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M@gm@ Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali Motore di Ricerca interno Rivista Internazionale di Scienze Umane e Sociali
Miti e immaginari nella contemporaneità / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.16 N.3 2018

L'immaginazione e il potere: il ’68 tra Usa, Italia e Germania

Luca Benvenga

magma@analisiqualitativa.com

Dottorando in Human and Social Sciences all'Università degli Studi del Salento; cultore della Materia, corso di laurea in Sociologia, Università degli Studi del Salento; laurea in Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi del Salento; fa parte dell'ISDC Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile, Università degli Studi di Trieste.


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Atelier expérientiel Imaginer pour comprendre le monde
L'expérience de l'errance vécue dans la créativité autobiographique
Dessin: Gioele Reale - Lycée Artistique d'État Emilio Greco
Ateliers de l'imaginaire autobiographique © OdV Le Stelle in Tasca

Come nasce a Berkeley

 

Il 1968 è stato l’annus horribili per la fidelizzazione degli studenti, e più in generale dei giovani come categoria sociale, alle strutture di potere. In quell’anno, lo scheletro sociale viene attaccato su più fronti, azione essa che ne indebolì la spina dorsale degli organismi indirizzati al suo perfetto funzionamento, con una inevitabile frammentazione politica e conseguente riduzione del controllo collettivo. Eretici, individualisti, nuclei auto-organizzati, gruppi politico-ideologizzati e studenti rivendicavano “l’imagination au pouvoir”, confezionando una rottura radicale sul piano del costume e dei saperi. A emergere è il carattere simultaneo e correlato delle manifestazioni studentesche, l’internazionalismo e la solidarietà incondizionata, elementi questi che lasciavano prefigurare delle somiglianze tra il soggetto rivoluzionario, da Oriente a Occidente, nelle sue svariate forme dell’agire collettivo.

 

Scoppiata dapprima nei campus americani, la rivolta (studentesca) mostrò tuttavia una caratterizzazione puramente internazionalista (da Berkeley a Madrid, da Berlino a Tokyo, da Praga a Belgrado). Negli Stati Uniti l’insoddisfazione dei rapporti sociali vigenti si manifestò con segnali di squilibrio nella Carolina del Nord a partire dal 1960, con gli studenti neri mobilitati nell’organizzare dei sit-in di protesta contro la segregazione razziale, con al fianco associazioni cittadine e comitati di quartiere in difesa dei diritti civili della popolazione afro, negli anni in cui l’apartheid e le teorie politiche razzializzate erano molto forti. Parallelamente al movimento per i diritti civili, ci sono altri fattori rilevatori che contribuirono alla fermentazione, del tutto naturale, di saperi radicali, sviluppando un embrionale movimento di contestazione che non aspettava altro che l’occasione per collettivizzarsi. Già nel 1957 Kerouac scrive On the road, il suo capolavoro, un elogio alla marginalità e alla vita periferica; Herbert Marcuse nel 1964 pubblica L’uomo a una dimensione, aggiungendo un ulteriore tassello al mosaico; Timothy Leary, con le esperienze e gli esperimenti con LSD declina il paradigma psichedelico e l’inizio di una nuova era controculturale. Un moto di contestazione del tutto variegato e multiforme, come si osserva, inizia così a emergere e a convogliare nei campus USA, trasformandoli in serbatoi di istanze rivoluzionarie pronti a esplodere e a frantumare il vecchio modello socio-politico occidentale. È l’SDS, nata dalle ceneri della “Lega degli studenti per una democrazia industriale”, a farsi carico di questo processo di trasformazione politico-esistenziale, assurgendo a luogo di sperimentazione e di critica sociale, mediando tra diverse anime, quella degli Yippies di Hoffman alle Pantere Bianche di Sinclair.

