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L’écriture autobiographique : une quête expérientielle transformative. Deuxième partie. / Sous la direction de Orazio Maria Valastro / Vol.20 N.3 2022

Triplice forza trasformativa della narrazione autobiografica nell’ultimo discorso di Socrate

Goda Bulybenko

magma@analisiqualitativa.com

Dopo gli studi di filologia nelle università di Vilnius, Bologna e Pisa, proseguo, in dato momento, le mie ricerche accademiche in autonomia. Il campo dei miei studi comprende la teoria della letteratura, con particolare attenzione all’autobiografia e alla sua struttura epistemologica. Gli aspetti principali del mio interesse comprendono la configurazione socratica delle autobiografie sin dall’Antichità e fino ai primi anni del Novecento, i topoi tematici nonché stilistici, i filtri ermeneutici e le sembianze che essi assumono nelle varie epoche e nelle diverse aree culturali. Allo stesso momento collaboro con le case editrici lituane, ho avuto occasione di proporre ai lettori le traduzioni di Houellebecq, Magris, Nemirovsky, Kundera, Pirandello, Scurati. Mentre in Italia presso la casa editrice Vocifuoriscena curo la collana della letteratura lituana, con il particolare interesse dedicato alla mitologia baltica.

 

Abstract

In questo contributo è analizzato il passaggio autobiografico del Fedone (96a-102a) ipotizzando che la sua importanza si riveli, in primo luogo, attraverso l’identificazione e la definizione della posizione strategica essenziale che la narrazione di sé assume all’interno dell’ultima conversazione tra Socrate e i suoi amici. In secondo luogo, tale impatto determinante della decisione, da parte di Socrate, di raccontare il proprio passato dopo lo smarrimento dei presenti e prima dell’ultima nonché decisiva argomentazione sull’immortalità dell’anima, è imputabile alla forza trasformativa che contraddistingue la suddetta narrazione e che consiste, più precisamente, a) nel momento empatico intellettuale che evidenzia la necessità ontologica di «rifugiare in certi postulati e considerare in questi la verità delle cose che sono» (100a); b) nel processo dell’autoverifica che coincide con l’elaborazione di un metodo di costruire i logoi simile a una zattera, partendo da un postulato, «quello che ti sembri il migliore fra quelli che sono elevati, via via fino a che tu non pervenissi a qualcosa di adeguato» (101d); c) lo spostamento del vettore conoscitivo dentro l’uomo, ossia la sua anima, «e considerare che il pericolo, ora, sembrerebbe terribile, se non si ha cura di essa» (107c).

 

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Une sirène (1900), peinture à l'huile sur toile, John William Waterhouse (Roma, 1849 – Londra, 1917), Royal Academy of Arts.

I. Introduzione: collocazione strategica della narrazione autobiografica di Socrate

Sin dalle prime righe il Fedone si pone come un dialogo di grandi trasformazioni su molteplici livelli: in primo luogo, Socrate, come persona, sta per morire e quindi siamo di fronte a una svolta sul livello biografico, fisiologico, nonché escatologico, giacché si apre subito la questione sul destino dell’insegnamento socratico; in secondo luogo, dopo aver assistito alle ultime ore dell’amico e maestro, i presenti provano un sentimento nuovo e strano, e da questo punto di vista siamo sul livello emotivo nonché, come si vedrà poco oltre, concettuale; infine, lo stesso Socrate, il quale già durante il mese della prigionia aveva stupito i suoi visitatori con la dedizione alla poesia, lì accoglie, per l’ultimo saluto, con una novità ulteriore e fondamentale: diversamente dall’Apologia[1] e dal periodo trascorso in carcere, Socrate sostiene che la morte sia un bene da augurarsi a  «chiunque altro pratichi la filosofia come si deve»[2] (61c) e in tal modo annuncia una svolta sul livello metodologico ed esistenziale. Per di più, anch’egli cerca di attuare una trasformazione, la più importante nel dialogo, e da filosofo attivo, Socrate mira ora a costituirsi in quanto modello-sentiero di filosofia da seguire anche e soprattutto dopo la sua morte imminente; il piano escatologico, quindi, prevale e rappresenta la principale scommessa dell’ultimo dialogo di Socrate.

Ora, anche se Socrate all’inizio del dialogo cerca di creare un’atmosfera informale e di ridimensionare il significato del suo ultimo giorno – prima manda via, irritato, Santippe che invece incalza sulla drammaticità del momento, e poi scherza sul fatto che «indagherà con la ragione e discorrerà coi miti su questo viaggio verso l’altro mondo» giacché «che altro si potrebbe fare in tutto questo tempo fino al tramonto del sole?» (61e) – presto diventa evidente che per gli ultimi attimi della sua vita egli abbia lasciato le dottrine centrali della sua filosofia: la vita è un esercizio per la morte poiché l’anima è immortale e la phronesis giunge completa solo dopo la morte (Centrone B. 1991: 61). La verifica decisiva alla quale il filosofo sottopone i suoi insegnamenti, e che si aspetta di condurre con successo, finisce, in prima istanza, con il totale smarrimento dei suoi interlocutori (88c).

Sebbene non sia il luogo giusto per analizzare i motivi sul perché Socrate possa aver deciso di correre tale rischio e quanto egli abbia previsto i possibili esiti del suo ultimo dialogo, vi sono tuttavia degli elementi testuali che permettono di ipotizzare che Socrate non si aspettasse del tutto una tale sfiducia e sconcerto come quelli in cui vengono trascinati i suoi amici dopo le obiezioni di Simmia e Cebete. Anche se Socrate rimane, a detta di Fedone, perfettamente calmo e «benevolo», il suo iniziale entusiasmo nel dissolvere i dubbi dei presenti ben presto muta nel timore che a dissolversi potrebbero i suoi logoi: «ben difficilmente potrò persuadere gli altri uomini (...) dal momento che non riesco a persuadere nemmeno voi» (85d-e).

Proprio in questo momento, quando la principale trasformazione del dialogo, quella del collaudo dell’insegnamento socratico non si sta avverando, Socrate attua la quinta trasformazione del Fedone, stavolta discorsivo-stilistica, che trova la sua espressione nella sua narrazione autobiografica. Quest’ultima, da parte sua, contiene la sesta e ultima trasformazione del dialogo, ovvero la maturazione e la svolta intellettuale di Socrate. Stiamo parlando dei momenti decisivi per la sopravvivenza della filosofia socratica alla morte del suo autore. Socrate ammette di aver raggiunto il punto nel quale si decide il destino della sua filosofia, di cui non dice di essere tanto sicuro, e considera gli errori che possa aver commesso per un eccesso di «zelo» (91c), e si mette a combattere, come Iolao, prima la sfiducia nei logoi, poi lo ‘smarrimento’ dei presenti, e infine lancia l’ultima e decisiva argomentazione per salvare il destino della propria dottrina.

La trasformazione autobiografica è quella più difficilmente percettibile sia perché non è l’unico discorso personale tenuto da Socrate, sia perché gli effetti di quel discorso non sono facili da cogliere. Eppure già Fedone parla, ammirato, a Echecrate della «penetrazione con cui [Socrate] colse subite il turbamento prodotto su noi dai loro discorsi, e l’efficacia con cui pose rimedio: come fuggiaschi e vinti, ci rianimò e esortò a seguitare e a riesaminare con lui il ragionamento» (89a).

Non solo, come vedremo nei paragrafi successivi, è proprio con questo cambio di regime discorsivo che si sblocca lo stallo emotivo e concettuale delle prime due argomentazioni e si apre la strada alla trasformazione principale – quella dell’autonomia dei logoi sokratikoi – a cui aspira Socrate assieme ai suoi interlocutori e che poi verrà consacrata con la terza e ultima argomentazione, giudicata impeccabile da tutti i presenti e non solo.

