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Thrinakìa cinquième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.21 N.1 2023

Don Giovannino

Giuseppe Arabito

magma@analisiqualitativa.com

Napoli, 1956 - Manziana, Roma, 2020.

Abstract

Un estratto dal racconto autobiografico Don Giovannino (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), prima opera classificata nella sezione racconti autobiografici del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.

 

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Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage

Le ruote corrono, perfettamente appaiate. Nere, coi numeri bianchi. Procedono parallele, ipnotiche. Mi affascina, guardarle girare. Mi metto sull’attenti davanti alla colonnina della normale e le scruto. Ruotano silenziose, mostrando litri e lire.

Un forte odore di benzina si diffonde intorno. A un sapiente comando del Don, le ruote rallentano e si fermano esattamente su di un numero. Quella di destra indica la cifra da pagare. È sempre un multiplo di quella dei litri, a sinistra. Dieci litri mille lire. Oppure venti duemila, se l’automobilista è ricco.

Il Don apre un borsello nero che tiene alla cintura e incassa i soldi. L’auto riparte. Giovanni Cutrone è il benzinaio e io il bambino che l’osserva. Per me lui è semplicemente Don Giovannino.

Negli anni Sessanta l’unico distributore Shell a Chiaramonte Gulfi, paese dei miei nonni, si trovava in Corso Umberto. Ce n’era anche un altro, scendendo verso la Villa. Era l’AGIP di Don Matteo, ma noi non ci andavamo. Troppo lontano!

Io e mio cugino Pippo abitavamo ai lati opposti del Corso. Tutte le estati arrivavo a casa del nonno coi miei per trascorrervi due o tre settimane. Pippo abitava dirimpetto. Non appena giungevo lui correva subito a incontrarmi. Mi voleva bene.

Giocavamo sempre sullo stesso lato del marciapiede. Ad esempio con la sua automobile a pedali rossa fiammante. Andavamo a turno. Molti giri lui, uno solo io. Ma non faceva niente. Lui era più piccolo, e gli volevo bene.

Sul marciapiede c’erano nell’ordine: il Salone Centrale del nonno, la Shell e lo spaccio dei Fratelli Scollo. Ci era proibito oltrepassare quest’ultimo. Più in là veniva “u’ stratuni” (lo stradone, Via Santa Caterina) ed era severamente proibito scendere in Piazza.

Per attraversare il Corso era necessario farci accompagnare. Non è che si potesse andare in quattro e quattr’otto sulla sponda opposta da Don Vito Calabrese, calzolaio. Andava chiesto l’aiuto di un grande. Gli stratuna erano pericolosissimi, ci ammonivano nonni e genitori. Potevamo finire sotto una macchina!

Così poteva accadere una mattina di agosto 1963, quando la mia sorellina di 3 anni e mezzo si svegliò all’alba e scese di soppiatto dal lettino accanto a quello dei miei. Disorientata dalla casa estranea, lei scese per le scale e s’inoltrò in Corso Umberto. Don Giovannino era lì che stava aprendo la stazione di servizio e vide una bambina svestita, scalza e con una bambola in mano, in mezzo allo stratuni.Non sapeva chi fosse ma le corse dietro, la prese in braccio e cominciò a bussare ai vari campanelli. Dopo alcuni tentativi trovò quello giusto. Non c’era ancora il citofono e lui da sotto gridò «Don Peppieno… voscia ene, ‘sta carusa?» e nel trambusto così provocato aggiunse «…a picciridda si nni stiva iennu sula p’u stratuni!» .

La bambina sola per il Corso, all’alba! Pochi secondi e scesero mia mamma in sottana, ansiosa e scarmigliata, e mio padre in mutandoni con le mani fra i capelli. Subito Don Giovannino depose fra le braccia di mia mamma la piccola intorpidita. Emanuela era intimidita più che altro perché, dalle voci alterate dei vicini e dalle facce spaventate dei grandi, capiva d’aver commesso qualcosa di tremendo.

Ma cosa, poi? Voleva solo portare la bambola a fare una passeggiata alla Villa… L’inconsueta sveglia mattutina si concluse col rientro in casa dei miei, tanti ringraziamenti al benzinaio e le chiacchiere delle comari.

Dopo quest’episodio io e mio cugino cominciammo a frequentare il distributore Shell. Don Giovannino c’insegnava un sacco di cose. C’erano due benzine, che costavano 100 e 105 lire al litro e venivano fuori da due colonnine apposite. Mi piaceva molto, il simbolo giallo e rosso della Shell, e mi chiedevo sempre «ma che cosa rappresenta quel ventaglio?» senza capire che non era un ventaglio ma una conchiglia, forse una cappasanta.

