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Thrinakìa cinquième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.21 N.1 2023

Bianca

Maria Giovanna Scavone

magma@analisiqualitativa.com

Caltanissetta, 1964.

Abstract

Un estratto dalla biografia Bianca (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), terza opera classificata nella sezione biografie del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.

 

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Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage

«Bianca era una ragazza vissuta nei primi anni dieci del secolo scorso la cui storia è stata raccontata in modo frammentario e incompleto perché era una brutta storia. Ricordo che mio suocero, quando me la raccontò, io ero fidanzata, mi disse: «Io avevo una zia e questa zia morì malamente». È stato molto difficile fargli raccontare questa storia. Bianca era una contadina della Sicilia dell’entroterra. Brulla era la terra e brulla era la vita. Le ragazze lavoravano come gli uomini e dipendevano dai tempi e dai ritmi della campagna. Questa ragazza sognava di essere diversa da quella che era ma era un sogno che non poteva permettersi, che non riusciva a permettersi. A un certo momento della sua vita ha pensato di poter sognare questo sogno ma non è andata come lei sperava.» (Maria Giovanna Scavone)

Per tutto il giorno non fece che pensare a quella storia, divisa tra l’emozione e la paura. Se suo padre l’avesse saputo! Se suo fratello avesse sospettato! No che non ci andava, quella sera, e tutto sarebbe finito lì. Però continuava a pensarci, mentre le sembrava di sentire dentro il petto ogni minuto che passava, pregando perché facesse buio presto, presto arrivassero le dieci e poi passassero, e fosse notte, e dopo la notte un nuovo giorno. E per allora lei avrebbe già dimenticato.

Più tardi, stesa sul letto che le sembrava più duro del solito, un orecchio a Giacomino che dormiva accanto a lei, non riusciva a prendere sonno. Improvvisamente, sentì un fischio lungo e leggero, pochi secondi di silenzio, e poi, ancora, lo stesso, ma più sommesso. Piano piano si levò, cercando di vedere nel buio. Tutti dormivano, immobili, e su tutti, il respiro pesante di Paolino che di tanto in tanto sembrava un mugugno.

Con la gola stretta, risentì quel fischio, un poco più forte e più lungo, ripetuto quasi con insistenza. Si alzò piano. Scalza, si avvicinò alla finestrella che dava sul retro, proprio sopra il pollaio. Era una notte limpida, e ai raggi della luna poté vedere una figura, ritta accanto al recinto basso. Per un momento le sembrò che il cuore si fermasse e sperò di non essere stata vista, ma quel suono si ripeté, accompagnato da un breve gesto della mano dell’uomo. Lo vide fare qualche passo e mostrare il volto alla luce: era Antonio.

Si allontanò di scatto dalla finestra e quasi stava per bruciarsi urtando contro il braciere fumante. Che fare? Tornare a letto rischiando che anche gli altri sentissero, o uscire e mandarlo via? Mentre ancora ci pensava, quasi senza accorgersene, si trovò davanti alla porta, sollevò il chiavistello d’impulso e uscì.

Non fece a tempo a girare l’angolo che se lo trovò davanti, e solo allora si rese conto dei suoi piedi nudi e del vecchio scialle di lana in cui si era avvolta, e si vergognò talmente da volere scappare via. «Perché non sei venuta?» - si sentì dire in un sussurro, ma aveva il cuore in gola e non riusciva a parlare - «Tanto ti ho aspettata… le dieci non arrivavano mai, e poi ero lì, all’abbeveratoio, tu non venivi, e mi sembrava di aspettarti da un’eternità…».

Il viso del giovane era appena in penombra, ma lei volle lo stesso vederci l’ansia, l’emozione delle parole di lui. Quelle parole erano per lei, per lei sola, per la prima volta in vita sua. Per la prima volta era una donna davvero, come le altre, e quella gioia improvvisa e sconosciuta che sentiva nel petto, che le faceva formicolare le dita, avrebbe voluto conservarla per sempre.

«Lo so che ho sbagliato» - continuò lui - «Ma passeranno sei mesi prima della prossima festa…» - tentò di scherzare - «e in qualche modo dovevo vederti e dirtelo subito. È da tanto che ci penso, ma tu lo sai che non potevo fare quello che si fa di solito in queste occasioni…».

