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Thrinakìa quinta edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.21 N.1 2023

Memorie dall’isola del sole

Elena Traina

magma@analisiqualitativa.com

Seregno, Monza e Brianza, 1990 - Norwich Norfolk, Regno Unito.

Abstract

Un estratto dal diario di viaggio Memorie dall’isola del sole (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), terza opera classificata nella sezione diari di viaggio del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.

 

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Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage

1990

Non ho ricordi. Ma mi raccontano che nell’agosto del ‘90, dopo uno spettacolare mondiale, volo in Sicilia per la prima volta, e sono ancora in fasce. Cugini e zie fanno a turno per tenermi in braccio come un trofeo, sentenziando, unanimi, che sono tutta mia nonna Rosalia, alla quale nessuno sa che rimangono pochi mesi di vita.

Una cugina di papà mi fa il buco alle orecchie. Con l’orecchino stesso, mi raccontano. In paese si sentono le mie urla.

1996

Comincio a ricordare frammenti delle estati precedenti. Mio zio Nino, che ha un occhio verde e uno azzurro, e la pelle abbronzata e rattrappita come quella degli ulivi, mi fa fare i giri sulla sua mula bianca Merlina, e la zia Giovannina ci prepara le vavaluci al sugo, che alla lunga non mi faranno più impressione.

Condivido il senso di anticipazione che regna tra i paesani e gli emigrati di ritorno durante le settimane che precedono la Festa della Madonna. Ci saranno i fuochi d’artificio. La processione. Le bancarelle, e forse mamma e papà mi prenderanno un giocattolo.

Nei tre giorni prima della festa, suoni di cannone ci svegliano la mattina. Vado a rifugiarmi, in lacrime, nel lettone. «È solo l’alborata» mi spiega la mamma. Scopro che non mi piace l’alborata. E scopro che non mi piacciono i fuochi d’artificio, per cui mamma e papà mi lasciano dalla zia Rosina, sorella di mia nonna Rosalia, e insieme guardiamo Giochi senza frontiere.

Alle bancarelle, papà mi compra un diario per la scuola e uno zainetto colorato lucido, che a fine estate sarà pieno di conchiglie. Anche Marco vuole un diario, e lo sceglie dei Power Rangers. Solo che poi un pezzettino della carta che lo riveste si stacca, e scopre che è in realtà un diario di Ambra Angiolini mascherato da Power Rangers. Rido come una pazza e glielo rinfaccio fino a settembre.

1999

Dal garage dei nonni si alza un profumo di salsa, la nonna è giù che riempie le bottiglie con la mamma e la zia. Il nonno Domenico è seduto in balcone, sulla sedia di vimini. Ai suoi piedi ci siamo io, Marco, e i miei cugini Massimo e Monica. I miei altri cugini Domenico e Fabiana non ci sono, forse aiutano gli zii a raccogliere le mandorle.

Nonno Domenico ci racconta della Siberia, di quando l’avevano mandato a pelare patate in una fabbrica di zucchero, dove a chiunque fosse beccato a sgraffignare un po’ di zucchero strappavano le unghie dalle dita. Il nonno dice che adesso è l’uomo più ricco del mondo, perché ha sei nipoti.

Per la prima volta, penso, partecipo alla processione. Mi raccontano della pastorella Angelina, cieca, alla quale apparve una visione che le indicava il luogo di sepoltura della statuetta della Madonna che ancora oggi viene portata in processione. Decine di donne anziane, alcune vestite di nero, fanno la processione a piedi nudi. Non capisco se stanno chiedendo perdono o favori.

«Fanno voto alla Madonnina» mi spiega mia zia Antonella, che è nel comitato di raccolta fondi per la Festa, e va in giro a bussare a casa della gente. (E se non si donano almeno cinquantamila lire, poi la gente parla, mi spiega papà.)

Imparo i canti e le invocazioni, che vengono ripetuti per così tante volte che anche durante il viaggio di ritorno mi rimangono in testa. «Decimila vote ludammu a Maria di la Rocca. Maria di la Rocca è na gran signura. Miraculusa la Vergine Pura. Ventimila vote…».

Ogni tanto li ripeto a sorpresa, in macchina, sovrastando Battisti, e mamma, papà, e perfino Marco, si uniscono, ridendo.

2003

Mi sono creata un gruppo di amici, e neanche io so bene come ho fatto, dato che non parlo molto con gli sconosciuti. La maggior parte sono un po’ più piccoli di me - un anno o due - e mi seguono dappertutto, come proseliti, anche fino alla casa su al convento, con grande sorpresa e divertimento di mia mamma, che comunque offre da mangiare a tutti.