Nelle pagine a seguire verrà analizzato, appunto, il modo in cui quella narrazione autobiografica diventi il veicolo principale delle trasformazioni che avvengono nell’ultima giornata di Socrate. Inoltre, in tale modo essa stessa si costituisce come trasformazione giacché, come vedremo, sblocca lo stallo non solo attraverso l’attribuzione di significati nuovi e positivi agli elementi critici come lo smarrimento o la dipendenza dei logoi dal loro autore, ma anche grazie alla modifica qualitativa del logos stesso, creando difatti un approccio nuovo al dire vero che includerà, d’ora in poi, l’autoesame dell’autore. Di conseguenza, l’arte del logos assomiglierà alla costruzione di una zattera di stampo discorsivo, l’unica capace di tentare l’attraversamento del mare della vita, essendo quest’ultimo ignoto e ostile.

Il discorso autobiografico risulterà dunque efficace (102a) poiché: a) Socrate racconta come il dolore delle sue ricerche e le sue sofferenze annesse («pathe», 96a, «fini a convincermi che a tale ricerca io ero meno idoneo che a qualunque altra cosa» (96c), «a tal punto che disimparai perfino quello che prima ero convinto di sapere» (96c), «ebbi paura  [edeido] che anche l’anima mia si accecasse completamente», 99e) siano affini a quello che  dopo le due argomentazioni sull’immortalità dell’anima fallite provano i suoi interlocutori, ovvero lo smarrimento e turbamento; come si vedrà poco oltre, il fatto che questi sentimenti siano legati alla sensazione di non riuscire a conoscere «le cause vere», li innalza sul piano intellettuale e quindi spiega il loro valore per la conoscenza filosofica in quanto percezioni essenziali dell’anima, b) l’autonarrazione racconta l’eleborazione del metodo socratico e quindi permette di attuare la verifica delle tesi di Socrate non sul piano retorico dei pro e contro, ma tramite una scelta abile del logos più solido e quindi sul piano epistemologico, c) lascia ai suoi discepoli un sentiero discorsivo-esistenziale da percorrere nella ricerca del vero, valido soprattutto come soccorso quando si teme di essersi cacciati in un vicolo cieco, o in questo caso preciso, quando non si è riusciti a imbarcarsi su una zattera verso il vero. È proprio in tal modo che nel Fedone avviene la trasformazione principale: Socrate, attraverso la definizione del logos come zattera dell’uomo, àncora il logos all’individuo che lo crea e così stabilisce anche il modo peculiare della sua costruzione: attraverso la propria autoverifica, l’autore di un logos deve impegnarsi nella cura della propria anima e non deve accogliere tutto quello che sul piano logico-discorsivo contraddice il suo ragionamento.

II. Inventario delle trasformazioni e le loro caratteristiche

Un cambiamento, per poter esser identificato come trasformazione, deve soddisfare due condizioni: sul piano qualitativo, si tratta di un avvenimento irreversibile, mentre sul piano temporale, naturalmente, ci deve essere una condizione anteriore alla quale subentra quella nuova. Inoltre, le trasformazioni possono essere estese nel tempo oppure rapide, nonché più o meno visibili.

Nel Fedone si intrecciano cinque sequenze temporali: il grado “0” comprende il tempo della giornata in cui si svolge il dialogo tra Socrate e i suoi visitatori; essa ha inizio con l’arrivo della nave di Delo e termina con la morte effettiva di Socrate; con il grado “+1” identifichiamo invece ciò che accade dopo la morte di Socrate, nel quale possiamo distinguere due sottoinsiemi: “+1a” racchiude il tempo che segue immediatamente la morte di Socrate, che inizia con il “sentimento nuovo e strano” e include l’intero racconto di Fedone a Echecrate, mentre il sottoinsieme “+1b” rappresenta il futuro generico, quello a cui aspira Socrate sperando che la sua filosofia abbia un seguito. Infine, ci sono due sottoinsiemi anche del grado “-1” che coincide con la sequenza temporale antecedente al dialogo: “-1a” comprende il passato recente, ovvero il processo ad Atene e il mese di prigionia; tale asse temporale è evocato più volte sia dagli interlocutori di Socrate come punto di riferimento per la corsa degli eventi, sia successivamente da Echecrate; infine, la sequenza temporale “-1b” riguarda il passato di Socrate in generale, a cui Socrate stesso accenna all’inizio parlando dei sogni, e che quindi narra per esteso nell’inserto autobiografico in questione.

Le trasformazioni all’interno del Fedone dunque avvengono entro le precise coordinati temporali e coinvolgono i seguenti cambiamenti irreversibili:

II.1 La morte di Socrate: il dialogo (livello temporale “+1a”) si apre con l’annuncio della morte di Socrate. La notizia che Socrate dovrà morire risale però alla sua condanna durante il processo (“-1a”), mentre Socrate effettivamente muore alla fine della sua ultima giornata (sequenza “0”). L’atto di per sé  si consuma quindi nella serata dell’ultimo dialogo di Socrate, mentre la consapevolezza della morte imminente dura un mese, sia per i visitatori, sia per Socrate stesso.

Va da sé che la morte rappresenta un limite invalicabile per i discorsi di Socrate, tant’è che all’inizio della giornata il filosofo afferma che parlerà finché servirà, anche se gli costerà una morte meno dolorosa. Ribadisce un’altra volta tale determinazione prima di intraprendere la terza argomentazione sull’immortalità dell’anima e il discorso sulla ‘seconda navigazione’; tuttavia, dopo averla conclusa, dichiara di non avere altro da aggiungere, nonostante le sollecitazioni di Critone.

Quindi, più che la morte di per sé, è l’orizzonte imminente di essa a giocare il ruolo fondamentale sia nella sequenza temporale “-1a” che nella sequenza “0” e, naturalmente, pone la domanda cruciale, sia per Socrate che per i suoi interlocutori, sulla validità della sua filosofia, che rappresenta l’obiettivo principale del filosofo, nella sequenza “+1b”. Il dialogo è costruito in modo tale che, per poter sperare in un destino durevole, Socrate è consapevole di dover riuscire ad attuare una trasformazione dei suoi interlocutori nella sequenza da “0” a “+1a”. Queste ultime due fasi costituiscono uno strato intermedio ma necessario nel validare i logoi socratici. Il fatto che alla fine Socrate dice di non avere altro da aggiungere deporrebbe a favore dell’ipotesi che egli sia persuaso di aver già detto tutto il necessario e/o il possibile per raggiungere tale obiettivo.

II.2 Sentimento nuovo e strano. Il dialogo è particolarmente carico di molteplici cambiamenti emotivi che agiscono anche da veri protagonisti della trama del Fedone, tuttavia l’unica vera trasformazione emotiva a cui assistiamo sono il «sentimento nuovo» o «un miscuglio strano». Esso si realizza in tutti i presenti nella parte finale della sequenza “0” e viene narrato da Fedone all’inizio della sequenza “+1a”, poi si ripete sempre nella sequenza “+1a” quando Echecrate dichiara di provare la stessa sensazione.

Non è il luogo per analizzare in dettaglio questo ‘sentimento nuovo’, ma possiamo affermare con certezza che il generarsi di tale emozione sia la prova dell’effetto positivo che l’ultimo discorso di Socrate suscita nei suoi interlocutori e nei primi ascoltatori indiretti, come Echecrate. Per quanto sia complessa la questione dell’eredità del metodo socratico e del tramandare la dottrina della vita intesa come preparazione alla morte, si può sostenere che Socrate sia risultato convincente sia nel suo approccio sereno nei confronti della propria morte, sia riguardo alla scommessa sull’immortalità dell’anima, e quindi alla cura  discorsiva dell’anima.