«Che occasioni?» - riuscì finalmente a dire Bianca con una voce arrochita che quasi stentò a riconoscere lei stessa. Lui sorrise mentre le tendeva la mano. «Non lo capisci? Davvero non lo capisci?» - e fece per avvicinarsi - «Voglio che diventi mia moglie» - finì piano. «Tu sei pazzo!» - ribatté lei mentre un tremito leggero le saliva per tutto il corpo.

«Ti voglio sposare. Ho deciso.» - insisté - «Non avere paura. Troveremo il modo. Lo so che tuo padre e mio padre hanno una vecchia storia, ma troveremo il modo, metteremo di mezzo qualcuno, vedrai…».

«Lasciami stare» - quasi lo supplicò, ma quel suo povero cuore aveva finalmente qualcosa di veramente suo da custodire e combatteva contro quello che stava dicendo - «Non c’è niente che si può fare, non c’è nessun modo da trovare. Anche se di mio padre ormai non è rimasto più niente, c’è mio fratello, ed è peggio di tutti. Lasciami stare» - gli ripeté mentre già si allontanava.

«Non ti lascio stare» - e il tono pareva a metà tra la minaccia e la promessa. E Bianca capì che se lui non le avesse risposto a quel modo, avrebbe desiderato di morire, lì, subito. «Allora?» - la stalla era quasi buia, ma i tre uomini non avevano bisogno di guardarsi in faccia. Il più anziano si sedette di traverso, sopra uno dei ceppi che servivano per la mungitura.

«L’ho vista» - rispose Antonio al padre ed al fratello quasi con riluttanza - «Sono dovuto andarci a casa, però, perché all’appuntamento non è venuta.» «E brava Bianca! Perciò lo sa che un poco di paura la deve avere…» - Gabriele sghignazzò.

«Finiscila.» - lo zittì il padre. Poi, rivolto al figlio più giovane - «Come siete rimasti?» «Niente, siamo rimasti, papà! Ma non vi preoccupate. Aspetto un paio di giorni e ci ritorno…». «Non aspettare troppo» - si sentì intimare - «Lo devono capire che questa storia deve finire a modo mio. Anche quella bestia di Paolino, che si è messo di nuovo in mezzo per la chiusa di Torrentino, da quando l’ultimo gabelliere è morto. Lo devono capire e lo capiranno.» - finì con una bestemmia.

Antonio si sentì raggelare. Già era pentito di non avere ancora una volta saputo dire di no a suo padre. Meglio avrebbe fatto a restare “in continente”, finiti quei due anni di militare, come aveva pensato tante volte. Invece, era appena tornato che già ricominciavano le storie di sempre. Odî, vendette, offese da restituire. Niente era cambiato e niente sarebbe cambiato mai.

Uscì dalla stalla che appena albeggiava. Con le mani che quasi tremavano si accese una sigaretta e diede una tirata lunga. Povera Bianca… Lui nemmeno se la ricordava. Non era quella specie di uomo come gli aveva detto Gabriele, e gli era sembrata così fiera, piena di dignità, tutto il contrario di quell’imbecille di suo fratello Paolino.

«Vedrai che ti diverti» - gli disse Gabriele sommesso, una mano sulla spalla, mentre il padre si allontanava - «Sarà una bella lezione, per loro e per tutti.» Evitò di rispondergli, sapendo che altrimenti sarebbero venuti alle mani, come sempre. S’incamminò anche lui verso casa, ma per conto suo, e non potendo trovare altra maniera di sfogare la rabbia e l’impotenza che sentiva, tirò una pedata al cane da caccia del padre che gli abbaiava contro.

«Aspetto un paio di giorni» - si disse - «e poi vedremo.» Ma l’indomani era di nuovo all’abbeveratoio, con la scusa di portarci le vacche, e perdeva tempo, perché Stella gli aveva detto che a capo di settimana Bianca arrivava, con la mula e le giare, per fare provvista d’acqua.

Un minuto prima credeva di essere impaziente di vederla, un minuto dopo sperava che non venisse mai, che capisse e si tenesse lontana. Ma Bianca arrivò.

Camminava a piedi, davanti all’animale carico di quartare, un secchio in una mano, le redini nell’altra. Era seria, i capelli nascosti da un fazzoletto scuro annodato stretto, e quando, ancora da lontano, sembrò scorgerlo, rallentò il passo, come se aspettasse di vederlo allontanarsi.