Ci divertiamo con molto poco, giocando a briscola (che ormai sono un paio d’anni che imparo durante l’estate e disimparo tornata a casa), consumando quintali di granita, che viene ancora un euro a coppetta. Il nostro quartiere generale è la Villa, che mi ha sempre confuso perché non ha ville né edifici, è un semplice parchetto con un bar e dei tavoli al centro. Però è in una posizione fantastica, da cui si vedono la diga e le colline, e di sera i villaggi intorno illuminati.

Con gli amici, prendiamo parte alla processione, guardiamo insieme i fuochi d’artificio, facciamo avanti e indietro guardando le bancarelle e comprando audiocassette tarocche del Festivalbar, e l’ultimo giorno ci intrufoliamo al concerto che ogni anno chiude la Festa, di solito con qualche artista conosciuto ma un po’ demodé e, di conseguenza, abbastanza economico - un anno Bennato, un anno gli Stadio - quest’anno invece c’è mio Cugino Grande Daniele, che fa il cantautore.

Al momento di lasciare il paese, con la macchina stracarica di valigie nel cortile della nonna, i miei amici sono tutti lì, a salutarmi. Il più piccolo di tutti, Salvatore, detto Ciciddro, mi regala un sacchetto di pesche, che sono le più enormi, bianche e succose che abbia mai assaggiato.

Faccio ciao con la mano dal lunotto, senza sforzarmi di trattenere le lacrime, tanto mamma e papà sono girati. La mamma mi sorprende quando commenta: «Che peccato tornare a casa».

2004

È l’estate del funerale di nonno Domenico, e quella in cui io e mio fratello scopriamo che nella nostra famiglia non è tutto ordinario, al limite del tedio, come appare. I nostri genitori ci dicono che possiamo restare a casa durante il funerale, una concessione che ancora stento a spiegarmi, conoscendo i loro formalismi. Questa decisione non passa inosservata, né passano inosservati i pantaloni corti di papà in chiesa, anche se fa un caldo pazzesco.

A un certo punto dell’estate vedo mia mamma piangere per la prima e unica volta in tutta la mia vita. Mio papà e mio zio Giovanni, fratello di mia mamma, non si parlano. Non ricordo come, ma in qualche modo alla fine si riappacificano. Forse alla maniera dei siciliani, non dicendosi niente ma andando avanti ognuno per la propria strada.

Forse nel tentativo di riportare un po’ di normalità, papà ci porta al mare per una settimana intera. È la prima volta. Di solito al mare ci si va in giornata, alzandosi alle sei del mattino, quando la mamma ha già preparato i panini con la carne impanata e la borsa frigo piena di frutta, pronti per un’ora di strada tutta curve fino alla contrada San Giorgio di Sciacca. Quest’anno ci alziamo alle nove, e dieci minuti dopo siamo in spiaggia. Io e Marco facciamo il bagno tutto il giorno, pranziamo alla pineta, digeriamo giocando a carte e ritorniamo in spiaggia fino a sera.

Solo prima di addormentarmi, a volte i miei pensieri vanno al nonno, che diceva di essere l’uomo più ricco del mondo.

2006

Sono un paio d’anni che d’estate frequento Giulio e Anna, lui figlio di emigrati al nord, come me, e lei di Caltanissetta. Ci facciamo video stupidi con la telecamera di papà, parodiando principalmente televendite e musical, sempre alla casa su al convento. Un giorno organizziamo una scampagnata con la nostra compagnia di ragazzi e i nostri relativi genitori, i quali con generosità e spirito di festa ci portano in macchina al Bosco della Buona Notte, alla Quisquina, dietro l’eremo di Santa Rosalia che ormai chiedo di visitare ogni anno.

Grigliamo carne condita con l’olio e consumiamo chili e chili di anguria e pesche Bivona. Nel pomeriggio, mentre i grandi giocano a scala quaranta o schiacciano una siesta, chiediamo il permesso di fare un giro nei boschi intorno. «Basta che non vi perdiate».

A capo della spedizione ci sono io, che non permetterei mai che qualcosa capiti alla mia banda di Bimbi Sperduti. Ci addentriamo nella macchia, facendo a gara a chi trova più pinoli. Cantiamo canzoni dei cartoni animati, il tempo vola. Costeggiamo una strada in mezzo alle colline e comincio a chiedermi quando, esattamente, abbiamo lasciato i boschi. Non abbiamo idea di dove si trovi il Bosco della Buona Notte, e sul Nokia che mi ha prestato la mamma ci sono zero tacche.