 

Nelle università americane di Harvard, Berkeley e della Columbia, si assiste al lavoro programmatico degli studenti che ripercorreranno il cammino tracciato dai militanti afroamericani in difesa dei diritti civili, e nel 1962, con il manifesto “Port Huron Statement”, a firma di Tom Hayden, l’organizzazione studentesca dell’SDS illustrerà le tematiche centrali che nel decennio a seguire andranno a orientare l'azione. Assisteremo a un risveglio sociale che risente dei temi e delle problematiche del movimento giovanile, con una marcata politicizzazione della linea teorica degli studenti di sinistra che vedranno nella lotta contro la burocrazia universitaria, gli esperimenti bellici, l’imperialismo degli States, la discriminazione razziale e il conformismo, i capisaldi della società nuova.

 

A un’agitazione studentesca supportata da una contestazione che abbraccia i diversi settori della società americana, si assiste a una progressiva e violenta degenerazione della reazione dell'establishment, che risponde ai reclami giovanili e alle occupazioni con una lunga carrellata di arresti, pestaggi, abusi e violazioni dei diritti fondamentali del cittadino. Tuttavia, la repressione messa in atto alla Columbia University nel 1968 e nel 1969; il radicalizzarsi del movimento afro-americano e la nascita del black power nel 1966, movimento questo che si pone come obiettivi quello di restituire ai neri americani le loro radici, rivendicando tra le altre cose l’introduzione nei luoghi di istruzione dei “black studies”; l’opposizione nel 1966 dell’SDS alla presenza della CIA nelle università e ai programmi di reclutamento; le decine e decine di manifestazioni popolari contro la guerra in Vietnam che nel 1968, che non solo erano il perno della rivolta studentesca, bensì divennero anche il punto forte della maggioranza dell’opinione pubblica che protestava contro l’imperialismo del presidente Johnson; e infine, l’abolizione nel 1967 per opera del Congresso Americano della possibilità di rinviare l’arruolamento all’esercito per motivi di studio, hanno favorito la radicalizzazione del movimento di protesta e cristallizzato le proteste nel luogo simbolo della critica per definizione, le Università, sebbene abbiano trovato continuità nelle lotte salariali degli operai e nel riscatto dei proletari, tessendo una rete di relazioni miste rappresentate dalle similitudini di classe, dove l’esclusione sociale cui era avvezza la società contemporanea, veniva rimpiazzata da un bisogno collettivo di metamorfosi del modo di vivere e di fare politica.

 

Studenti tra Italia e Germania

 

Nella specifica italiana è il progetto di riforma universitaria che porta il nome del ministro Gui a disseminare l’agitazione studentesca. Il possibile adeguamento dell’Università al sempre più crescente numero di studenti e il tentativo di subordinazione della didattica ai bisogni dell’economia, costituì il fondamento delle mobilitazioni delle facoltà universitarie che si manifestarono in uno stato primordiale all’Istituto di Studi Sociali di Trento, che nel 1966 idealizza e progetta la creazione di una “contro-università” in opposizione all’“Università di classe”, all’“Università dei Baroni”, il cui fattore principe era rappresentato dalla critica dei programmi di didattica (ma non solo).

 

L’agitazione era come un virus che si propagava e trovava terreno fertile dove risultavano evidenti le scollature inter-generazionali. Dapprima il magma investì l’ateneo pisano occupato nel 1967, successivamente toccò all’università di Torino con gli studenti che diedero forma a dei corsi di studio alternativi e autogestiti, organizzando anche delle iniziative politiche all’interno dell’università occupata. È la volta di Milano nel 1968, con piazza Duomo che viene presa d’assalto dagli studenti dopo i violenti scontri che si erano susseguiti con le forze dell'ordine che voleva impedire il prosieguo dell’occupazione dei locali universitari, assistendo a una reazione violenta delle autorità alla prassi di insubordinazione gerarchica inscenata dagli studenti. Stessa sorte toccò alla città di Firenze nel gennaio dello stesso anno, quando in seguito alla violenta repressione abbattutasi sul movimento, l’Università toscana si vide presentare le dimissioni del rettore esasperato dal clima di “terrore” che si iniziava a respirare in tutta Italia, il più delle volte dovuto all’incapacità della classe dirigenziale di ascoltare i problemi sollevati dal nuovo soggetto sociale e politico. Con gli scontri di Valle Giulia del primo marzo del ’68 e gli oltre quattrocento tra feriti e arrestati alla Facoltà di Architettura, l’agitazione studentesca iniziò a ramificarsi su tutto il territorio, sud compreso, travolgendo come uno tsunami le fondamenta di una società bolsa.

