Francesco Rossi (Sant’Agata Li Battiati, Catania) | Via Garibaldi | Prima opera classificata Sezione Racconti autobiografici | Thrinakìa Settima edizione Premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | Motivazione della giuria: Con una prosa fluida e coinvolgente, l’autore riesce a costruire un puzzle in cui si intrecciano ricordi e sentimenti, alcuni palesemente descritti, altri nascosti tra le righe del racconto e destinati alla sensibilità di chi legge. Accurata la scelta dei personaggi, incastonate le espressioni dialettali e vivide le tensioni emotive in un racconto appassionante e ben articolato.
Thrinakìa settima edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia | 31 maggio 2024 | Il Maggio dei Libri | Palazzo della Cultura | Città di Catania
Giorno 27 agosto alle ore 20 presso il Cinema La Rosa si svolgerà
Il I° Festival della Canzone Aidonese
Con la partecipazione del presentatore Franco Gribaudo
Ingresso: Adulti £. 1.000. Ridotto (Donne, Bambini e Militari) £.500
Fu, in effetti, un grande successo. Il cinema La Rosa era strapieno. Le persone all’impiedi superavano quelli sedute. La gara, iniziata alle nove di sera, finì dopo mezzanotte. Gianna, la figlia di Mario, si classificò al secondo posto. I sostenitori dei vari concorrenti iniziarono prima a mugugnare poi a gridare contro la giuria e infine a venire alle mani tra loro. Tra il pubblico, eravamo presenti anche noi, tutti imbellettati e gioiosi. Papà ci portò via di corsa molto contrariato, quando cominciarono a volare i primi ceffoni.
L’indomani a mezzogiorno, poco prima di pranzare, dal balcone della cucina mio padre vide Gasparino che faceva su e giù nel suo terrazzo, come una tigre in gabbia.
«Gasparino, bella serata ieri, ah?! È andata bene, mi pare, no?».
«Si, è andata bene, ma è finita male».
«E certo… se avessero evitato di darsele di santa ragione…».
«Non per quello, Vicenzì… che disastro!».
«E allora perché?».
«È andata male, Vicenzi’, molto male», continuava a ripetere Gasparino.
«E come mai?».
«Eh… come mai… perché la mamma dei cornuti è sempre incinta, come quella dei creduloni, come me».
«Che è successo, Gasperino?» chiese preoccupato mio padre rivolto a quell’amico che stava per venire alle lacrime.
«È successo che, finito lo spettacolo, Franco Gribaudo si è andato a prendere l’incasso dicendo a Filippo La Rosa che avrebbe messo lui in sicurezza i soldi nell’albergo dove dormiva, gli ha poi chiesto di dire a me e a Mario di andare da lui in mattinata per dividerli, come da accordi».
«E stamattina ci sei andato?».
«Da lì sto venendo!».
«E comu finiu?».
«Finiu ca stamatina alle sette ci siamo visti con Mario e Filippo per andare all’albergo di Gribaudo, arrivati lì davanti abbiamo aspettato che scendesse, ma non scendeva».
«Non scendeva».
«Non signore!».
«E quindi?».
«E quindi siamo entrati e abbiamo chiesto al portiere di chiamarlo in stanza».
«Mi sembra giusto…».
«E quello ci risponde che il signor Gribaudo questa notte non ha pernottato in albergo, che se n’è andato ieri sera senza pagare dicendo che stamattina sarebbero arrivate tre persone a saldare il conto».
«Figghiu di buonadonna!».
«Ma quali buonadonna, Vicenzì, chidda buttana vera era! Buttanazza della miseria!».
Pochi mesi dopo la triste vicenda della prima e unica edizione del Festival della canzone aidonese, si svolsero le elezioni comunali. Il candidato sindaco nella lista della Dc, il professor Cerasa, convinse papà a candidarsi come consigliere comunale.
Il professor Cerasa è stato sindaco per oltre quindici anni. Ha amministrato attorniandosi di amici fedeli che mai lo hanno contrastato, né messo in dubbio, le sue decisioni. Era un professore di matematica al Liceo scientifico di Caltagirone. Si era creato una consistente base elettorale che lo appoggiava a ogni tornata elettorale. I candidati che sosteneva per le elezioni provinciali, regionali e per le Politiche, ad Aidone prendevano sempre la maggioranza dei voti.