Accanto alla colonnina della normale c’era quella della super. Il suo contatore mi piaceva meno. A causa del costo differente, la ruota dei soldi correva un po’ più veloce di quella della benzina. Questo rompeva la simmetria, cosa che a me dava - non so perché - fastidio.

Quando mi stancavo di osservare i contatori, guardavo la colonna di lato. Avevano una finestrella trasparente con una piccola elica all’interno, che mostrava quale tipo di liquido scorreva. Era giallo-arancio, oppure rosso. Io credevo che questi fossero i colori reali delle benzine. Non sapevo che i prodotti petroliferi venivano colorati apposta per distinguerli. E neppure che ciò che non si poteva colorare, veniva profumato. Anzi, sprofumato.

«Qui c’è puzza di gas!» sentenziava la nonna di Napoli, ed erano i mercaptani aggiunti apposta al gas (inodore) perché i nostri nasi potessero accorgersene. Io la prendevo in giro: «No, sono le scorregge del nonno!». Anche l’odore delle benzine era inconfondibile e lo si avvertiva appena il Don estraeva l’erogatore come una pistola facendo il gesto di spararci, prima d’infilarlo nel serbatoio.

Per noi lui era un pistolero. Nel 1963 i western c’incantavano. Il Cinema d’Avola lì vicino ne dava in quantità. Il gestore ci faceva entrare gratis da una porticina nascosta e noi c’installavamo seduti e buoni per due spettacoli di fila. Ricordo ancora Il Tesoro del lago d’argento e il suo finale impressionante, coi cattivi che affogavano nelle sabbie mobili. Non conoscevamo ancora il Monco di Sergio Leone - sarebbe arrivato un paio di anni dopo - ma di sparatorie ce n’erano già allora in quantità.

Il bocchettone della benzina era la Colt di Don Giovannino. Quando ci minacciava noi due alzavamo le mani, arrendendoci. Lui sorrideva e si girava verso l’automobile per sparare all’autista. No, non gli sparava, peccato. Rimetteva la pistola nel fodero e si faceva pagare. «Don Giovannino, possiamo sparare anche noi?» « Femmi picciutteddi, chidda ddà nun se po’ tuccari!» Non si poteva toccare. E noi, delusi, desistevamo.

Ma appena il Don si distraeva noi aprivamo la porticina della sua piccola guardiola a vetri e ficcavamo il muso dentro. C’erano uno sgabello e due ripiani. Uno faceva da scrivania: lui si sedeva e compilava moduli. Dal lato del Corso la parete era occupata da tutta una pila di lattine d’olio e prodotti colorati. Sul ripiano opposto c’era un oggetto nero e misterioso.

Ma il Don era sempre vigile e ci sgamava. «Carusi, che facimo dduocu rintra? Niscimu fora!» Ma come, pure lui ci diceva di uscire! Con le stesse parole del nonno, quand’era stufo di vederci andare e venire dal suo Salone. Agitavamo continuamente i pendagli d’alluminio all’ingresso e disturbavamo i clienti che sedevano placidi sulle poltrone girevoli, la faccia impomatata dal Proraso.

Anche nello spaccio dei fratelli Scollo non potevamo entrare senza essere subito presi in osservazione. C’era un odore misto di salumi, formaggi, olio, saponi; e anche pile accatastate di bucatini e spaghetti, lunghissimi. Il doppio dei Barilla.

Uscivamo dallo spaccio perché in quel momento Don Giovannino stava entrando nel casotto a vetri a prelevare un paio di lattine d’olio. Ecco il diversivo! Come un macellaio lui infilzava un apposito beccuccio a coltello nella prima lattina e si dirigeva verso la macchina ferma a cofano aperto.

E noi, appresso. Glu glu… è bravo, Don Giovannino, e non fa cadere neanche una goccia d’olio a terra mentre lo versa direttamente nel motore, senza imbuto. Poi con un rapido movimento scanna pure la seconda lattina, come un pollastro.

Ecco un bestione in arrivo. Il suo motore ruggisce di sete e il pachiderma procede fino alla terza colonnina, quella del gasolio. Non è mai sazio! Occorre qualche minuto, per farlo dissetare. Anche la ruota del gasolio scorre sfasata, ma al contrario: costa meno della normale.

Una Vespa scalcagnata si avvicina e il proprietario poggia la gamba a terra. Ordina: «Miscela!» Il Don si trasforma in oste, e noi dietro. Lui si dirige verso la colonna lontana (quella che ci fa un po’ paura dato che somiglia a un robot) con la sua tipica andatura claudicante.