Antonio si guardò intorno, saltando dal bordo scivoloso della vasca e fece per andarle incontro, ma lei si fermò. Rimasero con gli occhi fissi l’uno all’altra per un tempo che a Bianca sembrò interminabile, poi, insieme, lentamente, si trovarono vicini.

«Ti ho chiamata» - le disse senza sorridere - «Allora, lo hai sentito…». Lei trattenne il respiro e lasciò cadere il secchio e le redini della vecchia mula. Gli porse la mano con un tremito leggero e per un attimo lui sentì che il cuore gli si stringeva: era una mano ruvida, avvezza alla fatica, una mano avara e avida di carezze. Povera Bianca…

«So che dobbiamo fare» - le disse con una voce che non si riconosceva, trovandosela sul petto all’improvviso - «Dobbiamo scappare insieme. Avevi ragione tu, non c’è altro modo.» E al silenzio sbigottito di lei, continuò quasi con sforzo: «Lo so che pensi, che fino a ieri ero un nemico, per te, ma invece io da tanto tempo cercavo il coraggio di avvicinarti, il modo di farti sapere… Scappiamo insieme e poi dovranno farci sposare per forza.»

Lei lo guardò con occhi che gli sembrarono come quelli dei conigli selvatici quando il lacciolo li cattura e sanno di non avere più scampo, e per un momento anche lui volle credere a quello che le diceva, o non avrebbe potuto continuare - «Pensaci. Io sono deciso. Dillo a Stella, quello che vuoi fare, e lei me lo farà sapere.»

Bianca non parlava e lui pensò: «Dimmi di no. Dimmi di no, perdio». Ma lei, il volto affondato di nuovo nel suo collo, rispose soltanto: «Sta bene. Scappiamo insieme» - e si sentì felice e leggera tutto d’un tratto, come se per ogni giorno, ogni minuto della sua vita non avesse aspettato altro che di dire quelle parole.

Antonio fece un respiro lungo e staccandola da sé, le tolse quasi con rabbia il fazzoletto, affondando le labbra nei capelli di lei - «Sta bene» - ripeté. Era ora, ormai, e Bianca era stata immobile, gli occhi sbarrati nel buio, aspettando che tutti dormissero.

Scivolò piano dal letto, già vestita, cercando a tentoni il fagotto nascosto la sera prima sotto il materasso. Aveva raccolto lì poche cose, il necessario per un paio di giorni, del resto, non aveva altro. Guardò il piccolo Giacomo addormentato. Lui non si sarebbe meravigliato di non trovarla, l’indomani, e gli altri?

Stella le aveva detto che Antonio l’avrebbe aspettata all’una precise in fondo alla strada. E se non lo trovava? Non ci voleva pensare.

Rimase qualche minuto ferma sulla porta, fissando il chiavistello rugginoso, mentre sentiva un’angoscia cupa stringerle la gola, e il cuore, martellarle nel petto. Non lo conosceva, Antonio. Era solo il primo che le fosse mai capitato e lei… I suoi sarebbero morti di rabbia e di vergogna e chissà quando sarebbe potuta ritornare a casa… se mai ci sarebbe tornata. Le venne da piangere per la prima volta, da quando era bambina. «Sei una disgraziata» - si disse - «Fermati, finché sei in tempo».

Ma una cosa così non sarebbe successa mai più. Voleva credere ad Antonio con tutte le sue forze. Voleva credere di poter essere amata, desiderata anche lei, come chiunque altra. «Né tu la prima, né tu l’ultima» - aveva sentenziato l’amica - «Vedrai che poi tutto si aggiusta…». Già. Tutto si aggiusta.

Quando finalmente uscì, le sembrò di essere stata sulla porta per ore, tanto si sentiva stanca, debole come quando si è avuta una gran febbre.

Tutto era silenzioso e immobile, immerso in un’oscurità che non faceva vedere a un passo, ma là, proprio in fondo alla strada, un piccolo punto di brace sembrò a Bianca come il raggio di un faro deve apparire a chi si sente perduto.

