il pane di segale! Io lo compro apposta!

Lei fece un suono poco elegante per rimarcare il proprio disgusto, poi riprese – nel ‘43 poi sono arrivati gli americani e si sono accampati vicino da noi. Loro sì che avevano belle cose da mangiare, carne, formaggio, pane. Quando vedevano i ragazzini magri magri e morti di fame, qualcosa gliela regalavano sempre. Loro ne avevano a buttare. Sono state le prime cose sostanziose che abbiamo mangiato dopo anni. Ah, pentoloni di carne che mi ricordo!

La guardai in silenzio. Raccontava un paese che – pur essendo quello in cui ero cresciuta – non era il mio. Le bombe, le razioni, i soldati.

E tuo padre quindi poi è riuscito a tornare?

Era una domanda retorica. Il mio bisnonno aveva vissuto 99 anni ed aveva finito in paese i suoi lunghi giorni.

Nca certu, non te lo ricordi? Dopo la guerra è tornato. Mio zio però no. Nel frattempo era stato ammazzato, lì in Africa. Dei bastardi lo hanno aggredito, una sera, per derubarlo. Era bello mio zio, un uomo meraviglioso. Sti disgraziati lhanno preso e lhanno ammazzato. Alza la voce, quando racconta questo episodio. Sono passati tanti anni, ma il dolore che ha provato da bambina riemerge senza filtri. Si lascia andare a qualche imprecazione, io la lascio sfogare.

Certo che ne hai viste tante – dico, più a me stessa che a lei. Prendo un altro biscotto ai fichi, lo mastico rumorosamente prima di continuare – la guerra da bambina, poi il terremoto del 68. Che altro?

Ma il terremoto, sì, certo, è stato brutto, ci furono tanti danni, vero, però per fortuna io avevo a mio fratello al nord e col nonno e tua madre, che era piccolina, e tua zia, che era neonata, abbiamo fatto le valigie e siamo andati da lui. Un giorno mio fratello mi ha pure portata a Milano in macchina. Ancora me la ricordo, Milano. Abbiamo visto il duomo, una piazza gigantesca.

Quella doveva essere stata lunica volta che la nonna era uscita dalla Sicilia, per quanto ne sapessi.

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