Internati militari italiani
Maria Immacolata Macioti (sous la direction de)
M@gm@ vol.16 n.1 Janvier-Avril 2018
LA RIELABORAZIONE DELL’IDENTITÀ INDIVIDUALE E COLLETTIVA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI NELLE RICERCHE PROMOSSE DALL’ANRP
Rosina Zucco
rosina.zucco@virgilio.it
Docente di Materie Letterarie in pensione, ha affiancato al lungo e appassionato lavoro di insegnante una sempre più fattiva collaborazione con l’ANRP. Interessata allo studio delle testimonianze, ha curato la trascrizione del manoscritto originale di due diari di ex IMI, accompagnandoli ciascuno con un’analisi sulla diaristica dell’internamento. Redattore per la rivista “Liberi”, dal 2012, quale responsabile del Dipartimento di Storia e Memoria, coordina tutti i progetti proposti e realizzati dall’Associazione. È curatrice del Museo “Vite di IMI. Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945”.
Internati Militari Italiani nel campo di Sandbostel (Foto Vialli) |
La “resistenza senza armi” degli IMI
Quella degli IMI, i militari italiani internati nei lager del Terzo Reich tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, è una pagina di storia ancora poco conosciuta, tanto da non essere contemplata neanche dai manuali scolastici. Eppure ben 650mila persone, di cui 50mila deceduti nel corso della prigionia, furono coinvolte in questa drammatica vicenda, le cui ripercussioni fisiche e psicologiche si avvertirono per lungo tempo non solo in coloro che ne vissero direttamente l’esperienza, ma anche, indirettamente, negli anni successivi alla fine della guerra, in altrettante famiglie che dovettero fare i conti, al rientro in patria dei loro cari, con i traumi e le violenze subite durante i venti mesi di internamento. Ricordi incisi nel corpo e nell’anima, incancellabili, se non con un faticoso lavoro di temporanea rimozione, che testimoniano quanto l’esperienza del lager sia stata un punto cardine fondamentale nella costruzione e rielaborazione dell’identità di ciascun internato, in senso individuale e collettivo.
La storia degli IMI è come un grande affresco in cui tante storie individuali hanno un denominatore comune: operare una scelta volontaria e responsabile di non collaborazione di fronte al nuovo ordine mondiale disegnato dai nazisti e dai loro alleati fascisti. Un NO! netto e reiterato, costato sofferenze, privazioni e sacrifici, finanche la morte, pur di mantenere fede ai propri valori.
La nostra storiografia ha iniziato a studiare con forte ritardo le diverse sfaccettature di una vicenda che andò ad intrecciarsi con le varie questioni spinose legate alle tappe più importanti della storia dell’Italia contemporanea. Oggi, grazie al lavoro di storici tedeschi e italiani, di studiosi, giornalisti e giovani ricercatori la storiografia sugli internati militari italiani ha fatto molti passi avanti. In questo percorso si inseriscono le iniziative e i progetti promossi dall’ANRP che, come Centro Studi, Documentazione e Ricerca ha impostato attraverso strategie rigorosamente scientifiche un ampio lavoro di indagine storico-sociologica, articolato su due direttive principali: da una parte la raccolta delle dirette testimonianze orali e scritte, attraverso le quali è scaturita la fisionomia policroma, soggettiva ed emotiva di ciascun IMI, sia come individuo sia come facente parte di un gruppo; dall’altra la ricerca su una ricca documentazione d’archivio che ha consentito di acquisire elementi certi, oggettivi sui dati anagrafici e biografici di ciascun IMI e di integrare le testimonianze, consentendo agli studiosi di ricostruire un efficace spaccato di una vicenda umana per lungo tempo dimenticata.