 

In un’analisi a posteriori, scorgiamo come la specificità Italiana è stata rappresentata dalla coesione, dall’incontro ideologico e dalla combinazione di intenti tra il movimento studentesco e operaio, che già da qualche anno aveva assunto una sua identità, partorendo il primo grande ciclo di lotte degli anni Sessanta che si fece promotore delle più grandi conquiste sociali della storia nazionale, con un sempre più acceso movimento pendolare tra tumulti in piazza e repressione sistematica, caratterizzante anche il decennio successivo.

 

Nei vari contesti nazionali, ognuno con le sue forme espressive e comunicative più o meno ideologizzate e più o meno radicali, possiamo delineare una mappa concettualistica caratterizzante la rivolta degli studenti, individuando alcuni temi forti e insindacabili considerati come punto di riferimento e di simbiosi, da Tokyo a Roma. In una totale commistione della piattaforma rivendicativa e dell’agire politico, possiamo convenire in espressioni di protesta concomitanti, la cui connessione scaturiva dal rifiuto della politica nazionale e le riforme sull’istruzione, la massificazione delle università, e a questo si andavano a sommare i “primi segni di un indebolimento della crescita economica che aveva caratterizzato il dopoguerra nei paesi industrializzati”, oltre che ovviamente la guerra in Vietnam.

 

A quella che era una condizione spontanea che ha dato il là all’agitazione, ci sono da aggiungere alcuni elementi propriamente esistenziali, che ci spingono a leggere la contestazione del Sessantotto come un’evoluzione storica naturale e assiomatica. Il riferimento è l’esigenza di liberarsi da freni morali e norme sociali castranti, in nome soprattutto della libertà sessuale, dove gli studi di W. Reich confluiti nel suo libro di maggior prestigio, “La Rivoluzione Sessuale”, facevano da propulsore per una nuova spinta modernizzatrice, un manuale di autodifesa da esibire contro la società gerarchica e sessista, contro l’opposizione all’autoritarismo nelle università, contro lo sfruttamento imperialista nei paesi del Terzo Mondo e la critica alla società del benessere che fondava il consenso e l’accettazione attraverso la propaganda. Se in Italia l’antagonismo definì una sua struttura reale nel 1968, nella Repubblica Federale Tedesca il movimento degli studenti anticipa di qualche anno i suoi coetanei occidentali.

 

Nel 1966, a Francoforte prima e a Berlino dopo, in un clima avvelenato da interessi partitici e in una condizione politica fatta di compromessi storici, per via del formarsi della “Grande coalizione” tra il partito socialdemocratico (SPD) e i cristianodemocratici, con Kissinger cancelliere e Willy Brandt suo vice, comincia a costituirsi una eterogenea area di opposizione extraparlamentare, l’Apo (Ausserparlamentarische Opposition), in cui confluiscono organizzazioni studentesche, sigle sindacali, militanti traditi dall’Spd e di cui l’Sds costituirà il fiore all’occhiello. Inoltre, la protesta contro il riarmo nucleare e il servizio di leva obbligatorio, la lotta contro i famigerati Notstandsgesetze,entrata in vigore nel 1966, furono le tematiche dominanti del movimento degli studenti nella prima metà degli anni ’60, temi che costituivano dei punti di rottura con il partito socialdemocratico: una disaffezione giovanile che metterà fine a una generazione di rapportarsi con il programma social-comunista di tipo parlamentare.