Si tratta dunque di un sentimento di stampo filosofico che è frutto di una nuova consapevolezza nei confronti della morte di Socrate e la morte in generale, e anche su cosa debba essere la vera vita di un amante del sapere. Tale sentimento, si presuppone, dovrebbe istaurarsi in ogni individuo che cerchi il vero e il dire vero, e quindi fa parte integrante della trasformazione a cui aspira Socrate con il suo ultimo discorso, ovvero alla continuità della sua filosofia intesa come la ‘seconda navigazione’.

II.3 Socrate vuole morire. E’ difficile stabilire in quale momento preciso della sua prigionia Socrate giunga a tale consapevolezza, ma si può essere certi che egli la comunichi all’inizio del suo ultimo giorno; tale presa di coscienza si verifica probabilmente nel livello “-1a”, viene annunciata e dibattuta nel livello “0”, dove è presentata come essenza dell’intero insegnamento socratico, dunque deve valere anche e soprattutto nella sequenza temporale “+1b”. Si tratta di una trasformazione concettuale che nella prima parte del dialogo non convince i suoi interlocutori, poiché non si riesce a trovare la prova infallibile dell’immortalità dell’anima. La conoscenza a cui giungono i suoi interlocutori dopo la terza argomentazione e dopo la morte di Socrate è un dibattito aperto, ma con certezza possiamo dire che Socrate abbia innestato la speranza che la sua strada sia l’unica che possa portare verso il vero.

II.4 Socrate aspira che la sua filosofia sopravviva al suo maestro. Questa trasformazione è l’obiettivo centrale dell’ultimo dialogo di Socrate, quindi egli tenta di attuarla nel livello “0”, sebbene sia orientata nel futuro “+1b”. Il destino autonomo della filosofia di Socrate e della sua continuazione dopo la sua morte, dipende dalla capacità di Socrate di costruire un logos sulla vita come preparazione alla morte, la quale dipende direttamente dalla propria scommessa sull’immortalità dell’anima, mentre quest’ultima è radicata nel concetto del mondo delle idee.

Come è già stato accennato sopra, in base al ‘sentimento nuovo’ che si istaura nei suoi interlocutori diretti e indiretti, si può supporre che lo scopo di Socrate sia raggiunto, o quantomeno sia innescato il meccanismo per cui costruire il logos come una zattera, ove la scelta del logos sull’immortalità dell’anima sia l’unica scommessa a cui può aderire l’uomo in cerca del vero.

II.5 Conversione socratica

Nella prima parte della sua autonarrazione, Socrate racconta nella sequenza “0”, com’è noto, una sua trasformazione ben precisa, la sua conversione intellettuale, la quale si è verificata nella sequenza temporale “-1b”. Il passaggio coinvolge le tre fasi della ricerca socratica, delle quali solo la terza, quella filosofica, gli ha consentito di accedere al vero attraverso il logos, passaggio che è già stato oggetto di innumerevoli interpretazioni. Per la nostra analisi sarà importante l’esperienza socratica che si inserisce tra la seconda e la terza fase del suo percorso, ovvero l’esperienza del sole. Tale episodio, come vedremo tra poco, è carico di una forza trasformatrice determinante per l’esito dell’ultimo dialogo di Socrate.

II.6 Narrazione autobiografica. Sebbene sia facilmente individuabile sul piano stilistico, il passaggio autobiografico rappresenta la trasformazione del Fedone meno percettibile, eppure, come si sostiene in questo contributo, si tratta del momento risolutivo per tutte le altre trasformazioni presenti nel dialogo. Eccetto per il mutamento più antico, quello della scoperta di Socrate della via filosofica per arrivare a dire il vero, tutte le altre trasformazioni – il ‘sentimento nuovo’ degli interlocutori, l’istaurarsi della filosofia socratica in quanto esercizio per la morte e la seguente serenità con cui Socrate dichiara di essere pronto a morire – avvengono dopo la narrazione autobiografica. Questo passaggio è responsabile, appunto, della risoluzione dello stallo emotivo e discorsivo che si verifica dopo le prime due argomentazioni a favore dell’immortalità dell’anima. Si potrebbe persino chiedere quanto questo modo di ancorare un logos all’autoesame di se stessi abbia influito sulla certezza di Socrate riguardo alla vita come preparazione alla morte, tuttavia, come vedremo poco oltre, tale configurazione epistemologica della ricerca del vero viene presentata da Socrate come l’unica che possa garantire all’individuo la costruzione di una ‘zattera’ discorsiva affidabile nel suo percorso metafisico.

Prima di intraprendere l’analisi dei motivi della suddetta fiducia di Socrate, va precisato che l’inserto autobiografico in questione è composto da due parti: nella prima viene narrata la sua conversione che culmina con l’esperienza del sole e con la decisione di “rifugiarsi in certi postulati” (99e) che segna la svolta filosofica di Socrate. Nella seconda parte, invece, Socrate presenta il metodo di elaborazione di quel tipo di logos. Questa parte funge sia da autoverifica per Socrate riguardo al discorso sull’immortalità dell’anima, sia da vademecum per i posteri nel quale è codificato, appunto, il percorso discorsivo della costruzione di un logos solido e ancorato all’individuo che lo crea, ovvero alla sua anima che in tal modo conosce se stessa e la propria immortalità.

È proprio per questi aspetti che l’inserto autobiografico del Fedone differisce dagli altri interventi di Socrate per esporre il vero attraverso la narrazione della propria vita. Sebbene Socrate racconti la sua esperienza personale nei diversi dialoghi platonici, i principali discorsi esposti in maniera autoreferenziale si trovano in due soli dialoghi, nell’Apologia e nel Fedone. Tuttavia, mentre la forma narrativa del primo corrisponde alla prassi dei processi giudiziari della Grecia del IV sec., quindi è il contenuto a essere l’elemento innovativo del discorso esposto in prima persona, nel caso di Fedone ci troviamo in una situazione inversa: Socrate decide di creare una nuova forma narrativo-stilistica per argomentare un’idea che ha già provato a difendere con due argomentazioni a personali, ovvero attraverso il confronto di diversi logoi. Dopo le due dimostrazioni sull’immortalità dell’anima, costruite e fallite così da portare a totale sfiducia nei logoi in generale,Socrate rimane a lungo in silenzio ed espone la sua terza e ultima argomentazione, ancorandola alla narrazione della propria esperienza.

In questo modo l’autonarrazione di Socrate si contraddistingue, innanzitutto, per il ruolo che le viene assegnato, ovvero essa diviene l’ultima arma di Socrate contro lo scetticismo dei suoi interlocutori riguardo all’immortalità dell’anima. Considerando il fatto che nel momento di tale decisione il tempo rimasto a disposizione per Socrate è pressocché esaurito, la scelta di narrare la propria vita appare come rivelazione, da parte di Socrate, dell’origine del proprio pensiero, e in tal modo aspira di costituirsi come una regola discorsiva generale nella costruzione del logos volto ad affrontare le questioni essenziali dell’esistenza dell’uomo, ovvero quelle della ‘generezione e della corruzione’.