8 settembre 1943: l’inizio della storia
Per introdurre con maggiore consapevolezza l’argomento del nostro lavoro, ci sembra opportuno delineare una breve storia degli IMI, ripercorrendo le tappe più incisive del loro vissuto esperienziale, a partire da quel fatidico 8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio sottoscritto dall’Italia con le Forze Alleate. L’atto ufficiale, firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, dai generali Castellano e Bedell Smith, viene reso noto solo cinque giorni più tardi. A darne l’annuncio al paese è il maresciallo Pietro Badoglio, a cui, il 25 luglio dello stesso anno, dopo la destituzione di Mussolini, il re conferisce l'incarico di capo del governo. Questo il testo letto alla radio da Badoglio: «II governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Molti italiani si illudono che la guerra sia finita, ma non è così. Le parole di Badoglio gettano l’Italia nel caos più completo e scatenano l’immediata reazione della Germania nazista. Il nuovo corso degli eventi coglie di sorpresa il Regio esercito italiano, che stava combattendo a fianco dei tedeschi, acquartierato in Grecia, Jugoslavia, Albania, sul fronte francese e in territorio nazionale. In pochi giorni le truppe italiane, prive di ordini precisi, diventano facile preda delle ben più organizzate e meglio equipaggiate forze naziste. La confusione del momento provoca un senso di sgomento nell’animo dei soldati italiani. L'ultima parte del proclama di Badoglio è ambigua: verso chi reagire se non contro gli ex alleati?
Mentre il Re e il Governo lasciano Roma per rifugiarsi a Brindisi, i tedeschi, già massicciamente presenti nella penisola, preparati da tempo a quello che essi definiscono “il tradimento”, scatenano la controffensiva e procedono all’occupazione delle regioni centro-settentrionali. Nelle loro retate cadono migliaia e migliaia di soldati, che, appena catturati, dopo essere stati costretti a consegnare le armi, sono sottoposti a pressanti richieste di collaborazione. Racconta Michele Montagano, Presidente vicario dell’ANRP, ex internato nel KZ di Unterlüss: «L’8 settembre 1943 ero il Signor Tenente Michele Montagano, Ufficiale del Regio Esercito Italiano, e, come Guardia alla Frontiera, prestavo servizio in Slovenia. A Gradisca d’Isonzo veniamo catturati da armatissimi soldati tedeschi e sottoposti a discriminazione: o CON LORO o CONTRO DI LORO! Come fui disarmato della pistola d’ordinanza ho respinto l’invito tedesco ed ho gettato in faccia al “nuovo” nemico il primo dei tanti NO! che poi ho ripetuto testardamente negli 8 officierlager nei lunghi e duri mesi della prigionia. La brutalità della reazione tedesca fu immediata (…). La conseguenza fu l’avvio verso i lager su carri bestiame, stipati sino all’inverosimile, in condizioni penose e umilianti» (cfr. L’intervento-testimonianza di Michele Montagano, 16 aprile2015, Roma, Aula di Palazzo Montecitorio, è riportato integralmente in Liberi, n.3-4, marzo- aprile 2015, pp.9-10, consultabile on line sul sito www.anrp.it).
A parte i pochi che riescono in qualche modo a fuggire o che aderiscono alla proposta dei tedeschi, la maggior parte dei militari catturati si rifiuterà di collaborare e conoscerà la tragica esperienza dell’internamento.
3. Il NO! degli IMI e l’avvio ai lager del Terzo Reich
Ma chi erano i soldati del Regio esercito italiano e quali furono le ragioni che li spinsero a dire reiteratamente NO! alla collaborazione con il nazifascismo? Di fatto, come testimonia Michele Montagano: «I giovanissimi (…) facevano parte di una generazione allevata all’obbedienza cieca, pronta, assoluta al Duce, alla devozione al Re, all’esaltazione retorica e nazionalista della Patria» (cfr. Montagano, ibidem).Il loro motto era “CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE”. Alcuni di loro erano entrati come volontari nel Regio Esercito appena quindicenni. «Mi sono arruolato volontario a 15 anni perché credevo nella grandezza della Patria» racconta il socio molisano Dante Cicchese, in una letterainviata all’ANRP il 28 giugno 2003, in cui allega la sua fotografia di ragazzo imberbe, infagottato in una divisa troppo grande per il suo corpo di adolescente. Di fronte alle ripetute richieste di collaborazione con il nazifascismo, quei giovani che avevano sempre detto “Sissignore”, dicono NO! operando per la prima volta una libera scelta. La ricerca storica e sociologica sulle testimonianze ne ha annoverato le principali motivazioni: la fedeltà al giuramento prestato al Re e alla Patria, la consapevolezza che il rifiuto aveva il valore di un plebiscito contro la dittatura fascista, il rifiuto di combattere contro gli altri italiani impegnati nelle file della Resistenza e soprattutto il rifiuto di quella guerra di cui avevano visto le tragiche conseguenze (foto 01). Sono oltre 650 mila quelli che, essendosi rifiutati di collaborare con il nazifascismo, affrontano la dura esperienza del lager. Oltre 50mila di loro muoiono per malattie, fame, uccisioni, bombardamenti. Quelli che riescono a tornare a casa sono segnati per sempre.