Facciamo marcia indietro e andiamo sempre dritto. Ci passa di fianco la macchina della forestale, ma non faccio in tempo a fermarla. Arriviamo al bosco quando il sole è già basso sull’orizzonte, e i nostri genitori hanno l’aria preoccupata, ma non troppo. Inspiegabilmente, non riceviamo nessun cazziatone. «Stavamo per chiamare la forestale», scherza papà. Sarà l’aria della Sicilia.

2009

Fino alla fine delle superiori, le estati in Sicilia si fanno un po’ più rade. Sarà perché cominciano le vacanze-studio in Inghilterra e in Spagna, e i primi viaggi da sola, in Irlanda, ma trovo sempre più scuse per non scendere.

Negli ultimi anni ha cominciato a pesarmi il maledetto giroparenti, come lo chiamiamo io e mio fratello, quel rito per cui non appena arrivati bisogna andare a salutare tutte le zie e tutti i cugini sia da parte di mamma che di papà, e rifare il giro prima di andarsene. E se facciamo il conto che ogni nonno aveva in media sette fratelli o sorelle, stiamo parlando di mezzo paese, una quantità infinita di caffè e ore ed ore seduti a tavola. Curioso come questo non mi pesasse nelle estati che seguivano la Comunione e la Cresima, quando la mia presenza veniva ricompensata con una generosa busta, poi scialacquata alla bancarelle della festa.

2015

È un anno decisamente strano. Ho venticinque anni e non me li sento, è come se in teoria avessi già dovuto decidere che cosa fare della mia vita da un bel pezzo, ma sono ancora in alto mare. Così, per la prima volta, decido di scendere in Sicilia in primavera, non d’estate.

Dormo dalla nonna, ma lavoro su al convento, perché dalla nonna c’è sempre qualcosa da fare. Mi vuole bene, ma non capisce che io non sono qua in vacanza. Una volta, sento la mia vicina di casa riferirsi a me come la milanisa. Non me la prendo, ho abbastanza anni di sopportazione alle spalle. I figli di migranti sono condannati a essere i ritagli della società ovunque vadano. Al sud, sono quelli del nord. Al nord, sono quelli del sud.

Non tardo a rendermi conto che in questo paese non c’è nulla da fare e l’intrattenimento principale dei suoi abitanti… sono gli abitanti stessi, e i loro più o meno gravi peccati. Dopo pochi giorni, cugini e amiche mi hanno raccontato tutto di tutti.

Un giorno giuro che torno qui e ci scrivo un romanzo, ma per adesso devo concentrarmi sui miei progetti, che non vanno molto bene. Mi distraggo facilmente, mi sorprendo a pensare alla nonna che ci rimane male e agli zii che sparlano, e quando invece il lavoro va bene, dalla finestra comincia la litania: «Ovaaa, ovaaa». «Lenzuolini, vestitini, calze per donna». «Chi bedde millinciane chi aaaiu». «Vendo forni, forni elettrici». E l’inquietante musichetta del gelataio. Non è un paese per introversi.

2020

Quest’estate non andrò in Sicilia. Non credo. È ancora troppo presto e non ho le forze necessarie per affrontare la domanda che tutti vorranno farmi. Qualcosa di spezzato ce l’ho dentro anch’io, e lo so che farà fatica a guarire, ma non mi sento di affidare alla Sicilia anche questa responsabilità. Preferisco aspettare, perché un giorno, quando tornerò, lo farò col sorriso sulle labbra e la curiosità di raccogliere nuovi ricordi, di ascoltare nuove storie e di solcare nuovi, e sempre antichi, paesaggi.

E ci saranno interminabili pranzi, vagonate di pasta con la salsa, carne arrostuta e pane cunzato con l’olio. I caffè del giroparenti, le bomboniere di matrimonio dei miei cugini e quelle di battesimo dei loro primogeniti. Bucce di mandorla sul pavimento dei garage, e mandorle stese al sole a seccare nei cortili. La sinfonia dei venditori ambulanti, ognuno col proprio furgone, e vasche di ricotta fresca per farci la pasta, e vestiti comprati al mercato perché costano meno. L’alborata, il comitato della festa che suona il campanello, è ora di preparare la busta con i cinquanta euro. La processione, i fuochi d’artificio, le bancarelle, il concerto. La gita all’eremo di Santa Rosalia, quella alla Valle dei Templi, e le giornate al mare a San Giorgio.

Vortici di polvere e piume di piccione a lu curtigliu e sul balcone della casa su al convento, che è sempre lì, in attesa che io ritorni per scriverci, chissà, forse un romanzo sulla mia isola, l’isola del sole.

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