Oltre alla funzione esclusiva per dire vero, l’autonarrazione di Socrate è caratterizzata anche di un’efficacia straordinaria. Come è già stato accennato, è solo dopo questa trasformazione discorsiva che avvengono le principali trasformazioni del Fedone, ed è dunque lecito ipotizzare che ne sia responsabile. D’altronde, è Socrate stesso a suggerire tale direzione di lettura: egli dice chiaramente che l’unico modo per uscire dall’impasse è quello di riesaminare il suo discorso da capo, e vedere dove magari esso è stato costruito male, forse per un eccesso di entusiasmo o per una qualsiasi altra emozione che agisca a danno dell’efficacia del logos. In altre parole, Socrate vuole analizzare cosa manchi all’autonomia del suo logos e quindi ne intraprende una pubblica autoverifica, dove il controllo degli interlocutori funga da garanzia per evitare gli errori. Tale autoverifica inizia con il racconto autobiografico e aggiunge all’argomentazione sull’immortalità dell’anima quello che effettivamente le mancava, ovvero la difesa della tesi dell’immortalità in quanto unico logos solido e proficuo. Tale qualità della suddetta tesi emerge solo ed esclusivamente attraverso il riesame della propria vita e delle strade possibili per la conoscenza dei principi ontologici.

L’inserto autobiografico quindi svolge innanzitutto una funzione trasformatrice sul logos finale il che, come vedremo tra poco, lo incatena irreversibilmente alla ricerca del vero attraverso le trasformazioni concettuali-emotive dei presenti, e in tal modo garantisce la sopravvivenza della dottrina socratica alla morte del suo autore. Nei paragrafi successivi analizzeremo come questa forza triplice dal punto di vista qualitativo agisca dapprima sui sentimenti dei presenti, poi sul logos e infine sulla ricerca del vero in generale, trasformando completamente la validità del logos e ponendo l’autonarrazione al centro di tale ricerca in qualità di suo garante. In quest’ottica il racconto autobiografico di Socrate funge da fondamento alla terza argomentazione del Fedone e quindi al concetto socratico cardinale secondo il quale la vita sia una preparazione alla morte attraverso la cura – discorsiva – della propria anima.

In conclusione, se consideriamo il livello temporale “0” del Fedone come il principale piano della fabula del dialogo che, da un lato, narra il passato recente (“-1a”) e lontano (“-1b”) di Socrate, e, dall’altro lato, viene poi narrato da Fedone ai posteri (“+1a”) con lo scopo di tramandarne l’insegnamento ai posteri (“+1b”), l’inserto autobiografico, ovvero il cambiamento discorsivo-stilistico durante l’ultima giornata di Socrate, è la prima trasformazione vera e propria che avviene nel Fedone. Anche nel caso delle trasformazioni accadute e/o annunciate in precedenza – come la posizione di Socrate riguardo la morte, la sua conversione giovanile –, è solo dopo l’autonarrazione, che esse perdono il loro significato personale e acquisiscono un valore universale per la strada socratica della ricerca del vero.

III. Triplice forza trasformativa dell’inserto autobiografico (96a-102a)

Finora abbiamo evidenziato quanto la posizione narrativa del racconto autobiografico di Socrate sia cruciale, dal punto di vista strategico, per il destino dell’intero insegnamento del filosofo. Tale potere trasformativo sul piano escatologico è dovuto, come si vedrà in questo capitolo, ai tre momenti contenuti nel racconto in questione, che riescono a contrastare e trasformare i tre timori principali degli interlocutori di Socrate: il sospetto che l’anima non sia immortale,la sfiducia nei logoi in quanto strumenti inadatti per giungere al vero, l’incapacità di costruire i logoi in assenza di Socrate.

Infatti, per rimediare allo stallo intellettuale ed emotivo che si verifica dopo le prime due argomentazioni sull’immortalità dell’anima, Socrate, attraverso la sua autonarrazione, innanzitutto istaura con i suoi interlocutori un legame empatico di stampo intellettivo: raccontando il proprio smarrimento e timore, non solo confiderà ai presenti di aver avuto l’uguale esperienza della crisi conoscitiva, ma anche tematizzerà tale senso di perdizione in qualità di percezione dell’angoscia dell’anima e quindi rileverà l’anima stessa in quanto soggetto dell’indagine ontologica; in secondo luogo, attraverso la possibilità di autoverifica che viene conferita dall’autonarrazione, Socrate ricalibrerà qualitativamente il logos in una ‘zattera’, la cui solida costruzione è possibile solo se vengono abbinati i ragionamenti compatibili con il logos principale e quindi non solo edificherà il suo ultimo discorso in maniera impeccabile, ma anche si proporrà una prova della possibilità di costruire un logos forte, e volto a dire vero; infine, lascerà, attraverso l’autonarrazione e l’indagine di sé, un modello efficace e valido anche in assenza dello stesso Socrate. In altre parole, l’autobiografia si costituirà come un soccorso per superare l’angoscia di non poter conoscere, e come un fondamento efficace per riprendere a costruire la ‘zattera’ capace di navigare verso il vero: ogni volta che il logos sulla ‘generazione e corruzione’ comincia ad, è necessario tornare a scrutinare la propria conoscenza anziché perdersi nei giochi retorici.

III.1 Elemento trasformativo tematico-ontologico: dallo ‘smarrimento’ all’angoscia per il pericolo ‘terribile’ per la propria anima e al ‘sentimento nuovo’ (96a-99e)

Come è già stato accennato poco sopra, le emozioni nel Fedone giocano un ruolo importante e ben visibile. Considerando il fatto che per Socrate solo la via discorsiva possiede un valore gnoseologico, potrebbe apparire insolita tale enfasi sentimentale del suo ultimo dialogo. Tuttavia, l’ampio raggio di emozioni che manifestano gli interlocutori di Socrate – il riso, la tristezza, e infine, lo smarrimento in cui costoro cadono dopo le prime due argomentazioni –, assieme al loro contenuto psicologico, definiscono anche e soprattutto il campo di comprensione dei presenti, ovvero la loro sintonia cognitiva con gli eventi in corso.

Infatti, tralasciando in questa sede l’evoluzione emotiva degli amici di Socrate nella prima parte del dialogo, lo ‘smarrimento’ e il ‘turbamento’ successivi esprimono  preoccupazioni di ordine filosofico-intellettuale: i presenti nutrono dei dubbi sull’insegnamento di Socrate, temono di non essere in grado di costruire i logoi con l’abilità del maestro, si chiedono se i logoi adeguati siano alla portata dell’uomo in generale. Socrate, dal canto suo, insinua che il logos sia invece l’unico mezzo dell’uomo per conoscere il vero, giacché tale verità risiede in una dimensione per l’uomo altrimenti inaccessibile, ovvero quella post mortale.

Durante le prime due argomentazioni riguardo l’immortalità dell’anima, dunque, si accresce la consapevolezza degli interlocutori di Socrate sul vero valore della discussione, ovvero che non si tratta di un dialogo che potrebbe finire inconcluso come spesso accadeva nelle conversazioni con il maestro, lasciando aperte varie possibilità e diversi sviluppi. Al contrario, si è posta una questione fondamentale riguardo l’uomo in quanto tale, ed è tirato in ballo anche e soprattutto il destino delle loro anime. Come aveva avvertito Socrate all’inizio del dialogo, la morte è un argomento di eccezione al quale si deve e si può dare una risposta definitiva valida per tutti. Non solo, è nella dimensione post mortale che si erige il logos principale riguardo la natura e la conoscenza dell’uomo.

Lo ‘smarrimento’ denota dunque un paradosso conoscitivo che i presenti non sono in grado di risolvere: il dibattito sull’anima si rivela essere l’enigma filosofico cruciale a cui non si trova una risposta convincente. Dato il valore di questa impasse, il ‘turbamento’  dei presenti esprime il dubbio che all’uomo sia negata e/o sia inaccessibile l’indagine su se stesso e la conoscenza in quanto tale, giacché essa dipende dalla capacità del logos di definire la dimensione post mortale, ma, come si è visto con le prime due argomentazioni riguardo l’immortalità dell’anima, i ragionamenti delle prime due argomentazionirisultano inefficaci.