Foto 01 – Divisa di ufficiale del Regio Esercito Italiano (Museo “ Vite di IMI”, foto ANRP) |
Il viaggio verso i lager avviene in condizioni disumane. I treni utilizzati sono infatti carri bestiame, riempiti in maniera inverosimile, 40 e più uomini per vagone, senza acqua, senza cibo, senza recipienti per le necessità fisiologiche. I trasferimenti durano anche diversi giorni, con varie tappe e soste interminabili. Lo sconcerto della situazione che si vive durante il viaggio emerge dalle testimonianze: il buio dei vagoni, la mancanza di finestrini, il disagio, descrivono una situazione tra le più difficili che apre per i militari italiani la disavventura dell’internamento.
Diventare un numero
Il “campo” è uno spazio senza riferimenti, costituito da baracche spoglie, con un recinto di filo spinato che separa dall’esterno e sorvegliato da torrette di guardia. Appena arrivato nel lager, comincia per il prigioniero il processo di spersonalizzazione, il sistematico tentativo di fiaccare la sua personalità, per costringerlo a cedere alle profferte di un trattamento migliore in cambio della collaborazione con i tedeschi. Fotografato, schedato, privato del nome, diventa un numero che viene inciso sulla piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo e a cui ciascuno deve rispondere, ogni volta che viene fatto l’appello, una pratica che spesso si prolunga al freddo e in mezzo alla neve in più momenti della giornata. I loro dati anagrafici con l’impronta digitale vengono registrati capillarmente in schede in cui figurano anche altre informazioni: l’indirizzo della famiglia, la religione, l’attività da civile, lo stato di salute, le vaccinazioni effettuate. Durante la perquisizione personale e del bagaglio, i prigionieri vengono spogliati di tutto. Infine sono sottoposti al bagno e alla disinfestazione personale e degli abiti, prima di essere assegnati alle baracche (foto 02).
Foto 02 – Fotografia e registrazione dei prigionieri (foto Vittorio Vialli) |
Del tutto atipico è il loro status giuridico. Pur essendo prigionieri di guerra, vengono definiti IMI - Internati Militari Italiani, con provvedimento arbitrario di Hitler (20 settembre 1943), per eludere la Convenzione di Ginevra del 1929. Lo scopo, infatti, è quello di sfruttarli come forza lavoro per l’economia del Terzo Reich, cosa che non avrebbe potuto essere qualora fossero stati sottoposti alla tutela prevista per i prigionieri di guerra da parte della Croce Rossa Internazionale e delle potenze neutrali. Al fine di poter sfruttare anche gli ufficiali, inizialmente esclusi dall’obbligo di lavorare, sempre per un accordo tra il Führer e Mussolini (12 agosto 1944), gli IMI cambiano di status e vengono trasformati in “lavoratori civili” formalmente liberi, un éscamotage che tuttavia non riuscirà a far deflettere la maggior parte di loro dal rifiuto alla collaborazione.