Carattere forte e atteggiamento serioso, il professore Cerasa era un uomo molto alto, con una vistosa scoliosi che lo incurvava sul lato destro e gli rendeva il passo dinoccolato. Amava vestirsi bene, sempre con una certa eleganza e sempre con un bel cappello sulla testa. La mattina usciva da casa, passava dal giornalaio per ritirare il suo fascio di giornali, entrava nel bar Cammarata, a quell’ora già pieno di clienti, e, quando si avvicinava alla cassa per pagare, c’era sempre qualcuno che diceva: «Il caffè del professore è pagato».
In quell’elezione, papà prese centoventicinque voti di preferenza che non furono sufficienti per assumere la carica di consigliere. Fu il primo dei non eletti e gli fu affidato un posto di sottogoverno: presidente dell’ECA.
L’Ente comunale di assistenza si occupava di dare sostegno economico alle numerose famiglie che vivevano in condizione di povertà. Ogni mese, la Prefettura mandava delle somme che l’ente distribuiva secondo un elenco compilato dagli uffici comunali. Non essendo molto addentro alle pratiche burocratiche e ai resoconti che mensilmente richiedeva la Prefettura, assunse come impiegato un suo grande amico, Peppuccio Baviera, disoccupato.
L’ufficio dell’ECA era in una bottega di via Garibaldi, quasi di fronte a casa mia e ogni volta che andavo a chiamare mio padre vedevo il signor Baviera talmente dedicato alle sue carte e ai suoi conteggi che non si accorgeva nemmeno della mia presenza. Un giorno chiesi a mio padre chi fosse e cosa facesse quel signore.
Peppuccio era uno studente ginnasiale quando a soli diciassette anni, nel 1940, si era arruolato volontario nell’Esercito. Fu assegnato al 21° Reggimento Artiglieria a Piacenza e poi destinato a Saluzzo a far parte della Divisione “Ravenna”. Nel giugno del 1942 partì per il fronte russo. Prima della partenza mandò ai genitori una foto dove dietro scrisse: Genitori carissimi, parto tranquillo, sono felice di servire la Patria, se la morte dovesse rapirmi non piangetemi, mi attende in Cielo la gloria degli Eroi. W l’Italia, Vostro Peppuccio. Peppuccio narrò la sua avventura in un libretto:Un Artigliere dell’eroica Divisione “Ravenna” ex combattente sul Fronte Russo racconta….. (cinque punti di sospensione).
I tre puntini, infatti, non sarebbero bastati a generare nel lettore il giusto appetito per un racconto dai toni patriottici che non avrebbe deluso le attese, in cui, oltre alle gesta eroiche compiute sugli argini del Don, si narrava la storia d’amore con Sonia fanciulla angelica, universitaria a Leningrado, intelligentissima, che per circa tre mesi fu nei miei confronti madre e sorella. Conosciuta durante i combattimenti a Gomel, in Bielorussia, Sonia fece perdere la testa a Peppuccio. Lei nondimeno; al punto che avrebbe voluto trattenerlo con sé in Russia. Il giovane Peppuccio, tuttavia, si sentì costretto, per riabbracciare la madre, a rientrare in Italia. Il primo maggio del 1943, la partenza della tradotta e l’ultimo bacio a Sonia sono narrati nelle ultime pagine del libretto come un Addio ai monti struggente e appassionato: Sarà la sua vita un eterno tormento? Che Iddio nella sua infinita bontà ti protegga e assista. Sonia Addio.
Tornato ad Aidone, Peppuccio fu accolto come un eroe da genitori, fratelli, zii, cugini e dalla fidanzata che aveva lasciato alla partenza. Era triste, continuava a pensare al figlio lasciato nel grembo di Sonia. Una sera raccontò tutto alla sposa promessa che lo lasciò con uno schiaffo. Quando i paesani seppero dell’accaduto, per il povero Peppuccio fu la fine. I parenti, ad eccezione della madre, non lo vollero più vedere. Fu abbandonato al suo destino di una vita di solitudine e senza lavoro. Gli rimase solo qualche amico, tra questi mio padre.