Già, claudicante. Don Giovannino ha certamente sofferto di poliomielite ed è rimasto con una gamba offesa. Più corta e anche un po’ storta, per quanto io possa vedere. Per compensare la differenza calza uno strano scarponcino nero col tacco alto, obliquo. A me questa calzatura incuriosisce molto e la osservo sempre, ma solo quando lui non se ne accorge. Qualcosa mi dice che il Don non gradirebbe quest’interesse; intuisco che non sarebbe cosa educata, nei suoi confronti.

È estate. A Chiaramonte si muore di caldo ed io ho i sandali… ma Don Giovannino porta sempre questo scarpone nero pesante, opprimente. Mi rendo conto che non può cambiarlo mai. Poverino. Mi fa un po’ pena, per questo. Allora capisco che esistono persone un po’ più sfortunate di me.

Nel frattempo il Don muove ritmicamente una leva e pompa olio nella testa del robot (un cilindro trasparente). Regola la tacca di una ruota dentata con le percentuali e dosa altra benzina sempre all’interno della testa dell’automa, che si riempie. Infine fa scorrere la miscela nel serbatoio del motociclo. Pare un acrobata: esegue strane contorsioni delle braccia per farsi aiutare dalla gravità. Vedo benissimo che la Vespa ha un manubrio molto semplice: una barra tonda di metallo con due lievi curvature alle estremità, sotto cui spuntano le maniglie dei freni e del cambio.

Quell’anno scoprimmo anche un’altra operazione, veramente speciale. La riparazione di una ruota bucata. Era un vero teatro e ci accovacciavamo a terra, gambe incrociate, per goderci tutto lo spettacolo.

Dapprima bisognava aprirla ed estrarre… qualcosa, da dentro. Come avrebbe fatto? La ruota giaceva a terra, ferita. Et voilà. Con un sapiente gioco di mani il Don ficcava, toglieva, rificcava dei ferri argentei che facevano uscire il copertone dal cerchione. Doveva infilarne tre assieme per superare il punto morto, e quando metà copertone era fuori e metà dentro… allora il Don montava letteralmente sopra la ruota e faceva leva col piede zoppo esattamente sul ferro critico mentre ne ficcava un altro nel ventre indifeso del copertone.

Zacke quello cedeva di colpo, usciva dal cerchio metallico e sbatteva a terra sconfitto. Plàf. Don Giovannino vincitore estraeva l’anima della ruota: uno straccetto di gomma nera e floscio. «Chista è ‘a cammara r’aria», spiegava. Ma il bello doveva ancora venire.

Prendeva lo straccetto, lo gonfiava con la pistola ad aria compressa (un’altra arma portentosa!)… Pfffff. E lo straccetto diventava un grosso salvagente nero. Allora lo immergeva in un secchio pieno d’acqua, nel contempo roteandolo. «È per lavarlo?» chiedevamo. Lui non rispondeva, intento com’era a individuare il buco, tradito dalle bollicine.

Eccolo. Trovato! Tutto soddisfatto portava la camera nel casotto, la sgonfiava, prendeva una lima e grattava la zona attorno al buco invisibile. Dopodiché estraeva un tubetto di mastice e religiosamente cominciava a spalmarlo attorno alla ferita. Poi ci deponeva un cerchietto di gomma che ritagliava lui stesso da una vecchia camera d’aria, con le forbici.

E veniva finalmente il turno dell’oggetto misterioso. Era una pressa a caldo. Lui metteva la gomma malata sotto le ganasce e accendeva un tasto. «Si riscalda», diceva. La camera d’aria doveva restare là sotto per un quarto d’ora. Per evitare guai Don Giovannino chiudeva a chiave la porticina della guardiola e andava a sbrigare altre faccende. E bene faceva, perché ci saremmo precipitati dentro a toccare la pressa calda.

L’ultima fase eccitante era il rimontaggio della gomma sanata all’interno del copertone. Era divertente perché la pistola ad aria compressa faceva gonfiare la camera dentro al copertone ma noi già sapevamo che… ecco… Pam! Pam! E gli orli del copertone rialloggiavano per bene nel cerchione.

Se eravamo fortunati gli scoppi avvenivano nel momento esatto in cui una massaia con le borse (o una ragazzina) uscivano dallo spaccio Scollo. Facevano un bel salto di spavento! Infine la ruota poteva tornare sotto l’automobile che attendeva, sollevata, sul martinetto idraulico del Don. Ma si era già fatta ora di pranzo. Dovevamo riattraversare il Corso, per salire le ripide scale della casa di nonno.

