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Thrinakìa cinquième édition: prix international d'écritures autobiographiques, biographiques et poétiques dédiées à la Sicile / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.21 N.1 2023

Quando un uomo nasce maledetto

Fabio Carapezza

magma@analisiqualitativa.com

Desio, Milano, 1970 - Palanzano, Parma.

Abstract

Un estratto dalla biografia Quando un uomo nasce maledetto (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), prima opera classificata nella sezione biografie del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.

 

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Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage

Il momento di ricordare: il figlio

Ogni volta che apriva l’armadio, la vedeva lì: una borsa seminascosta fra le altre, vicino a documenti, lastre dei raggi, indumenti disordinati. Aveva sempre saputo della sua esistenza e ne conosceva il contenuto, proprio per questo faceva finta di non accorgersene; ogni tanto doveva spostarla per tirare fuori chissà cosa, oppure ne cambiava la posizione per ricavare spazio. Dopo un secondo, tornava a conservarla in un posto più sicuro dove la borsa potesse riposare meglio. Quello dell’oblio.

La borsa aveva circa cinquant’anni: la sua virtù principale, oltre alla robustezza, era la pazienza. Aspettava che lui fosse pronto per aprirla, estrarne documenti, foto, diverse lettere, mettendolo davanti al compito doloroso che doveva affrontare. Si trattava di ricomporre i pezzi della sua vita attraverso la storia della sua famiglia. Poi ricordò il padre riverso sul pavimento in cucina: c’erano persone sconosciute per casa, altri erano conoscenti e vicini che stavano in silenzio, c’era anche la donna che lo aveva trovato. Si era avvicinata al figlio piangendo e lo aveva abbracciato.

Ripercorse i dettagli di quella giornata, giovedì 4 aprile 2002. In quel periodo non abitavano più insieme, il figlio condivideva un appartamento con altri due lavoratori; erano circa sei mesi che aveva fatto la scelta di uscire da casa perché voleva fare da solo, aprirsi al mondo e sfidarlo senza di lui, il padre.

La mattina di quel giorno era passato a comprare varie confezioni d’acqua da sei bottiglie e, quando arrivò per portargliele, vide il padre seduto in cucina; stava bevendo un tè, la schiena era tornata a fargli male. Gli sembrò molto sofferente.

«Non ti senti bene?». Era una di quelle domande che a volte ci si sforza di fare quando la conversazione arranca ma da lì a poco se ne sarebbe andato; avrebbe avuto il turno nella comunità di Valera per minori non accompagnati, dove lavorava come operatore.

«C’è che per stare bene bisognerebbe morire» gli rispose il padre. Era stanco, ma quella stanchezza nascondeva un dolore più profondo e silenzioso che non aveva voluto far sapere al figlio. Era dispiaciuto che, dopo una lite, se ne fosse andato in una stanza in affitto mentre lui stava invecchiando. Era anche orgoglioso, e oltre a qualche piccolo favore come quello di portargli l’acqua, faceva in modo di non chiedergli mai nulla.

Nel primo pomeriggio il figlio si trovava al lavoro e ricevette una sua telefonata ma non rispose subito. Ancora un altro senso di colpa: come sarebbe andata se gli avesse risposto? Forse gli stava chiedendo aiuto. Il figlio arrivò a pensare a questo particolare mentre la borsa iniziava a sussurrargli: «È giunto il momento, devi aprirmi».

Continuò nell’analisi di quel giovedì 4 aprile. Erano circa le diciotto, lui finalmente si decise a ricomporre il numero di casa ma questa volta fu il padre a non rispondere.

Non colse il senso di quella mancata risposta, eppure era sicuro, il padre doveva per forza essere in casa. Dopo qualche minuto oppure ore, non ricordava di preciso, arrivò la telefonata di una vicina di casa che conosceva il suo numero di cellulare: «Luca, sono l’Ileana. Vieni subito. Tuo padre sta male». Il lavoro era molto vicino all’abitazione, in cinque minuti e di corsa arrivò parcheggiando l’auto: lì capì tutto. Un’ambulanza era ferma davanti al cancello, a sirene spente.