Proprio nel momento della massima intensità della suddetta emozione filosofica dei presenti, Socrate, dopo una pausa, apre il suo discorso autobiografico a partire di un sentimento intellettuale, individuando nei pathe i contenuti della sua autonarrazione. Ora, la complessità semantica di questo termine è ben nota e ampiamente analizzata dagli studiosi e dai traduttori delle opere di Platone. Sebbene viga un ampio consenso nel tradurlo con ‘esperienze’, si è altrettanto d’accordo sul fatto che la semantica del termine contenga una componente ‘sofferta’ (Cerri, 2003: 54). Socrate dunque risponde allo ‘smarrimento’ con i propri pathe e in tal modo stabilisce con i presenti un legame empatico sul piano intellettuale e mostra di aver avuto medesima esperienza delle loro stesse difficoltà.

Inoltre, narrando le sue prime due tappe – le scienze naturali e la filosofia di Anassagora – Socrate racconta i suoi fallimenti e come questi l’abbiano portato a una crisi conoscitiva pressocché identica in cui si sentono caduti i suoi interlocutori nel Fedone : «finii col convincermi che a tale ricerca io ero meno idoneo che a qualunque altra cosa!» (96c), «ero stanco a indagare le cose» (99d),  e, soprattutto, «ebbi paura che anche l’anima mia si accecasse completamente» (99e). Definendo così il proprio stato d’animo durante i precedenti insuccessi intellettivi, Socrate non comunica solo di saper cosa i suoi discepoli provano di fronte a una conoscenza irraggiunta, ma anche conferisce al loro smarrimento un valore più universale: lo smarrimento, insinua Socrate, è una sensazione non solo naturale, ma anche l’unica possibile di chi cerca e non trova né le risposte sulle ‘cause vere’, né le fonti affidabili per tali quesiti.

Socrate dunque, per liberare i suoi interlocutori dal sentimento invalidante, non lo contrasta, bensì lo riprende, lo istrica e lo incanala. Tramite il racconto del proprio fallimento nella prime due tappe della propria ricerca del vero, egli definisce e spiega meglio quel sentimento che pervade i suoi discepoli: si tratta di una stanchezza intellettuale dovuta a una apparentemente paradossale regressione conoscitiva, dovuta a un accrescimento della propria ignoranza, e alla diminuzione, o addirittura alla scomparsa, delle fonti dove cercare le risposte.  È comprensibile che, data l’importanza che riveste la ricerca, il suo fallimento generi autentica angoscia per la propria anima. Socrate legittima tale procedimento di ripetizione e precisa denominazione delle tappe del processo conoscitivo, che porta verso lo ‘smarrimento’ dei suoi interlocutori assoluto, in quanto elemento indispensabile nella ricerca delle ‘cause vere’.

Tuttavia lo sgancio dello ‘smarrimento’ dal contesto psicologico e la sua modulazione nonché riqualifica sul piano spirituale è solo la prima parte del rimedio che Socrate, tramite la narrazione dei propri pathe, pone al malessere intellettivo dei suoi interlocutori. In realtà, il vero processo trasformativo avviene durante l’episodio del sole e nel corso dell’insorta paura per la propria anima. I suoi interlocutori, ‘smarriti’, hanno raggiunto la fase della stanchezza intellettuale che comprende anche la sfiducia nei logoi come strumenti conoscitivi per scrutinare il vero. Socrate, nella sua narrazione, va oltre e parla della preoccupazione per la propria anima, con ciò alzando la posta del gioco: l’uomo, se non risolve l’impasse dei propri ragionamenti, incorre nel rischio non solo di non raggiungere la conoscenza delle cose, ma anche di condannare alla perdizione la propria anima. Si potrebbe anche accettare la condizione umana di ignoranza, ma se da essa dipende la propria salvezza, allora il valore del percorso conoscitivo cambia radicalmente, ed è questa la principale configurazione epistemologico-esistenziale che Socrate aspira a istaurare.

Tale passaggio e inserimento del connubio tra il vero e la salvezza è probabilmente il culmine dell’intero dialogo del Fedone, eperciò è necessario approfondirlo meglio. Nell’episodio del sole, Socrate non fornisce spiegazioni, ma dichiara inequivocabilmente che la mancata conoscenza delle ‘cause vere’ induce all’angoscia dell’anima, e quindi il pathe intellettuale si trasforma in un’esperienza esistenziale radicale. È vero, all’inizio Socrate dice di aver avuto paura per l’anima, ma dopo la terza argomentazione, riassumendo un’altra volta il suo insegnamento centrale, precisa e indica che il soggetto della conoscenza riguardo le ‘cause vere’ è l’anima stessa (Martinelli Tempesta, S., 2003: 122). La sua mancata «formazione spirituale e il modo in cui ha vissuto» (107d) implica che, dopo la morte, l’anima «va vagando, travagliata, in uno stato di totale incertezza» (108c). Perciò «il pericolo terribile» (107c) dovuto all’ignorare la propria natura viene esperito dall’anima stessa.

Socrate dunque non lascia dubbi: l’angoscia insorta di perdizione prova  innanzitutto l’esistenza di quell’elemento che rischia di perdersi, ovvero l’anima. Il vicolo cieco in cui giunge Socrate dopo le sue ricerche fallite fa emergere l’anima angosciata per se stessa che non riesce a conoscere il vero – rappresentato dalla metafora del sole – né attraverso l’analisi dei suoi riflessi, né tramite qualche tipo di visione estatica diretta. Allo stesso momento, l’anima esperisce sia la necessità esistenziale di conoscere, sia l’impedimento che a tale obiettivo pone il corpo umano: e ciò a causa tanto per l’inadeguatezza dei sensi che le nega il contatto diretto con il vero, tanto per  il fatto che la sua mortalità concede all’anima un tempo limitato per conoscere il vero e per prepararsi alla morte tramite la cura di se stessa.

Con l’episodio del sole, Socrate dispiega il significato completo dello ‘smarrimento’ dei suoi amici e discepoli. Esso riguarda non solo una delusione di ordine filosofico ma pure implica il rischio ontologico in cui essi incorrono. Prima dell’autonarrazione di Socrate, Simmia fornisce una potente metafora del logos come una zattera per «affrontare il rischio della traversata del mare della vita» (85d) e, successivamente, esprime i suoi dubbi riguardo all’immortalità dell’anima, dubbi che generano lo sconforto dei presenti. Simmia, dunque, comprende il coraggio che ci vuole per compiere un simile viaggio, ma solo con l’episodio del sole, Socrate definisce il vero pericolo, quello della perdizione dell’anima, che si erige se si sceglie di desistere da tale navigazione.

L’innalzare sul piano della salvezza la questione riguardo all’immortalità dell’anima rappresenta il primo elemento trasformativo dell’autonarrazione di Socrate. Lo smarrimento che provano i suoi interlocutori non è né accidentale, né eccezionale e non esprime una semplice delusione intellettiva. Il fatto che all’inizio della giornata essi temano di disturbare Socrate con i propri dubbi riguardo all’immortalità dell’anima, denota che non ancora comprendono l’importanza della questione. Anche caduti nello ‘smarrimento’, non sono ancora consapevoli del rischio che corrono. Invece, dopo l’autonarrazione di Socrate, i presenti giudicano la sua prova sull’immortalità esposta «in modo meraviglioso» (102a) e infine Critone promette infine a Socrate che si prenderanno cura di se stessi (115b). Successivamente, la morte di Socrate genera in loro “un sentimento nuovo”, “un miscuglio strano” (59a), che denota l’avvento della trasformazione emotivo-intellettuale a cui li induce l’ultima argomentazione sull’immortalità dell’anima e sulla necessità di prendersene cura attraverso la conoscenza del buono e del giusto.