La vita nel lager e il lavoro coatto
All’interno del lager i prigionieri conducono una vita durissima a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’abbrutimento fisico e morale derivante dalla reclusione. Così la sintetizza Michele Montagano: «Nei campi soldati e ufficiali dovettero sopportare la disciplina rigida e vessatoria, le sadiche punizioni, la fame terribile, il rigore del clima, la sporcizia, i parassiti, la mancanza di notizie da casa, la lenta distruzione della personalità per essere ridotti a semplici “Stücke”, “pezzi”, da usare per la vittoria finale di Hitler» (cfr. Montagano, ibidem).
In molti casi la sopravvivenza è legata all’arrivo dei pacchi alimentari da casa, al mercato nero e alla solidarietà dei compagni. Frequenti e cruente sono le perquisizioni, spesso in cerca di oggetti di qualche valore o delle radio clandestine. La radio clandestina più famosa, “Radio Caterina”, viene costruita nel 1944 a Sandbostel con materiali di fortuna.
Per la maggior parte dei soldati internati il campo (Stalag) è solo il luogo in cui si dorme. La mattina ci si alza per andare al lavoro e si torna solo a sera. Gli ufficiali invece rimangono nel campo (Oflag) per tutto il tempo, non vanno al lavoro, tranne in alcuni casi; quindi vivono il campo e la baracca come il luogo del tempo quotidiano (foto 03 - 04). Cercano di stringere relazioni sociali e mettono in atto, ove possibile, iniziative di tipo culturale e ricreativo che fioriscono grazie alla presenza di numerosi intellettuali ed artisti internati: conferenze, concerti, lezioni, discussioni e dibattiti politico–ideologici. Molti umoristi, scrittori e pittori cercano di sdrammatizzare il lager con l’ironia (cfr. Moresco A., 2000, Immagini- testimonianze dai campi di internamento, Edizioni ANRP) (foto 05). Un altro importante fattore aggregante è la provenienza regionale; si cerca contatto con i compagni provenienti dalle stesse zone di origine per condividere ricordi, piccole tradizioni ecc. l’estrazione sociale e culturale. Ma soprattutto è determinante la scelta condivisa del NO!
Molti internati, eludendo la sorveglianza, scrivono diari su materiale cartaceo di fortuna (foto 06). Difficili sono i rapporti epistolari con le famiglie. Le lettere sono sempre sottoposte a censura, per cui gli internati non vi esprimono mai le loro effettive condizioni.
Foto 03 – Vita nel campo (foto Vittorio Vialli) |
Foto 04– Il trasporto dei liquami (foto Vittorio Vialli) |
Foto 05 – A. Coppola, Tenuta invernale (foto scansionata dal volume Moresco A., 2000, Immagini- testimonianze dai campi di internamento, Edizioni ANRP) |
Foto 06 – Il diario manoscritto di Giorgio Fornalè (Museo “ Vite di IMI”, foto ANRP) |
La fede religiosa ha per molti un ruolo importante, grazie all’opera incessante dei circa 250 cappellani militari internati. È una strenua lotta per resistere alla sopraffazione fisica, psicologica e morale.
In una fase critica della guerra la Germania ha sempre più bisogno di forza lavoro. Una volta arrivati nei lager, i militari italiani vengono utilizzati come lavoratori coatti nelle fabbriche o per lavori necessari nei campi e in miniere. Non di rado gli IMI vengono impiegati nello sgombero delle macerie e nella sepoltura dei cadaveri dopo i bombardamenti. La loro vita è molto dura: sveglia prima dell’alba e, dopo l’appello, le colonne di prigionieri, scortati da qualche militare tedesco, sono costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi d’impiego; altrettanto percorso è quello a sera del ritorno. Molti dormono sul posto di lavoro. Questo vale principalmente per coloro che lavorano per le famiglie di agricoltori o comunque presso particolari industrie. Il lavoro nelle fabbriche arriva fino a 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, con piccolissime pause e poco cibo. La brodaglia che viene servita non permette agli uomini di tenersi in forze per lavorare. Spesso il trattamento è umiliante e comunque tale da mettere a dura prova il morale. Gli insulti risultano altrettanto insopportabili delle violenze fisiche. Nel corso degli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita dei lavoratori italiani peggiorano drammaticamente, come pure si moltiplicano gli atti di violenza nei loro confronti. Continua è la riduzione delle razioni alimentari. Viene autorizzato il passare per le armi gli autori, veri o presunti, di atti di sabotaggio, quelli sorpresi a rubare e anche coloro che tentano di fuggire (Sulle condizioni di lavoro e sulla vita negli stalag, cfr. Hammermann G., 2002, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, Ed. Il Mulino).