 

Altri aspetti che fanno da detonatore per la protesta giovanile sono l’antimilitarismo, l’anti-americanismo, la critica della società consumista, in virtù soprattutto dell’influenza esercitata dai sociologi della Scuola di Francoforte, e la ricerca di nuovi atteggiamenti e nuovi stili di vita che si allontanassero quanto più possibile dalla tradizione, dalla generazione degli adulti. Un po’ come avvenne per l’Italia, l’organizzazione studentesca dell’SDS (la Lega Socialista degli Studenti), nata all’interno del’SPD ed espulsa nel 1959 dopo il congresso di Bad Godesberg, rivolse le sue accuse sulle condizioni dell’insegnamento e sull’autoritarismo della classe dirigenziale in seno alle Università, rilevando anche come la neo-riforma su cui la classe politica stava lavorando risultava essere intrisa di interessi capitalistici, che avrebbero danneggiato il sistema formativo, subordinandolo alla logica capitalista.

 

Il 1964, per alcuni studiosi, rappresenta l’anno simbolo della rivolta studentesca nella RFT, ancor prima del 1966, data di ingresso della Socialdemocrazia (SPD) nel governo di coalizione e della lacerazione del tessuto social-comunista che conobbe il frazionamento politico. Il 18 dicembre di quell’anno, il senato berlinese ricevette il presidente del Congo Ciombè, resosi responsabile dell’assassinio dell’ex presidente Lumumbia, ucciso tre anni prima a causa della sua politica progressista. L’SDS, con l’APO e le organizzazioni africane presenti sul territorio berlinese, non si fecero pregare e manifestarono il loro dissenso: scrive Sergio Rossi che con questa azione «la SDS ruppe il periodo di “elaborazione teorica” che durava ormai dalla scissione con il Partito Socialdemocratico», e spetta riconoscere nelle tesi di Adorno, Horkheimer e Rosa Luxemburg, i massimi ispiratori.

 

La protesta nella RFT si radica nella Berlino contesa dalle due superpotenze mondiali per diversi fattori che consentirono alla città e al movimento di partire con due lunghezze di vantaggio sugli altri paesi europei. La prima ragione proveniva dal fatto che Berlino fosse la città dei renitenti, per via di uno statuto speciale che consentiva ai suoi cittadini l’esonero dalla coscrizione militare, attirando individualità anarchiche o perlomeno poco avvezze agli obblighi istituzionali, creando un’affinità teorica tra i residenti che poterono coalizzarsi in un fronte comune libertario favorito anche dal carattere internazionale della città. Il secondo fattore era costituito dalla presenza della Freie Universitat nella Berlino ovest, la “Libera Università” nata come sottoprodotto del colonialismo delle grandi democrazie anglo-americane, che però negli anni ’60 consentì agli studenti una maggiore libertà di manovra. Infine, una terza ragione è da ricercare nell’anomalia politica che i suoi abitanti stavano vivendo sulla loro pelle, con il blocco dei rifornimenti, la costruzione del Muro, la censura antisovietica e l’anticomunismo galoppante. A innescare l’esplosione della rivolta, il 2 giugno 1967, è la visita a Berlino dello Scià di Persia e, nel bel mezzo delle manifestazioni di protesta organizzate soprattutto da studenti iraniani e da oppositori del regime che videro anche la partecipazione dell’SDS, la polizia carica brutalmente il corteo che si era radunato davanti al municipio di Schoneberg, e uno studente di teologia, Benno Ohnesorg di 26 anni viene ucciso con un colpo alla testa, colpito mentre cercava di sfuggire da quella condizione di “caccia al manifestante” che si era venuta a creare.