Ricordò bene quell’attimo, aveva capito. Le sirene erano spente perché anche la vita di suo padre lo era. L’aveva capito anche la donna del padre, Anna era il suo nome; anche lei aveva cercato di contattarlo al telefono, ma fu molto più veloce del figlio a temere quello che poi si era avverato. Quando non aveva risposto, aveva chiamato un taxi a tutta velocità per andare da lui, aveva aperto la porta con una copia delle chiavi e poi… il pavimento della cucina. Quell’uomo cui aveva voluto bene era lì, riverso fra la finestra e il tavolo, il rubinetto del secchiaio rimasto aperto: un altro dettaglio che aveva impressionato il figlio. Lui no, non aveva capito subito rimandando il tentativo di ricontattare il padre dopo la prima telefonata mancata. Il rubinetto era aperto perché quell’uomo stava solo dando una ciotola d’acqua fresca a Rambo, il gatto, o aveva cercato di rinfrescarsi la faccia in un ultimo disperato tentativo di riprendersi?

Si era sentito male subito dopo?  Il figlio non avrebbe mai potuto saperlo. Adesso, ciò che doveva conoscere era davanti a lui, proprio dentro la borsa che, fra le altre cose, conteneva tre quaderni manoscritti. Era giunto il momento e non si poteva andare oltre.

Voleva capire perché era da trent’anni che non parlava più con sua madre. Sapeva solo di odiarla, fino ad avere pensato di volerla ammazzare in un momento di follia. In tutto quel tempo l’aveva vista per caso in città, due o tre volte, provando verso di lei un senso di ribellione e disgusto. Insieme con essi, avvertiva il senso di colpa per averla allontanata dalla sua vita, pur sapendo quanto lei stesse male per questo ma non gli interessava. Andava avanti nonostante fosse consapevole che gli anni passavano anche per lei, che stava invecchiando e poteva morire lasciandolo con la tortura del rimorso. Lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita.

Era giunto il momento di sfogliare le pagine di quei quaderni. Iniziare a leggere.

Quando un uomo nasce maledetto: il padre

Quanto sto per scrivere non è una storia d’amore dove, alla fine di tante acrobazie, finisce tutto bene, ma una storia vera, vissuta giorno dopo giorno per quarantadue anni a cercare la felicità, la libertà, l’amore, l’affetto: quarantadue anni di sofferenza, e dopo tutti questi anni di lotte, di problemi e delusioni, mi ritrovo un fallito al cento per cento. Forse la mia è una storia singolare, sono sicuro che scriverla possa giovare a qualcuno e quel qualcuno sono io, il protagonista. Perché scrivendola, mi sento scaricare la tensione che, appunto, mi trascino da tutto questo tempo. Spero solo che se qualcuno un giorno la leggerà, vorrà scusarmi per gli errori di ortografia, perché sono arrivato solo alla quinta elementare e negli anni disgraziati.

Adesso entriamo nel vivo con il presentarmi. Mi chiamo Manuele, nato quarantadue anni fa, esattamente il 5 marzo del 1940 a Petralia Sottana, uno sperduto paesino sulle Madonie in Sicilia, a mille metri di altitudine. I primi anni di vita logicamente non me li ricordo, ma parenti e amici, compresi i miei genitori, mi dicono che ero molto buono e simpatico, timido e sensibile. Potrà sembrare strano ma mi ricordo di alcuni fatti accaduti quando avevo tre anni. Abitavamo in una casa dove, quando pioveva, mia madre era costretta a mettere in giro pentole e pentolini per le gocce che venivano giù. Per termosifone c’era un braciere con il carbone, chi non l’aveva batteva i denti. A proposito del braciere, avevo circa due anni, mentre ero sulle ginocchia di mia madre, accanto a ’sto benedetto braciere: essendo un bambino molto vispo ci sono caduto sopra con la mano destra bruciandomi le prime falangi delle dita. A quei tempi non c’erano medicine o pomate, potete dunque immaginarvi il dolore.

Mia madre era casalinga, mio padre aveva una fattoria con alcuni ettari di terreno, e molti contadini che lavoravano la terra a mezzadria. Avevamo anche un po’ di bestiame. A casa mia almeno il necessario c’era sempre, però, man mano che crescevo, capivo le sofferenze e la fame degli altri bambini.