La liberazione e il ritorno in patria
A partire da febbraio del 1945, iniziano le avvisaglie del crollo ormai imminente della Germania: attacchi aerei, riduzione del personale di sorveglianza, distruzione da parte dei tedeschi di documenti. Quando i responsabili dei lager, le guardie e gli impiegati scompaiono dai campi e dalle fabbriche, gli ex IMI capiscono che la prigionia è terminata.
La liberazione avviene in momenti differenti, per lo più tra la fine di gennaio e i primi di maggio del 1945 in Polonia e Germania. È un momento di grande gioia, la fine delle sofferenze, la speranza del ritorno a casa. Ma il rimpatrio non è immediato e molti devono attendere il proprio turno, anche a lungo, tra l’estate e l’autunno 1945 nei territori dell’ex Terzo Reich. A gestire la difficile situazione sono nella maggior parte dei casi gli angloamericani. Il rientro dalla Germania è particolarmente caotico e presenta ritardi per ingolfamenti e scarse sollecitazioni delle nostre autorità. Il trasporto avviene su camion o via treno, lungo percorsi spesso tortuosi e accidentati (foto 07). Varcato il confine, gli IMI provenienti dalle regioni del Reich vengono solitamente dirottati verso Pescantina, nel veronese, dove è stato istituito un centro di smistamento e da cui si organizzano i trasporti verso le destinazioni interne al paese.
Foto 07 – Rimpatrio. Colonna di automezzi della CRI (Foto Vittorio Vialli) |
L’accoglienza al rientro in Patria non è tra le migliori e una sorta di diffidenza trapela nell’atteggiamento delle Istituzioni. Ciascun reduce è sottoposto dalla “Commissione interrogatrice dei militari nazionali, reduci dalla Germania e dagli altri territori oltre confine” a un questionario inquisitorio sui “Dati riflettenti la posizione personale”. Deludente è anche l’accoglienza da parte dei familiari: dopo l’iniziale gioia di rivedere il proprio congiunto, vivo nonostante il deperimento fisico e le problematiche psicologiche dovute alla drammatica esperienza vissuta, non sempre si ha voglia di ascoltare il racconto delle sofferenze, violenze e privazioni subite. In un’Italia proiettata a costruire il futuro, la gente non vuole più pensare al passato, ai dolori della guerra. Di fronte alla generale indifferenza, gli IMI rispondono con il silenzio, facendo scattare un vero e proprio meccanismo di rimozione, convinti quasi dell’inutilità del sacrificio loro e dei caduti.
Oblio e rimozione
Così racconta Antonio Sanseverino, reduce dallo Straflager di Colonia: «Quando tornammo dal lager non raccontammo, non comunicammo la nostra esperienza, e questo avvenne perché tutti, attraversata la bufera, avevano solo voglia di ricominciare, ritrovarsi ed identificarsi. L’ansia, l’emozione della nostra personale “ricostruzione” volle dire in primo luogo rimozione, cancellazione, “oblio”. Per andare avanti, anzi per cominciare una nuova vita in un paese nuovo, che noi dovevamo contribuire a costruire (…) avevamo bisogno di dimenticare il deserto freddo, la fame, le botte, le umiliazioni, il silenzioso dolore collettivo, individuale, assoluto, del lager» (cfr. E. Orlanducci, a cura di, 2005, Prigionieri senza tutela. Con occhi di figli racconti di padri internati – I 369 di Colonia, Ed. ANRP, p. 147- 148).