 

Le autorità di Berlino e il gruppo editoriale Springer, che deteneva il controllo di oltre l’80% delle pubblicazioni nella sola Berlino, difendono l’operato della polizia e gettano discredito sui manifestanti, fondando sulla disinformazione e sulla mistificazione giornalistica il consenso dell’opinione pubblica. L’analisi sulle violenze del 2 giugno stimola anche un dibattito tra i filosofi della scuola di Francoforte, i quali si dissociarono dalla nuova linea pattuita tra le organizzazioni studentesche nel congresso «Università e Democrazia. Condizioni e organizzazione della resistenza», dal quale emerse la necessità di una scelta radicale, interpretando l’uso della violenza come una specie di disarmo unilaterale, e il cui corpo riverso sul terreno di Ohnesorg, ne era l’estrema conseguenza della tendenza alla violenza poliziesca, alla quale bisognava rispondere a muso duro. Il solo Harbert Marcuse, come dimostra nel saggio Repressive Toleranz, si schiera con gli studenti a sostegno di una pratica violenta, affermando la natura di minoranza oppressa degli studenti, “per le quali esiste un diritto naturale alla resistenza, un diritto ad adoperare mezzi extralegali quando quelli legali si siano dimostrati inadeguati”.

 

In seguito all’assassinio e dopo la partecipazione di migliaia di manifestanti al funerale tenutosi a Hannover, si susseguono numerose le manifestazioni studentesche contro la guerra in Vietnam, a Monaco, Francoforte e Stoccarda, oltre alla stessa Berlino, l’SDS e l’APO, rivolgono particolare interesse “al rapporto tra relazioni di potere, disponibilità alla violenza e manipolazione dell’opinione pubblica per mezzo dei mass media”, con una conseguente campagna «Espropria Spinger» nel tentativo di impedire anche la consegna dei giornali davanti alle tipografie, oltre al ricorso ad attacchi violenti che avevano come bersaglio le sedi del gruppo editoriale. Una pratica questa generalizzata diffusasi nella RFT, specie dopo l’attentato al leader dell’SDS Rudi Dutschke per opera di un esaltato neonazista nell’Aprile del 1968, data simbolo questa, che mette fine alla fase riflessiva sull’uso o meno della violenza all’interno del movimento studentesco tedesco, incasellando un nuovo scenario di conflittualità politica organico e di elevato spessore.

 

Il maggio francese: gli enragés

 

Poco più a ovest, in prossimità dei Pirenei, la mobilitazione studentesca assume una condizione fisiologica tendente al parossismo. In Francia le sue modulazioni sono violente e anticipatrici di una fase segnata da forti rivolte e continue contestazioni che infiammeranno i vari settori della società transalpina scuotendo profondamente il potere politico e lo Stato, che verranno travolti da questa forza d’urto assunta dal movimento. Gli storici riconducono cronologicamente l’inizio del ’68 francese alla prima metà degli anni Sessanta, trovando nel «Manifesto dei 142», ovvero una dichiarazione sottoscritta dagli intellettuali francesi che giustificava «il diritto alla insubordinazione» nella guerra d’Algeria, e nelle proteste contro la riforma universitaria di Fouchet, Ministro dell’Istruzione del governo gollista Pompidou - il cui progetto prevedeva una selezione per gli accessi alle Università in vista del riordino del settore formativo sempre più legato al sistema produttivo -, le prime scintille che innescarono la miccia. Tuttavia, va sottolineato come l’insoddisfazione e il disagio furono strettamente connessi con la massificazione dell’insegnamento e con l’inadeguatezza delle strutture universitarie, del tutto incapaci di assorbire la crescente domanda. Biblioteche e aule non vennero adattate a questo radicale cambiamento accrescendo a dismisura il malcontento, così come gli stessi sbocchi occupazionali per i nuovi corsi di laurea erano incerti e spesso solo un miraggio. Come a dire, una sorta di malessere a tutto tondo che generò un rifiuto collettivo del modello in atto e investì il resto della società.

 

Nei settori operai l’apertura della Francia al mercato comune, con conseguente compressione del salario reale e innalzamento della disoccupazione, furono dei validi pretesti per promuovere forme di auto-organizzazione, come nel caso di Caen, in cui i lavoratori presentarono una piattaforma che scavalcava le rivendicazioni sindacali, riappropriandosi di quote salariali con il saccheggio sistematico dei generi alimentari. Alla loro protesta seguitò uno sciopero dei metallurgici a Redon che coinvolse quasi tutte le aziende della città, riuscendo a stabilire un collegamento autonomo dei lavoratori che andasse oltre le organizzazioni sindacali, mostrando agli occhi del mondo intero come in Francia la crisi fosse evidente, trasversale e, che le classi popolari avessero trovato la risposta nell’azione diretta e nell’autonomia.