Mi ricordo benissimo quando nella guerra siamo scappati per rifugiarci sulle montagne. Al ritorno in paese vidi un ragazzo un po’ più grande di me, che aveva trovato una bomba lasciata dai tedeschi in fuga. Giocandoci gli scoppiò in mano, mentre sua madre gli si era avvicinata accortasi del pericolo. Morirono entrambi squarciati.

Lui si chiamava Nino, la madre Vincenza. Io e gli altri bambini eravamo poco lontano, vedemmo tutto; grandi e piccoli urlarono e piansero. In Sicilia la guerra era finita, ma al Nord continuava.

Nel 1946 iniziai ad andare a scuola. Per cartella usavamo le cassette in lamiera rettangolare per le munizioni lasciate in giro dagli americani. Mancava tutto: facevamo l’inchiostro con le foglie dei papaveri; i bambini camminavano con le scarpe rotte in mezzo alla neve, gli uomini venivano da mio padre a piangere un po’ di grano per nutrirli; sono cose che mi hanno toccato profondamente e che trascinerò per sempre dentro di me.

A scuola non è che le cose andassero meglio, i metodi d’insegnamento erano quelli dei fascisti. Tutti sappiamo che le parole dolci, anche per quelli più sensibili, non esistevano, quindi erano botte, e tante: inoltre per chi non sapeva la lezione, c’era doppia dose. Non si poteva fiatare e neanche muoversi.

C’è un episodio che non posso fare a meno di raccontare. In quei tempi i pidocchi erano alla portata di tutti, nonostante mia madre mi controllasse la testa ogni giorno, in mezzo a tanti bambini era così, qualcuno si trovava sempre. Ero in classe e il maestro spiegava, io lottavo con questo pidocchio grattandomi. Il maestro mi richiamò dicendomi di stare fermo; avevo capito il richiamo e provai a stare immobile. Era il pidocchio a non aver capito e continuò a darmi fastidio fino a quando non riuscii più a resistere riprendendo a grattarmi. Quel farabutto del maestro se ne accorse, urlò e mi picchiò, dicendoci che dovevamo ascoltarlo quando ci ordinava di stare fermi: così, per colpa di un pidocchio, ho preso una “fraccata” di legnate.

A scuola non ero una cima, forse perché mi terrorizzavano, ma in storia e geografia ero bravo; tuttavia anche se sapevo la lezione, quando ero interrogato sbagliavo tutto come del resto anche gli altri bambini: avevamo paura e così… giù altre botte. Tutte le mattine andare a scuola era come andare verso la ghigliottina, non tanto per la scuola in sé ma per via delle punizioni, purtroppo il maestro era quello.

Crescendo, capii che mi piacevano le macchine e la meccanica, e qui iniziarono i primi guai. In quinta elementare mio padre mi chiese cosa avrei voluto fare da grande. Io rispondevo: «Il meccanico» e lui si opponeva dicendo che era meglio studiare. A Petralia non c’erano altre possibilità di studio oltre le magistrali, e a me di fare il maestro proprio non andava. Vedevo tanti maestri che erano a spasso in attesa di fare qualche ora di supplenza, tutti senza soldi e lavoro, quindi io quel tipo di vita non lo accettavo completamente.

A quel tempo le medie erano facoltative, non obbligatorie come adesso, e mio padre era scontento perché non volevo studiare da maestro. Allo stesso tempo era comunque compiaciuto, così avrei potuto aiutarlo nel lavoro dei campi controllando i contadini che rubavano il grano.

Non accettai nemmeno questo lavoro, così iniziò la terza guerra mondiale tra mio padre e me. Erano litigi e botte tutti i giorni che facevano davvero male. Siamo arrivati al 1952.

Avevo dodici anni, circolavano sempre più auto in giro, le industrie iniziavano a riprendersi e il progresso andava avanti riparando i danni della guerra. Nonostante la mia giovane età, capivo che con la meccanica non avrei potuto fallire, avrei avuto un futuro quasi certo davanti. Avevo uno zio meccanico con un’officina per conto suo in un altro paese, sapevo che c’era sempre molto lavoro, così lottai con tutte le forze per andare da lui a imparare il mestiere. C’era un punto su cui mio padre non voleva sentire ragioni, cioè che a quei tempi, con l’apprendistato non si percepiva salario, se non qualche regalo facoltativo a discrezione del padrone. Naturalmente non si era assicurati, non c’erano i contributi per la pensione. Inoltre, i padroni potevano usare gli apprendisti per altre commissioni, tipo fare la spesa per la famiglia. Comunque, per chi voleva imparare un mestiere, quella era la trafila, almeno per la Sicilia di quegli anni.