Subito dopo la presa delle consegne come presidente dell’ECA, fu proprio Peppuccio a mettere mio padre all’allerta sulla stravagante lista dei “poveri” che era stata ereditata dalla passata amministrazione e ai quali l’ente avrebbe dovuto elargire gli aiuti economici. Si accorse, infatti, che in mezzo a quella lista c’erano i nomi di amici o famigliari di alcuni consiglieri, di alcuni assessori e del sindaco; e soprattutto c’erano quelli dei portatori di voti più influenti nel paese.
Mi padre non ci pensò due volte: tolse quei nomi dalla lista e aumentò la quota mensile degli aiuti a coloro che ne avevano effettivamente bisogno. Alla fine del mese, fu la rivoluzione. Quelli che non avevano ricevuto il sostegno si rivolsero ai loro padrini che a loro volta andarono a protestare dal sindaco.
Una mattina, mentre ero nella falegnameria e osservavo mio padre che impellicciava, suonò il telefono e mi chiese di andare a rispondere e che, se avessero chiesto di lui, di dire che stava lavorando e non poteva lasciare.
«Buongiorno, sono il segretario comunale, mi passi papà?».
«Mio papà mi ha detto che sta lavorando e non può lasciare».
«Di’ a papà che il sindaco lo aspetta nel suo ufficio alle undici».
«Un attimo… glielo dico».
Scesi in bottega e riferii.
«Di’ al segretario che potrò andare al Comune verso mezzogiorno, oppure domani».
Ripresi la cornetta: il segretario si accordò per mezzogiorno.
Vidi uscire papà alle dodici e mezza, rientrò dopo nemmeno un’ora visibilmente scocciato. Io non gli chiesi niente perché lo temevo quando era in quello stato. Solo dopo molti anni, quando mi fui fatto uomo anch’io, mi raccontò come andò quell’incontro.
«Si accomodi. È da un’ora e mezzo che lo stiamo aspettando».
«Lo so, professore. Non giocavo a carte, stavo lavorando e non potevo lasciare».
«Va bene! Va bene! Mi vuole dire perché negli elenchi dei poveri ha tolto delle persone che noi abbiamo sempre assistito?».
«Ecco, signor sindaco, ha detto bene: negli elenchi dei poveri quelle persone non ci possono stare, perché messe in quelle liste offendono i veri poveri, e gli rubano pure i soldi».
«Che cosa sta dicendo? Quelle persone ci sono sempre state e sempre ci saranno».
«Ci sono state prima. Ora non ci possono più stare».
«Stia attento a quello che fa. Stia attento!».
«Mi disse proprio così:stia attento! Ti rendi conto?».
«E tu che facesti?».
«Andai da un pesce più grosso di lui».
«Chi?».
«Il Prefetto. Mi rassicurò e mi incoraggiò a proseguire per la mia strada».
Papà continuò con questo sistema ad amministrare l’ente. Inoltre, dava lavoro agli operai disoccupati facendo riparare le strade nelle zone periferiche del paese. Prima di finire il suo mandato quinquennale, fece sistemare la piazza del belvedere, che ancora oggi è il punto di incontro dei paesani quando in estate vanno a prendere il sole alla Costa.
La Costa è un luogo molto speciale di Aidone. Un posto di ritrovo. In estate è infatti il luogo del passeggio e dove ci si affaccia per vedere ‘u ioch ‘u focu alla mezzanotte del dieci agosto, per la festa del patrono, San Lorenzo. Ma è anche un posto malinconico, di solitudine, soprattutto nei mesi invernali, quando il paese si svuota dei suoi tanti emigrati, che affluiscono in gran quantità solo a Pasqua e per le ferie estive.
Quando si è soli, ciò che si prova nell’affacciarsi alla terrazza della Costa di Aidone non è dissimile dal sentimento vertiginoso del perdersi nell’infinito delle onde di un mare di terra. Ciò che si vede è tutta la vallata che si staglia tra gli Erei e l’Etna, campi sterminati, declivi assolati, colline seminate a cereali, giardini di arance, viti, uliveti. E il colore tenue di quei campi, l’orizzonte interrotto solo dal vulcano, è veramente come un mare dove naufragare col pensiero.