Quasi si mise a correre, dirigendosi verso quella piccola fiamma che danzava nella notte. Antonio era lì. Senza una parola, senza un sorriso, l’afferrò stretta per la mano, portandola verso gli alberi poco lontani, dove aveva legato il mulo. L’aiutò a montare davanti a lui e incitò la bestia schioccando la lingua.

«Andiamo alla chiusa di Baronetto» - le disse dopo qualche minuto di quel silenzio pesante. Bianca non riusciva a vederlo in faccia, ma lo sentiva rigido contro la sua schiena e pensò che forse aveva paura anche lui, o s’era pentito.

Rimasero muti per tutto il resto della strada, almeno un’ora, quando si trovarono davanti all’improvviso una casupola di pastori. Antonio smontò e lei pure, senza aspettarsi d’essere aiutata. Di nuovo, lui la prese per mano, mentre dava un calcio alla porta sgangherata.

Ma dentro la stanza una candela era accesa su un tavolaccio lurido e in quella penombra Bianca poté scorgere che c’era qualcuno. Terrorizzata, si irrigidì, ma Antonio la spinse dentro, come si fa con gli animali. «Sabbenadica» - si sentì salutare - «Vossignoria non si è fatta aspettare…».

Riconobbe Gabriele e accanto a lui, seduto, Don Matteo, suo padre. Fece per scappare, ma Antonio già aveva richiuso la porta ed era rimasto fermo, lì davanti, a braccia conserte. Allora raccolse tutto il suo coraggio e, come un uomo, come aveva imparato a fare, li fissò sollevando il mento. «Che significa, questo?» - li sfidò.

Il vecchio fece una risata che finì in una tosse violenta e il figlio maggiore rispose per lui: «Significa che sei una che scappa col primo che passa, come le cagne. Ma ti è andata bene. Ne hai trovati tre invece di uno solo» - e si avvicinò.

Bianca indietreggiò verso la porta e guardò Antonio senza parlare e lui, di nuovo, vide quegli occhi da bestia ferita, la paura e il disprezzo. «Avanti!» - gridò al fratello - «Dite quello che avete da dire e lasciamola andare…».

«Dire?!» - ringhiò Gabriele - «I fatti sono meglio delle parole… E con certi fatti Paolino ‘u sciancatu capirà che Torrentino non è cosa per lui come non lo fu per suo padre.» E afferrò Bianca per i capelli, trascinandola sul tavolaccio. Lei non gridò, non disse una parola e quel silenzio fu più terribile di qualunque richiesta di aiuto.

«Lasciala stare!» - Antonio provò a scagliarsi contro il fratello che già frugava sotto la gonna di lei, ma, prontamente, suo padre lo prese per le spalle, bloccandolo contro il muro - «Papà, diteglielo voi di lasciarla stare…» - supplicò.

E Bianca lo sentì piangere. Ma lei no. Non avrebbe pianto. Aspettò che quell’animale la credesse inerte, allentando la presa, e con forza lo spinse, cercando di divincolarsi. Riuscì ad arrivare all’uscio e ad aprirlo e fu fuori, ansimando, ma di nuovo si sentì afferrare, stavolta alla caviglia.

Cadde, e allora, sì, cominciò a gridare, sperando che qualcuno la sentisse. Gabriele la prese per la gola, sollevandola, e la trascinò ai bordi di un pozzo. Le orecchie le ronzavano, mentre già rantolava, e, non potendo fare altro, gli sputò.

Rosso di rabbia, grondante di sudore, lui le affondò la testa nell’acqua e spinse, spinse. «Muori» - fece appena in tempo a pensare lei - «Uno solo ne avevi voluto. E ne hai trovati tre…» - e poi più niente.

Il corpo di Bianca scivolò piano sulla terra umida, gli occhi chiusi, come se dormisse. Antonio si inginocchiò accanto a lei, boccheggiante, l’espressione istupidita. «L’hai ammazzata» - balbettò rivolto al fratello che intanto si asciugava il sudore col fazzoletto lercio. «Tu, l’hai ammazzata» - si sentì rispondere.

E mentre si allontanava insieme al padre, lasciandola lì che sembrava un cumulo di stracci, con un misto di disgusto e di arroganza, Gabriele gli disse: «Alzati. Fai l’uomo. È arrivato il momento di offrire un bicchiere di quello buono a “don” Paolino» - e rise.

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