In questa parabola che va dallo smarrimento al sentimento nuovo e strano, l’autonarrazione di Socrate gioca un ruolo decisivo. Da un lato, Socrate allo ‘smarrimento’ risponde con il racconto dei propri pathe, valorizzando in tal modo i sentimenti di ordine intellettivo all’interno della ricerca del vero. E, dall’altro lato, inserisce l’elemento mancante che cambia radicalmente la natura di questo smarrimento e permette di trasformarlo in un ‘sentimento nuovo’, ovvero l’angoscia dell’anima di fronte al pericolo dell’ignoranza. In tal modo Socrate istaura un legame empatico e attua una trasformazione del campo psicologico-personale in quello filosofico-universale, saldando la ricerca del vero come esperienza della propria anima sul piano ontologico e gnoseologico.

III.2 Elemento trasformativo metodologico-epistemologico: dall’autoverifica del discorso alla necessità dei logoi e al metodo affidabile della loro costruzione (99e-102a)

Questo elemento trasformativo è il più difficile da cogliere ed evidenziare giacché in questa parte dell’autonarrazione avviene la principale teorizzazione del Fedone, dove è il mondo delle Idee a fornire la risposta al quesito essenziale sul fondamento del logos volto a dire vero, i.e. viene introdotto e sancito il suo carattere metafisico. Questa parte dell’autonarrazione si svolge inoltre in forma del dialogo con Cebete, e dunque sorge un dubbio legittimo se faccia ancora parte del racconto di sé di Socrate. Non solo, la forza trasformativa che verrà esposta in questo capitolo investe il piano metodologico ed epistemologico, fondendosi, in tal modo, con il suddetto orizzonte metafisico e celandosene dietro. Infine, come vedremo poco oltre, il suo potere trasformativo emerge non in autonomia, bensì solo in relazione con la prima e la terza forza trasformativa dell’autonarrazione.

Eppure, è proprio l’introduzione del motivo dell’anima angosciata per il rischio della propria perdizione in un corpo imperfetto e mortale che rende necessaria la traversata del ‘mare della vita’; tra le due parti della narrazione si istaura quindi un inscindibile legame di causalità, perciò la ‘seconda navigazione’ costituisce la seconda fase dell’autonarrazione di Socrate. Inoltre, nonostante la svolta metafisica che la suddetta seconda navigazione rappresenta, ben due volte Socrate sostiene di non dire niente di nuovo (100b). Tralasciando il dibattito su quanto sia veritiera tale affermazione, è importante sottolineare che la ‘seconda navigazione’ è percepita, da Socrate, soltanto come una modulazione di stampo metodologico sul tema dell’immortalità dell’anima. Tale modifica implicherà tuttavia anche una trasformazione qualitativa del logos stesso e della sua significanza.

La seconda parte dell’autonarrazione socratica è volta a contrastare la sfiducia nel logos in generale sorta negli interlocutori di Socrate. La strategia discorsiva del filosofo comprendere un duplice percorso: invece di negare la validità al logos sull’immortalità dell’anima, egli dichiara di attuare un’autoverifica per cercare un eventuale errore commesso da parte sua, per eccesso di ‘zelo’; in tal modo egli esegue anche un ricalibratura metodologica del logos, costruendolo in base a una scelta del ragionamento ‘solido’ e all’accostamento o all’eliminazione dei logoi compatibili e incompatibili all’asse tematica centrale.

Sebbene Socrate non paragoni direttamente il nuovo tipo di costruzione del logos a quello di una zattera, tuttavia il titolo della ‘seconda navigazione’ che egli conferisce alla sua ultima e decisiva tappa delle ricerche filosofiche allude chiaramente al discorso di Simmia tenuto in precedenza, riguardo alla traversata del mare della vita (Caserta C., 2015 : 95) . Socrate, nella prima parte della sua autonarrazione, ha dimostrato che effettivamente nella ricerca del vero all’uomo non rimane che la terza opzione indicata da Simmia, quella della traversata più difficile e in solitudine, ma soprattutto attraverso il logos (Martinelli Tempesta S., 2003: 98) . Poi, come abbiamo visto, ha conferito a tale viaggio un significato salvifico per l’anima, e infine, nella seconda parte dell’autonarrazione, si addentra a dimostra personalmente la costruzione di una zattera-logos più solida possibile.

Ma se nella metafora della zattera è evidente che la tenuta di quest’ultima dipende da due fattori principali, dei quali però è responsabile solo ed esclusivamente il navigatore – parliamo della sua capacità di costruire un’imbarcazione che non affondi o non si sfasci in una tempesta, e dell’abilità nella navigazione a bordo della sua zattera – tale procedimento non è così ben visibile quando si tratta dei logoi. Come rimproverà Socrate ai suoi interlocutori, essi trattano i logoi come oggetti di una gara retorica, «a ragionare pro e contro ogni cosa, finiscono col convincersi di essere diventati i più sapienti di tutti e di avere essi soli compreso che non esiste alcuna cosa né alcun ragionamento sicuro e saldo» (90b-c), invece di preoccuparsi di costruire un logos capace di portarli verso il vero.

Tuttavia, nella prima parte della sua autonarrazione, Socrate trasforma, come si è già detto, la ricerca del vero in quella della salvezza dell’anima, e quindi un logos solido e ben navigato diventa una necessità esistenziale per l’uomo. Dato che, come racconta Socrate, le scienze naturali o altre autorità filosofiche non sono state in grado di fornirgli le risposte sulle ‘cause vere’, egli è stato costretto a «rifugiarsi nei certi postulati», ovvero a costruirli e a difenderli da solo. Da questo punto di vista, la narrazione di Socrate su come egli si è ‘rifugiato nei certi postulati’ diventa dunque inevitabile e necessaria, poiché essa coincide con la genesi dei logoi sokratikoi in quanto tali.

È importante sottolineare il tono imperativo di questa seconda parte dell’autonarrazione di Socrate. Cercare il vero muniti del logos come una zattera in mare tempestoso è l’unica, nella prospettiva socratica, attività nella quale dovrebbe impegnarsi l’uomo durante la sua, vita ed è esattamente questo che Socrate praticamente ordina ai propri amici e discepoli: «Tu invece, come si dice, risponderesti nel modo in cui s’è detto, appoggiandoti alla saldezza di questo postulato» (101D).

È vero dunque che il principale significato della seconda parte dell’autonarrazione riguarda l’identificazione del fondamento e/o della fonte sul quale andrebbe costruito il logos sull’immortalità dell’anima e sulle ‘cause vere’ in generale. Tuttavia, il valore essenziale che comporta lo svelare del mondo delle Idee (102b), non dovrebbe oscurare un processo altrettanto importante che Socrate indica nel corso della nella costruzione del logos, ovvero l’attenzione del suo ‘costruttore’ all’edificazione scrupolosa di uno strumento che dovrà indirizzare la sua stessa anima verso il vero, e quindi verso la salvezza.

Se nella prima parte dell’autonarrazione è la valorizzazione dei sentimenti intellettuali e l’episodio dell’anima a ottenere un effetto trasformativo sullo stato d’animo dei presenti, nonché sulla loro consapevolezza del vero significato del logos sull’immortalità dell’anima, nella seconda parte invece si istaura l’autoverifica della propria conoscenza e capacità ‘costruttiva’ come un imperativo per ogni amico del sapere, l’unico che possa condurre quest’ultimo verso la vera conoscenza. Socrate stilla un vero e proprio vademecum per il metodo socratico, ma per renderlo operativo ed efficace non è sufficiente presentarlo e/o indicare il mondo delle Idee come vero fondamento del concetto dell’immortalità dell’anima.