Quindi mio padre non accettava l’idea che facessi lo schiavo per qualcun altro senza essere pagato e addirittura mantenuto da lui: tra noi era sempre una lotta. Con quella sensibilità che mi faceva soffrire tanto, mi è venuto a mancare l’affetto paterno, di cui tutti i ragazzi a quell’età hanno bisogno per sentirsi più sicuri e protetti. Mia madre, poveraccia, soffriva più di tutti per questa situazione, ma cosa poteva fare, visto che mio padre non voleva sentire ragioni? Nello stesso tempo soffriva anche mia sorella più giovane di me di quattro anni, anche lei terrorizzata dal clima in casa mia; così, quando avevo paura di buscare le botte, restavo fuori di casa. Ero demoralizzato e piangevo di rabbia, ma cosa fare? Dove potevo andare? Tempo due o tre giorni, qualche parente mi riportava a casa e le botte le prendevo lo stesso.

Dopo un po’ di tempo con questa vita, parenti e amici riuscirono a convincere mio padre a mandarmi in un’officina di Petralia. Lui però se ne pentì: non accettava l’idea che suo figlio, da padrone, facesse da garzone a un altro padrone, e le liti ricominciarono.

Avevo tredici anni e non ne potevo più di quella vita burrascosa, dormendo più fuori che a casa come un cane, perché nessuno era più disposto a ospitarmi pur di non andare contro mio padre. Io mi accucciavo dietro qualche porta ascoltando dalle finestre i bambini che ridevano e giocavano con i loro papà; erano felici, anche se non avevano un paio di scarpe o una semplice palla di gomma, perché di solito si usavano quelle fatte di stracci. Sognavo a occhi aperti incoraggiandomi da solo, una forza sovrumana mi diceva di non cedere e lottare, ché un giorno sarei riuscito a scappare da quel paese.

In molti ragionavano come lui, lo assecondavano dicendomi che potevo stare bene a casa lavorando perché non mi mancava nulla. Per loro forse era così; invece a me mancava tutto compreso l’affetto, escluso quello di mia madre, l’unica che mi ha sempre aiutato a costo di litigare con lui.

Una notte presi la decisione: in quelle condizioni non potevo più vivere, ero stufo, e forse era davvero venuta l’ora di finirla con quella vita d’inferno. Programmai di iniziare la battaglia finale.

Per una settimana feci tutto il volere di mio padre in modo che non sospettasse nulla dei miei piani, pur sapendo che in questo modo mia madre avrebbe sofferto. Qualcosa più forte di me mi diceva di agire e, una sera, andai a trovare il mio padrino di battesimo che aveva un negozio. Gli dissi che mi mandava mio padre, che era lì vicino per concludere un affare ma che non si trovava cinquemila lire in tasca in quel momento. Gli chiedeva un prestito che avrebbe restituito l’indomani mattina. Tra loro c’erano ottimi rapporti, sicché non si oppose e subito mi consegnò i soldi con la raccomandazione di correre e portarli a mio padre, aggiungendo che a volte gli affari si perdono per soli pochi minuti.

Dopo averlo ringraziato e salutato, tornai a casa andando a letto senza dare nell’occhio. La mattina dopo mi alzai che c’era ancora buio, scappando di corsa per i sette chilometri che c’erano fra Petralia e Castellana, per saltare sulla corriera e raggiungere Palermo: non potevo prenderla al paese, mi conoscevano tutti, mio padre mi avrebbe fatto acciuffare subito, mentre a Castellana non mi conosceva nessuno. Feci perdere le mie tracce senza che nessuno sapesse dove fossi andato.

In tasca avevo il totale di settemilacinquecento lire, così, arrivato a Termini Imerese, presi il primo treno per Messina; poi da Messina a Reggio Calabria, un tratto alla volta sempre prendendo treni locali per paura che mi beccassero e rispedissero a casa, quando il mio programma era quello di stare via una decina di giorni. Alla fine, viaggiando in terza classe sui sedili di legno per spendere meno possibile, arrivai a Roma con il sedere rotto.