Un giorno, mentre stiamo tutti quanti a tavola, bussano al campanello. «Cu’ è?» chiede nonna Elena senza alzarsi. ««Iu!» si sente dabbasso. «Iu cui?» alza la voce mia nonna. «Iu sugnu!» rispondono. Non si capisce chi sia. «Ma cui, iu?» grida mia nonna, un po’ indignata. «Ca iu, sugnu!» ripetono laggiù, indignati anche loro. Non capisco perché qui in Sicilia nessuno voglia mai pronunciare il suo nome e cognome.

Don Peppino Arabito si netta le labbra dal sugo della pasta principessina, si alza e si affaccia all’imbocco delle scale. Non vola una mosca. E lui, con voce stentorea: «Cu è, dduocussutta?» «Don Peppieno, iu sugnu! Ne purtai tanticcia ri racìna!» Capiamo finalmente che si tratta di Don Giovannino, il quale ha portato un dono per la tavolata: la racina. Uva! Allora il patriarca scende di persona per tutta la rampa di scale.

È un gesto di riguardo: il Don non riuscirebbe a salire facilmente. Aguzziamo le orecchie. «Salutammo, ‘on Pippino…» «Talè talè, che bedda! Grazie assai, ‘on Giuvanninu!» «Ri nenti. Vossia ‘bbinirica!» Mio nonno risale con un cartoccio e lo depone a tavola. Dalla carta paglia spuntano grappoloni di chicchi enormi. Grandi come noci, se non addirittura uova. Fra chiacchiere e risate tutti allunghiamo le mani, golosi… Ancor oggi, dopo più di cinquant’anni, ricordo il sapore di quegli acini di moscato e di come mi riempissero la bocca di succo dolcissimo e profumato.

E venne un’altra estate. Corsi subito alle colonnine. Il costo della benzina era differente: le cifre sfasavano su entrambi i contatori. La normale segnava 105 e la super 110 lire al litro. «Anche la normale imbroglia i numeri» pensai indispettito, senza sapere che questo era solo l’inizio del cambiamento. Ma anche se non avessi guardato le ruote mi sarei ugualmente reso conto che del tempo era trascorso.

Per riparare le camere d’aria Don Giovannino non spalmava più il mastice col dito, né ritagliava gomma. Ora c’erano delle pezzette tonde con la colla dietro, già confezionate in barattolo. Stick adesivi. E poi lui gettava la cartina. Proprio come facevo io a casa con la cellina dei miei album di Calciatori Panini. Usare e buttare! L’innovazione tecnologica era arrivata.

L’estate dopo, le colonnine di Don Giovannino indicavano 120-140. E quella successiva, 140-160. Il tempo scorreva sempre più veloce. E l’anno seguente… smisi di occuparmene. Mio nonno aveva ceduto il Salone e si era messo in pensione, mentre io e Pippo eravamo adolescenti e avevamo altri interessi. Io avevo scoperto altri colori, per le benzine. C’era l’azzurro per il kerosene, poi era uscito il verde per una benzina alla moda, tanto per far credere alla gente che faceva bene all’ambiente. La prima di tante mistificazioni.

Neanche mi diedi pensiero quando Don Giovannino, al distributore Shell di Corso Umberto, non lo vidi più. Neanche mi diedi pensiero quando scomparve pure la conchiglia. Il bel logo giallo e rosso della Shell venne sostituto da quello insignificante di un’altra marca americana, che neanche ricordo. Infine, le ruote delle colonnine fecero l’ultimo giro.

Alcuni anni dopo questi avvenimenti me ne stavo andando, ragazzotto, in bicicletta per le vie di Napoli quando forai e mi trovai alle prese con la prima ruota bucata della mia vita. E solo allora mi resi conto che, grazie al vecchio benzinaio di Chiaramonte, sapevo quello che andava fatto.

Quella pompa di benzina oggi non esiste più. L’amico Pino Riggio mi scrisse che Giovanni Cutrone fu assunto come inserviente al Comune di Chiaramonte e poi andò in pensione. Tanti anni fa.

Rivedo adesso Don Giovannino che si allontana zoppicando per il Corso. Porta con sé, faticosamente, la valigia della sua vita. Ma stavolta faccio in tempo.

Corro su per le scale del nonno, apro il balcone, mi affaccio e lo chiamo. «Don Giovannino!» Lui non sente neanche più. Continua ad allontanarsi.

Allora io gli grido con tutto il fiato che ho: «Grazie, Don Giovannino! Grazie per aver salvato mia sorella! Grazie per la racina! E grazie per avermi insegnato a riparare una ruota sgonfia… Addio!»

Lui si ferma. Si volta stancamente, mi vede e fa un cenno di saluto. Poi, sempre più claudicante, riprende il suo ultimo viaggio lungo ‘u stratuni.

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