È necessario, appunto, che Socrate stesso si ponga come esempio di tale percorso ed è questo il vero momento trasformativo del passaggio in questione, che di conseguenza modifica il tessuto discorsivo del logos in quanto tale.  Nel momento dello smarrimento dei suoi interlocutori, Socrate, ancora prima di intervenire sul loro stato d’animo tout court, li esorta a non perdere la fiducia nei logoi e di trovare la tenacia nel riesaminare un’altra volta il ragionamento sull’immortalità dell’anima, supponendo che sia possibile un discorso-ragionamento costruito diversamente rispetto alle prime due argomentazioni. La verifica della tenuta dei logoi inizia non con l’esamina degli argomenti che sono esposti, bensì con l’autoverifica della propria conoscenza: «io non mi preoccupo che ciò che io dico sembri vero a coloro che qui sono presenti – se mi riuscissi tanto meglio! – ma mi preoccupo che paia vero soprattutto a me» (91b).

Socrate è inequivocabile: non sono i logoi a creare la conoscenza e/o i suoi contenuti.  È vero che i logoi sono l’unico mezzo a nostra disposizione per dire vero, ma ciò non implica l’autorità dei logoi, poiché essi non sono altro che riflessioni della conoscenza di chi li produce: «invece di dare la colpa a sé e alla propria mancanza di conoscenza, si (finisce), perché angustiati, di dar la colpa volentieri ai ragionamenti medesimi» (90d). Le cattive pratiche discorsive, così come anche le prime due argomentazioni del Fedone, diventano tali poiché si scambia il ragionamento con i giochi retorici. Questi ultimi sono capaci di confutare qualsiasi argomento, anche l’immortalità dell’anima. Ma è altrettanto vero che il relativismo non è prodotto dai logoi, bensì dalla mancanza della conoscenza del loro autore; in questo caso, dalla sua ignoranza sulla fonte della costruzione del logos vero, quello ancorato nel mondo delle Idee.

La complessa conversione del logos in una ‘zattera’ a servizio cruciale del suo costruttore e navigatore, avviene appunto nella seconda parte dell’autonarrazione di Socrate, dov’egli, attuando un’autoverifica, narra della propria seconda navigazione, che si istaura come un modello per eccellenza di costruzione del logos filosofico. In questo processo, il logos, davanti agli interlocutori di Socrate, si trasforma irreversibilmente sul piano metodologico ed epistemologico: invece di una battaglia tra i logoi,è necessario concentrarsi sull’analisi dettagliata di ogni ragionamento e sulla verifica, ma ancora più importante, sull’autoverifica da parte del suo stesso autore. In tal modo, il rischio della sfiducia nei logoi si trasforma nella necessita di elaborare il metodo più affidabile per costruire un logos più solido.

È esattamente questa svolta che Socrate narra nella seconda parte della sua autonarrazione, ovvero come, nel corso delle sue ricerche, la stanchezza si sia velocemente trasformata, al decisivo timore per la propria anima, in una necessità di elaborare i logoi volti a dire vero. Una volta stabilito che i logoi dovrebbero trarre materiale dal mondo delle Idee, ovvero dalla prospettiva metafisica, persiste però il dilemma della capacità dell’uomo di costruirli in maniera solida. Il difetto della costruzione, come evidenzia Socrate, rischia di minare i contenuti e/o la conoscenza necessaria alla salvezza della propria anima. Infatti, le prime due argomentazioni del Fedone, difettose nel metodo,minacciano di non convalidare l’idea tanto essenziale come l’immortalità dell’anima. La seconda parte dell’autonarrazione di Socrate serve, appunto, per lasciare le istruzioni metodologiche con lo scopo di evitare tali ‘terribili’ pericoli.

Per concludere, l’esposizione del mondo delle Idee e la dimostrazione della costruzione di un logos capace di dire vero attraverso l’autonarrazione inseriscono nell’indagine l’elemento dell’autoverifica come condizione sine qua non per poter  elaborare e, successivamente, esaminare a fondo i logoi volti a dire «la verità delle cose che sono» (99e). Allo stesso momento riqualifica i logoi come ‘zattere’ discorsive. Tale elemento è volto a contrastare la sfiducia dei presenti nei logoi, e ottiene questo risultato spostando la responsabilità del ragionamento solido sul suo autore. In compenso,  Socrate insiste sul continuo sforzo nell’elaborare un logos veritiero, da eseguire attraverso un’autoverifica incessante e, successivamente, attraverso l’esame spietato dei discorsi stessi. Tale esame, tuttavia, deve seguire non la regola delle insidie retoriche, bensì la logica della concordanza o della sua mancanza tra i logoi (101d). La costruzione del discorso, dunque, consiste, da un lato, nell’esercizio perpetuo del suo autore sulla propria conoscenza e, dall’altro lato, del riesame critico anche del logos più solido (107b). Le suddette regole basilari, incarnate dal discorso di Socrate negli ultimi attimi della sua vita, sbloccano e superano l’impasse discorsivo dovuto allo ‘smarrimento’ e abilita la trasformazione a cui Socrate aspira di più, quella della futura trasmissione della sua filosofia in quanto preparazione alla morte e cura della propria anima attraverso i logoi.

III.3 Elemento trasformativo strutturale-esistenziale: annodamento della ricerca del vero all’indagine di se stessi (99a-102a)

Se con la prima parte della sua autonarrazione Socrate riqualifica e sblocca il contesto emotivo dell’indagine filosofica, mentre con la seconda parte rimodula lo status del discorso volto a dire vero e contrasta la sfiducia nei logoi, considerato in toto, l’inserto autobiografico di Socrate rappresenta un’autentica trasformazione strutturale all’interno del Fedone che abilita la terza argomentazione sull’immortalità dell’anima non solo attraverso lo sblocco delle impasse emotive e discorsive già discusse sopra, ma anche e soprattutto rivelando e istaurando l’anello mancante nella ricerca filosofica del vero, ovvero l’indagine su se stessi.

Infatti, Socrate con la sua autonarrazione non solo dimostra quanta responsabilità sulla validità dei logoi cade sul loro autore, ma anche e soprattutto inserisce quest’ultima nel processo conoscitivo-discorsivo come un elemento intrinseco e imprescindibile. Inoltre, narrando la propria vita e il suo percorso intellettuale, Socrate allinea le sue esperienze-pathe con quelle dei suoi interlocutori, e attua anche la propria autoverifica con la partecipazione attiva di Cebete e in tal modo trascende i confini del solitario e personale peregrinaggio filosofico e fonde le esperienze individuali in un percorso valido universalmente. La sintonia e la corrispondenza dei sentimenti ‘intellettivi’ tra Socrate e i suoi interlocutori, nonché la perfetta intesa sul piano metafisico e riguardo alla costruzione del logos in quanto zattera solida – è Cebete a dare le decisive risposte sull’immortalità dell’anima – convalida la posizione di Socrate nei confronti della vita come preparazione alla morte e come cura dell’anima. Il percorso pressocché identico che si verifica in Echecrate, il quale ascolta il racconto di Fedone, sancisce e istituzionalizza una volta per tutte la via socratica.

Socrate dunque attraverso la propria autonarrazione delinea le tappe del percorso verso il vero e dalla dimensione personale lo traspone sul piano generale. In tal modo nega il legame binario e autonomo tra il logos e la conoscenza, bensì istaura un triangolo ‘conoscenza-uomo-logos’, nel quale l’uomo rappresenta la punta principale. Tale elemento apporta l’essenziale trasformazione del Fedone che getta le basi non solo per la terza argomentazione sull’immortalità dell’anima, ma anche convalida la filosofia di Socrate in quanto essenziale configurazione epistemologico-esistenziale.