C’è un momento esatto nella mia vita dove il passaggio sulla Costa di Aidone smette di essere esperienza e diventa ricordo. Fu quando me ne andai a Catania, in collegio, dai gesuiti, ero poco più di un bambino. Accadde esattamente a un mese della festa di San Lorenzo, passata come sempre a passeggiare con mamma, papà e Angelina su quel belvedere. E da quella Costa passai quando, un dieci settembre, all’alba, dentro un vecchio autobus, dissi inconsapevolmente addio alla mia infanzia. Ricordo ancora non tanto i pensieri, quanto un rumore, un suono, che in quei momenti mi frullava in testa; era il rumore della macchina da cucire a pedale della sartoria di Pino Milazzo.
D’estate, con i finestroni aperti su via Garibaldi, stretta com’era su due ordini di palazzi alti al punto da generare un riverbero abbastanza percepibile, cominciavi a sentire quel ticchettio, come una specie di richiamo, già all’altezza del panificio; per cui dallo stimolo olfattivo si passava sfumando a quello uditivo, per culminare, in un breve crescendo, all’estasi degli occhi, fissi e adoranti sull’ultima foggia esposta in vetrina.
La sartoria era un mondo di disordine ordinato, dominato dal bancone di legno, tutto adornato di utensili e colori: il metro di legno, quello di plastica, le spagnolette e i vari tipi di filo, e le stoffe nelle varie fasi di cucitura degli abiti. Tutto intorno, sedie di zammarina, banchetti, tavolini, le macchine da cucire, una grande e una piccola, pezze appoggiate negli scaffali, stoffe tagliate pronte per essere cucite, parti di abiti da unire, fino al vestito quasi completo indossato dal manichino per togliere eventuali difetti o imperfezioni.
Quell’officina di bellezza era governata alla perfezione da mastro Milazzo, persona gentile e di bell’aspetto, alto e sempre ben vestito, con uno spezzato di blu e di grigio, il più delle volte. Lo vedevo ricurvo, seduto su un banchetto o su una sedia bassa, a cucire, attorniato dai carusi che da lui imparavano il mestiere. Il mastro prendeva le misure ai clienti, tagliava la stoffa per l’abito e iniziava a cucire la giacca mentre affidava ai giuvini la manifattura dei pantaloni.
Anche il loro modo di lavorare era uno spettacolo per gli occhi, formiche laboriose capaci di ripetere centinaia di volte una magia: creare, da un pezzo di stoffa, un abito perfetto. Nel periodo di Pasqua, per il primo di maggio e per il dieci di agosto, il mastro e i ragazzi lavoravano anche di notte per consegnare gli abiti in tempo. Tante erano le richieste e talvolta capitava che il vestito arrivasse dopo che san Filippo, san Lorenzo, Maria addolorata e il Risorto fossero usciti delle chiese di pertinenza. Ciò generava invocazioni ai santi non proprio ortodosse in chi se ne stava seduto in terrazza con lo sguardo fisso sulla strada ad aspettare in canottiera e con la mancia in mano il ragazzo della sartoria che avrebbe consegnato l’abito e che ancora non arrivava.
Il mio primo vestito, con giacca e pantaloni lunghi, invece arrivò in tempo. Avevo compiuto dieci anni da qualche mese e fu mio padre, naturalmente, ad accompagnarmi dal sarto degli uomini. Scegliemmo la stoffa che ci era stata consigliata da mastro Milazzo, mi feci prendere le misure, e andai a provarlo due volte. Mi venne consegnato la mattina della festa. Era tutto mio!
Iniziò la vestizione: aiutato dalla mamma indossai le mutandine, la maglietta, le calze, le scarpe, la camicia, la cravatta e finalmente il vestito. La felicità mi pervase e subito andai in piazza per farlo vedere agli amici. Il pomeriggio feci il giro degli zii e dei nonni; constatarono ammirati che ero un uomo ormai, ed elargirono il premio in denaro per aver raggiunto l’età del primo vestito con la giacca e i pantaloni lunghi. Un pegno. Che solo molti anni dopo capii essere piuttosto un premio di consolazione che sanciva il definitivo distacco dall’età dell’innocenza, trascorsa in quegli indimenticabili anni Cinquanta, ad Aidone, in via Garibaldi.