Rimasi sbalordito dalle meraviglie della capitale, con tutte quelle macchine che per me significavano lavoro; più ce n’erano e più potevano rompersi, quindi si rafforzava sempre di più l’idea di lasciare il paese, non rimaneva da fare altro che lottare.

Di mattina visitavo Roma, solo a piedi perché i soldi erano contati, mangiavo panini e bevevo alle fontane, il pomeriggio m’infilavo in qualche cinema economico per riposarmi e dormire un po’: gli alberghi non potevo permettermeli, inoltre temevo che mio padre avesse fatto la denuncia di scomparsa correndo quindi il rischio di essere trovato subito. Visitai il Vaticano dicendo una preghiera, vidi anche Papa Pacelli da vicino, dentro di me ero fiero ma avevo tanto bisogno dell’affetto di qualcuno. Dopo circa una settimana, in tasca mi restavano mille lire, così decisi di andare in albergo. Sapevo che l’albergatore avrebbe portato la mia scheda in Questura: se mio padre avesse davvero fatto la denuncia di scomparsa, mi sarebbero venuti a prelevare e… “che Dio mi assistesse”…

Dopo una doccia dormii come un ghiro, erano tanti giorni che non toccavo un letto. La mattina dopo, con sorpresa, notai che non era successo nulla, quindi non mi restò che pagare cinquecento lire e andarmene. Era l’Albergo del Sole, mi ricordo ancora il nome dopo circa ventinove anni. Decisi che la sera stessa sarei andato direttamente in Questura per raccontare la mia penosa storia.

Il destino per me volle altro, e mentre camminavo in via XX Settembre intorno alle sedici, incontrai un capitano dei carabinieri figlio di un amico di famiglia al paese, quindi ci conoscevamo bene, e nel vederci siamo rimasti sorpresi. Lui subito mi chiese cosa facessi a Roma da solo.

Singhiozzando gli raccontai la mia triste avventura; piangevo, non perché mi avesse beccato un capitano dei carabinieri ma per la felicità di parlare con qualcuno di mia conoscenza, potevo finalmente sfogarmi dopo tanti giorni passati senza scambiare una parola con nessuno. Mi chiese le mie intenzioni, non sapevo se mio padre avesse fatto la denuncia, così sarei andato da solo a consegnarmi alla polizia. Lui mi propose di accompagnarmi alla caserma dei carabinieri, mi avrebbe aiutato a sbrigare la faccenda, e dopo una ricerca venne fuori che non c’era denuncia di scomparsa per me. Gli dissi che, per acconsentire a tornare a casa, volevo essere sicuro che mio padre mi avrebbe accordato il permesso di andare in officina da mio zio a Regalbuto, perché a Petralia non ci volevo più stare. Per giunta con la paura tremenda delle botte.

Questo capitano mi convinse dicendo che si sarebbe interessato e, tramite il maresciallo di Petralia amico di mio padre, avrebbe fatto in modo che tutto finisse bene. Accettai di tornare in paese passando la notte in una camera di sicurezza come un delinquente: non potevo pretendere che mi pagassero l’albergo ma ero contento lo stesso che il giorno seguente sarei uscito. La mattina ci salutammo e, scortato da due carabinieri in borghese, ero ripartito per Petralia. Arrivammo alle diciotto, i carabinieri fecero fermare il pullman davanti alla caserma consegnandomi al maresciallo, che intanto aveva mandato a chiamare mio padre. Il maresciallo mi fece piangere, mi urlò dietro dicendomi che sbagliavo con tutte quelle fughe, e io dentro di me pensavo “Ma guarda questa carogna, anche lui è contro di me”; non avevo mai fatto nulla di male, lottavo solo per la mia libertà.