Inserire nel processo conoscitivo l’indagine su se stessi significa diventare consapevoli che i logoi sono direttamente dipendenti dal loro autore e dalle scelte di quest’ultimo sul piano metodologico (“pro o contro” vs. “costruzione di una zattera”) e tematico (individuazione del logos più solido). Socrate esorta dunque i suoi seguaci, nel momento in cui si sentono di nuovo ‘smarriti’ e iniziano a perdere la fiducia nei logoi, a tornare a esaminare se stessi e a ripartire da capo nella costruzione dei ragionamenti. Non ci sono libri o filosofi che possano guidare meglio della propria mente, a patto che essa si dedichi all’esercizio di conoscere se stessa in maniera metodica (91c) (Gower O.,  2008: 338).

Socrate stesso nel Fedone dà tre versioni di un logos riguardo a un unico argomento, ovvero l’immortalità dell’anima, di cui le prime due si rivelano essere dei logoi deboli e difettosi. La terza argomentazione invece differisce dalle prime due non solamente per la sua autenticazione nel mondo delle Idee, il quale le conferisce un aspetto  indiscutibilmente più solido, ma anche per l’elemento umano che ne diviene allo stesso momento soggetto e oggetto.  L’autonarrazione di Socrate inserisce il procedimento autoreferenziale nella ricerca del vero e lo depersonalizza, ovvero lo priva di prospettiva (Tarant H., 2005 : 256) attraverso l’accostamento di analoghe esperienze individuali nei confronti dello stesso dilemma del vero e del come dire vero. Nell’autobiografia  l’uomo non è più un’unità biografica o psicologica, bensì un rappresentante dell’essere umano in generale nel senso filosofico ed esistenziale.

In tal modo, ogni ricerca personale si svolge in un orizzonte universale dell’uomo che crea un logos sulle ‘cause vere’: indagando se stesso, un individuo non solo si prende cura di sé, ma anche partecipa all’esame dell’idea dell’uomo in quanto tale. L’inserimento dell’elemento ‘umano’ nella ricerca filosofica spiega e giustifica l’excursus autobiografico a cui Socrate dedica una parte dei suoi ultimi attimi, dai quali dipende il destino intero della sua filosofia. Se Socrate avesse semplicemente presentato la terza argomentazione costruita radicando il logos nel mondo delle Idee, senza precederla con il racconto autobiografico, la questione dell’immortalità dell’anima sarebbe rimasta un argomento di prim’ordine, senza però acquisire un aspetto esistenziale.

Con la modulazione autobiografica Socrate insiste invece sul carattere autoreferenziale dell’argomento in questione, e dimostra l’unica via per dire qualcosa di vero al riguardo sia possibile attraverso l’indagine di se stessi e la costruzione del logos in maniera adeguata, esattamente come nel caso di una zattera, a cui spetta il compito di traversare un mare ignoto e ostile. Oltre alle indicazioni metodologiche, Socrate fornisce dunque ai suoi interlocutori anche le coordinate indirizzate verso il vero, ossia il processo d’autoesame e di autoverifica che permetta di non perdersi nei logoi deboli e ingannevoli.

Vincolare la ricerca del vero all’indagine su se stessi acquisisce in tal modo un carattere universale e contraddistingue l’argomento sull’immortalità dell’anima da tutti gli altri dialoghi socratici. Allo stesso momento, l’inserimento dell’anello mancante nel processo conoscitivo, quello dell’uomo e della sua indagine su se stesso, rende tale modello particolarmente efficace. Socrate, narrando le proprie esperienze e ritornando alla genesi del suo metodo filosofico, si costituisce come l’arché-modello dell’uomo che costruisce il discorso sul vero attraverso il binomio dell’autoindagine e dell’orizzonte metafisico.

Socrate, con la forza trasformativa dell’autoreferenzialità che caratterizza, secondo lui, la ricerca del vero, impone ai suoi interlocutori e agli ‘amici del sapere’ in generale un’immagine dell’indagine filosofica interiorizzata. In questo modo nessuno può sentirsi estraneo all’esito della suddetta indagine, giacché ne va la sua conoscenza e salvezza, ovvero il proprio destino sul piano ontologico ed esistenziale. Tale spostamento del vettore della conoscenza dentro l’uomo stesso non può dunque lasciare indifferente nessuno che si addentri nella ricerca delle ‘cause vere’.

Il motto filosofico di Socrate, secondo il quale «un logos deve apparire vero soprattutto a me» (96c), solo in apparenza sembra di poggiare su un garante di veridicità debole e/o soggettivo. Se invece l’individuo che indaga la struttura dell’Essere e la natura dell’anima riesce a compiere un gesto di coraggio e di onestà, allora inizierà a costruire il logos che più corrisponde di più al vero celato all’interno della sua anima. In tal modo non sarà più possibile fidarsi dei logoi disonesti sul piano metafisico, appropriati soltanto nelle ‘gare retoriche’ dei pro e contro. In altre parole, è l’anima dell’uomo il miglior garante della veridicità di un logos.

Comunque sia, questa interiorizzazione della ricerca del vero dentro l’uomo-soggetto non ha nessun aspetto mistico o in qualche altra misura misterioso. La formazione spirituale sulla quale Socrate insiste nel Fedone, come l’unica attività a cui dovrebbe dedicarsi l’uomo durante la sua vita e in prospettiva della morte, è esclusivamente di stampo discorsivo, ovvero si svolge attraverso i logoi. Perciò nonostante la loro sfiducia nei logoi o nelle proprie capacità di costruirli – i due timori degli amici e discepoli di Socrate – deve essere, secondo il filosofo, superata. Al soccorso ai dubbi dei suoi interlocutori, egli infatti costruisce un’eccellente prova di un logos veritiero e ne fornisce, come si è già discusso, delle regole e delle istruzioni particolarmente precise.

Con l’ultimo e fondamentale, nonché conclusivo, elemento trasformativo, Socrate completa un vero e proprio modello di autonarrazione: ne definisce sia i topoi tematici, tra cui l’esigenza ‘naturale’ del vero, la frenetica e sterile ricerca iniziale del vero, l’ammissione della propria ignoranza,  il timore esistenziale di essere perduti, la contemplazione del sole, l’epochè, la svolta metafisica e la finale indagine delle fondamenta dell’uomo; sia gli strumenti metodologici come l’autoverifica e la costruzione di un logos simile a una zattera, ma soprattutto ne indica il terreno gnoseologico, ovvero l’anima dell’uomo e il suo carattere autoreferenziale. Sono questi i tre pilastri della ricerca del vero che corrispondono ai tre momenti trasformativi dell’autonarrazione di Socrate.

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Note

[1] Su questo aspetto il dibattito tra gli studiosi è ricco e propone varie letture, ma in questo contributo si dà la precedenza agli indizi narratologici presenti all’interno del testo, ovvero alla percezione riportata dai personaggi del dialogo in questione: sono loro che, essendo in gran parte gli stessi ad aver partecipato al processo di Socrate e ad averlo visitato quotidianamente nel carcere di Fliunte, esprimono tuttavia un profondo stupore quando Socrate, nel suo ultimo giorno, annuncia la posizione alquanto rigorosa riguardo la morte, ovvero che per un autentico amante del vero morire sia un bene.

Infatti, per evitare qualsiasi equivoco, Socrate in questa sede è considerato in quanto unità narrativa autonoma del Fedone, ossia un personaggio le cui caratteristiche sono ricostruite a partire dalle informazioni contenute nel testo in questione.

[2] Tutte citazioni in italiano di Fedone sono riprese da Platone, 1992, Tutti gli scritti, a cura di Reale, G., Bompiani, Milano.

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