L'oblio è durato a lungo. Sono trascorsi anni e decenni perché qualcosa ricominciasse ad affiorare, tanto da divenire oggetto di interesse da parte della storiografia che se ne è occupata con rilevanti impostazioni di ricerca. “Traditi, disprezzati, dimenticati”, così lo studioso tedesco Gehrard Schreiber (Schreiber G., Roma 1997, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Traditi - disprezzati - dimenticati, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito) ebbe a definire gli IMI, riferendosi a quel lungo e buio periodo durante il quale i reduci dai lager si sono chiusi nel silenzio. Un silenzio interrotto solo molto tempo dopo, quando, decantate le scorie di un passato quanto mai doloroso e difficile, i nonni hanno cominciato a raccontare, sollecitati molto spesso i nipoti. Sempre la voce di Antonio Sanseverino: «Oggi raccontiamo, con una nuova ansia ed una nuova emozione, quelle di chi sa di non avere più molto tempo. (…) Di fronte a noi, ad ascoltarci, attenti e curiosi, ci sono i nostri “nipoti”, questa nuova generazione che indaga per conoscere e per capire ciò che fu la nostra vita alla loro età. (…) È il ricordo di un giovane che allora non poté essere tale, perché la giovinezza gli venne negata e strappata nell’esperienza crudele del lager, di un giovane che allora dovette crescere di colpo per forza di cose, perché il coraggio, la capacità, la volontà di dire NO, decine e decine di volte NO, poteva venire solo da una consapevolezza responsabile, una decisionalità adulta, capace di persistere, idealmente, politicamente ma anche fisicamente, in quel NO» (cfr. E. Orlanducci, a cura di, Prigionieri senza tutela, ibidem).
Il racconto dei figli
Da quando, a distanza di tempo, i sopravvissuti sono usciti dal loro silenzio ed hanno cominciato a raccontare, è cresciuto l’interesse da parte di studiosi e di storici; numerose pubblicazioni, dai semplici racconti ai saggi critici, si sono susseguite sull’argomento, per dare spazio alle testimonianze, alla ricerca della verità storica.
Nell’analisi di un percorso trasversale dalla memoria alla storia, importante è stata l’azione dell’ANRP che ha promosso iniziative e progetti ad ampio raggio atti a ricostruire la vicenda degli IMI, quanto mai complessa e articolata dal punto di vista storico e sociologico. Per analizzarne i molteplici aspetti è stato impostato un lavoro di ricerca su più fronti, attraverso strategie rigorosamente scientifiche, come la raccolta di interviste ai reduci e ai loro familiari, oppure dando spazio a pubblicazioni di saggi a commento di diari manoscritti o di memorie scritte a posteriori dagli stessi IMI.
La ricostruzione dell’identità degli IMI si è articolata su due direttive principali: da una parte sono state raccolte dirette testimonianze orali e scritte, attraverso le quali è scaturita soprattutto la fisionomia policroma, soggettiva ed emotiva di ciascun IMI, sia come individuo sia come facente parte di un gruppo; dall’altra è stata approfondita la ricerca su una ricca documentazione d’archivio che ha consentito di acquisire elementi certi, oggettivi su dati anagrafici e biografici che sono andati a integrare le testimonianze, consentendo agli studiosi di ricostruire un efficace spaccato di una vicenda umana per lungo tempo dimenticata. Ne è venuto fuori un sapere “diverso”, fondato sulla narrazione delle esperienze dei singoli, “mediate” dallo studioso che le categorizza tanto da darne una visione emblematica e oggettiva. Si tratta di un nuovo approccio con la storia, quindi, intesa non solo come l’insieme di grandi eventi, ma come la “costruzione dell’evento”attraverso la sua rielaborazione successiva da parte di coloro che l’hanno vissuto (foto 08).