Arrivò mio padre. Vedendomi mi corse incontro per darmi un bacio, lasciandomi pietrificato. Il maresciallo, ormai sapendo la mia storia, di colpo cambiò tono, prese le mie difese questa volta strapazzando mio padre, facendogli notare come fosse ingiusto non lasciarmi libero di decidere della mia vita, così facendo avrebbe rischiato di rovinarmi; accettò malvolentieri le parole del maresciallo e mi riportò a casa, dove temevo che avrei preso ancora le botte. Mia madre aveva pregato alcuni parenti di raggiungerci in casa per paura che, una volta da soli, mio padre mi avrebbe pestato. Lui per fortuna aveva messo un po’ di giudizio; forse per quei giorni di assenza aveva temuto che combinassi qualche fesseria, così era contento che fossi di nuovo a casa senza che nulla fosse accaduto. La sera stessa, avevamo scritto a mio zio chiedendogli il permesso di andare a lavorare con lui. Dopo una settimana la sua risposta arrivò con queste parole testuali, che era fiero di avviarmi e insegnarmi il mestiere di meccanico.

Avevo vinto la battaglia, non la guerra.

Riconciliazione: il figlio

Poi, non hai scritto più, papà.

Eri contento così, avevi trovato qualcuno che ti ascoltasse a sufficienza, e questo qualcuno eri proprio tu. Queste pagine sono state l’amico e l’ascolto che non ti abbiamo dato noi, mia sorella e io, perché eravamo troppo piccoli per capire, e neanche quando siamo cresciuti abbiamo capito la tua sensibilità.

Non sapevo delle tue difficoltà finanziarie quando ti sei separato, altrimenti, come hai scritto tu, ti avrei aiutato con la generosità che hai sempre trasmesso a tutti. Ringrazio i buoni amici che avevi e che ho avuto la fortuna d’incontrare, posso fare qualche nome perché alcuni vivono ancora, altri non li ho mai conosciuti, e tanti altri che fanno parte della tua storia, ora non ci sono più.

In quell’occasione, ora non ricordo chi, qualcuno mi disse: «Tuo padre ha fatto la fine dei giusti». Hai scelto di andartene senza dare fastidio a nessuno, desiderio che hai espresso in questi diari, e così Dio ti ha ascoltato come ti ha sempre ascoltato durante i tuoi ricoveri. Anche la Madonna dell’Alto, lassù al santuario fra le tue montagne, ti ha ascoltato e ti disse: «Tornerai a trovarmi ancora». Ricordo che facesti lo stesso viaggio in Sicilia con mia sorella, sono sicuro che sei tornato con lei a dire grazie alla Madonna. Io voglio dire grazie ai molti medici che ti hanno curato e conosciuto da vicino soprattutto dal punto di vista umano. Avevi sempre la battuta pronta e non ti tiravi indietro se si trattava di aiutare gli altri, specie i più deboli

Decisi di mollare il conservatorio e di viaggiare per anni, quando tu iniziavi ad avere bisogno di me, e fosti anche ricoverato per un rigetto in quel periodo. La compagnia che avevi a casa era Rambo, il nostro gattino.

Quando sono tornato eri felice, avevo scelto di completare gli studi e iscrivermi all’università, questa volta liberamente. Non me lo imponeva nessuno, e tu mi hai sempre appoggiato ma rimanevi silenziosamente triste perché avevi perso mia sorella.

Ti fu scritto: «Un domani, sarai piccolo di fronte ai tuoi figli». Non è così e non lo è stato mai.

Mi hai insegnato a fare il sugo, a stirare e a fare andare la lavatrice, avevi scritto le istruzioni a mano su un foglietto prima di prendere uno di quei treni della speranza.

Grazie a te, papà, io sono diventato un uomo.

Richiuse il terzo quaderno, ora non era più solo malinconico. Era triste. Suo padre se n’era andato a soli sessantadue anni, e il figlio pensò a certi impiegati di banca che conosceva, uno aveva cinquantacinque anni e ne dimostrava dieci di meno. Lo vedeva ogni tanto andare a correre con le scarpette firmate in pausa pranzo, fresco, felice di vivere, perché era stato fortunato.

Lo invidiò, pensando che nella vita ci vuole solo fortuna, che era sempre mancata a suo padre e che avrebbe voluto per lui. Ci aveva messo tredici anni per trovare il coraggio di aprire la borsa: ora non sapeva cosa lo aspettasse il futuro. La borsa fu riposta con cura nell’armadio: doveva servire ancora, forse non era arrivato il momento per sua sorella.

Adesso, il figlio sapeva che cosa voleva fare. Voleva andare al cimitero di San Pellegrino sulla tomba del padre. A posare un fiore.

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