 

Gli studenti, l’altra faccia della medaglia raffigurante la rivolta sociale, già nel 1967, nella città universitaria di Jessu, a Lione, sollevarono la questione sulla promiscuità negli alloggi, lottando contro l’abolizione di ogni regolamento etico, “superando così il dibattito accademico sulla riforma degli statuti antisessuali”, mentre a Marsiglia, nelle manifestazioni studentesche “si contestano pubblicamente i regolamenti interni delle residenze universitarie, e in particolare il divieto di circolazione e di accesso alle camere degli studenti dell’altro sesso”, rivendicazioni queste fatte presenti già nel 1965 nella residenza universitaria parigina di Antony, che annoverava un movimento di opposizione che vide coinvolti l’UNEF (Sindacato degli studenti francese) e il FEN (Federazione Nazionale degli insegnanti).

 

Come nella città francese di Nantes, a novembre dello stesso anno, con gli studenti che non solo si impadronirono della sezione locale dell’UNEF per via delle accese discussioni sulla sua “integrità morale” e condotta politica. Tuttavia, la protesta che darà l’input all’insorgere degli studenti e alla nascita degli Enragés (gli “Arrabbiati”) esplode lontano dalle vie del centro, in una delle tante zone periferiche della Francia, coacervo di bidonville e quartieri miserabili, in prossimità dei quali sorgeva il Campus di Nanterre, fondato nel 1964 e attanagliato sin da subito da una condizione di sovraffollamento soffocante. Il gruppo degli Arrabbiati si materializza all’interno di una ben più ampia lotta studentesca contro la presenza nelle università delle forze dell'ordine. Il 26 gennaio del 1967, scovata la presenza di uomini in borghese intenti a confondersi con i residenti e i frequentatori del campus, una volta fotografati, le loro foto vennero fatte circolare su alcuni cartelli e portate in giro per tutta l’Università come monito a dispensare da questi “illustri figuri”. L’azione di monitoraggio e di controspionaggio mobilitò una sessantina di poliziotti in divisa chiamati con forza dal rettore, respinti senza molto affanno dai giovani ben organizzati, dagli Enragés, ovvero i «teppisti del campus» affiancati da un centinaio di militanti di estrema sinistra e da un gruppo di anarchici. Gli Arrabbiati, i quali avevano trovato un’intesa ideologica con l’Internazionale Situazionista seppur non prendendone espressamente parte, mostrarono il carattere riformista dell’UNEF e la sua sterile opposizione.

 

Il 22 Marzo del 1968, per protestare contro l’arresto di un militante dei gruppi di estrema sinistra a Nanterre, trecento suoi compagni tennero un comizio in un anfiteatro e, nel bel mezzo della notte, 142 di loro occuparono la sala del Consiglio di Università nell’edificio dell’amministrazione. All’occupazione parteciparono gli Enragés, anche se risultarono in disaccordo con gli altri gruppi gauchiste del movimento circa la presenza nell’assemblea degli stalinisti e degli osservatori dell’amministrazione tanto da lasciare la sala occupata del Consiglio di Facoltà ed essere accusati di voler saccheggiare i locali. Nella loro protesta lanciarono parole d’ordine, scritte sui muri con le bombolette spray, inaugurando quello che Vienet definì il “vandalismo critico”. Senza gli Arrabbiati si idealizzò e prese piede un raggruppamento eterogeneo legato all’estrema sinistra, un gruppo formale ribattezzato dalla stampa dapprima come il “Movimento dei 142” e poi “Movimento 22 marzo”. Composto da trozkisti della Lega Comunista rivoluzionaria (LCR), da qualche anarchico tra i quali Daniel Cohn-Bendit, futuro portavoce del movimento studentesco, ed anche da maoisti dell’Unione dei giovani comunisti marxisti-leninisti (UJCML), divennero nel giro di pochissimo tempo un’area d’azione che contò più di 1200 partecipanti, trovando nella lotta antimperialista e nella democrazia diretta un’intesa dell’agire comune dal quale partire. Da quel giorno e per oltre un mese gli uffici universitari vennero occupati, inaugurando la “fase propriamente studentesca del Maggio Francese”. Solo tre giorni dopo, il 29 marzo, giorno in cui il «Movimento del 22 Marzo» tenne un comizio al campus, il rettore Grappin ordinò di chiudere l’Università per due giorni, alimentando lo spettro di quello che la stampa definì come uno sparuto gruppo formato da «una decina di arrabbiati», anarchici e situazionisti la cui «azione consisteva da settimane nell’intervenire nelle aule, durante le esercitazioni, nell’occupare edifici ed eventualmente nel tracciare scritte giganti sui muri».

 

Ne seguirono dei provvedimenti disciplinari che, se da un lato portarono all’espulsione di un membro degli arrabbiati, Gerard Bigorgne, allontanato da tutti gli istituti di istruzione della Francia per cinque anni, alla richiesta e le continue minacce di espellere l’anarchico Bernard Cohn-Bendit, alla decisione di deferire agitatori di Nanterre alla commissione istruttoria del Consiglio dell’Università di Parigi, ed anche la nuova chiusura dell’Alma Mater quaranta giorni dopo l’occupazione, indussero gli studenti ad allargare la protesta e il dissenso. Ed è così che i membri del «Movimento 22 Marzo» e dell’Unef, per nulla intimoriti dallo sgombero del giorno prima a Nanterre, il 3 maggio si trasferirono alla Sorbona con la volontà di organizzare un corteo nel cortile dell’Università.  Il 6 il 7 e l’8 maggio cortei di studenti attraversano Parigi; il Quartiere Latino, zona universitaria a sud della Senna, è un palcoscenico aperto agli scontri che vedranno la presenza dei blouson-noir, dei disoccupati, degli operai e degli studenti liceali e raggiungeranno l’apice in quella che passerà alla storia come la “Notte delle barricate” del 10 maggio.

 

Quel venerdì ventimila persone si radunarono in piazza Denfert-Rochereau e, uno alla volta arrivati in corteo nel Quartiere Latino e visto negato l’acceso verso la Senna, decisero di erigere delle barricate fino a quando non sarebbero riusciti a riconquistare la Sorbona. «Per la prima volta - scrive Viénet - automobili vennero rovesciate, messe di traverso nelle strade e incendiate; le strade stesse furono disselciate per far barricate, i negozi saccheggiati. La pratica delle scritte sovversive già sperimentata a Nanterre, cominciò a diffondersi in molti quartieri di Parigi […] Il quartiere in mano agli insorti conobbe un’esistenza indipendente tra le ore 22 e le due del mattino. Attaccato alle 2 e 15 dalle forze che lo attorniavano da ogni lato, riuscì a difendersi per più di tre ore [...]». Dal 13 maggio la rivolta e il movimento cambiano natura: i sindacati CGT (Confédération Générale du Travail), il FEN e il CFDT (Confédération Française Démocratique du Travail) organizzano uno sciopero generale che vede la partecipazione di 800 mila scioperanti che paralizzano letteralmente Parigi, sfilando al grido di “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.

 

Ormai “Il Maggio francese” è divenuto un focolaio difficile da domare e la commistione delle istanze studentesche con le vertenze contrattuali delle varie categorie di lavoratori ne sono la testimonianza. Il fuoco divampato finì per travolgere gli stessi sindacati. Le fabbriche occupate, se prima dello sciopero generale si contavano sulla punta delle dita, dopo il 14 maggio divennero oltre cinquanta sparse su tutto il territorio nazionale, e nelle settimane successive si moltiplicarono gli scioperi, le occupazioni e i cortei, e la loro molecolarizzazione non tardò a toccare il resto dell'Occidente e a incoraggiare l'Oriente.

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