Foto 08 – Con occhi di figli, racconti di padri internati (foto ANRP) |
I quattro volumi della serie “Prigionieri senza tutela. Con occhi di figli racconti di padri internati”, curata da Enzo Orlanducci, di cui abbiamo riportato brevi stralci, hanno analizzatola realtà familiare di ex internati del dopoguerra in alcuni ambiti specifici: il primo volume è stato dedicato ai 369 reduci dallo straflager di Colonia, mentre gli altri tre sono dedicati agli IMI del Molise, della Lombardia, delle città di Ferrara e Ravenna. La ricerca, pubblicata con prefazione di Anna Maria Isastia e Maria Immacolata Macioti, realizzata sulla base di documenti inediti, è un viaggio fra alcuni aspetti dell’epoca e costituisce un interessante contributo storiografico, rivisitato in modo aperto, libero e nuovo. Le storie degli internati militari italiani nei campi di lavoro nazisti sono viste con gli occhi dei loro figli e con uno sguardo attento agli effetti personali e familiari di una prigionia per molti aspetti difficile da comprendere e da elaborare. Scorrendo le pagine di questo studio, diventa possibile immaginare la sofferenza e soprattutto il disorientamento di quegli oltre 650mila soldati italiani che dopo l’armistizio del ’43 e il ribaltamento di prospettive della guerra, lasciati spesso senza direttive, decisero di mantenersi fedeli al proprio Paese e alle proprie convinzioni, anche e soprattutto nei confronti degli ex alleati, e pagarono questa scelta con una durissima prigionia, totalmente al di fuori delle tutele internazionali. Queste sono quindi le storie di molti militari di diversa e varia estrazione sociale e geografica, di una resistenza a oltranza che lascia intravedere la stanchezza e il desiderio di pace di un popolo duramente provato, ma non per questo vinto o privato della sua identità. Storie da far conoscere ai più giovani, per il loro alto valore educativo. Storie umane, nonostante il contesto disumano nel quale vennero consumate. Gli accenti sono toccanti, proprio perché scevri di quella retorica che a volte inquina la commemorazione dei fatti del passato. Attraverso i “frammenti” delle voci dei reduci si può ricostruire sia l’atteggiamento tedesco verso gli internati italiani, in particolare le direttive per il loro sfruttamento come forza lavoro nell’industria bellica, sia le condizioni materiali di vita e di lavoro che ne segnarono la dolorosissima prigionia, fino al rientro in patria, alla fine della guerra. Le interviste a un campione diversificato di familiari di ex internati, registrate e riportate fedelmente dalle dott.sse Francesca Covarelli e Fabiola Iadanza, hanno dato un efficace contributo per far rivivere, attraverso il ricordo, la figura del padre e il retaggio della drammatica esperienza vissuta nell’internamento.
«Un’esperienza che segna profondamente la vita di un genitore non può non influenzare i suoi rapporti familiari, condizionare l’educazione dei giovani, sia che egli espliciti i termini della sua vicenda biografica, sia che li taccia. Grazie alle interviste, emotivamente molto coinvolgenti, è possibile seguire i meccanismi della rimozione personale, dell’assenza della trasmissione del ricordo di prigionia e poi, di fronte al tempo che corre, il progressivo aprirsi al ricordo e alla memoria per i figli o addirittura per i nipoti» (cfr. prefazione di Anna Maria Isastia in “Prigionieri senza tutela. I 369 di Colonia”, p.8).
Le interviste ai reduci
Per quanto riguarda invece le dirette testimonianze dei reduci, particolarmente significativi sono stati i risultati emersi da due ricerche promosse dall’ANRP e cofinanziate nell’ambito del progetto EACEA. La prima è stata condotta da un gruppo di lavoro che ha operato in Sicilia, dove sono state realizzate 50 audiointerviste a ex IMI siciliani. I risultati sono stati pubblicati nel volume curato da B. Bechelloni (Deportati e internati. Racconti biografici di siciliani nei campi nazisti)corredato di un audiodocumentario dal titolo “Stücke-Pezzi”, realizzato da Andrea Giuseppini e Roman Herzog.La seconda è stata condotta due anni dopo in Lombardia, Veneto, Abruzzo e Molise e si è conclusa con la produzione di 50 videointerviste a reduci dall’internamento, i cui risultati sono pubblicati nel volume curato da E. Gardini (Deportati e internati. Racconti biografici di abruzzesi, molisani, lombardi e veneti nei campi nazisti) corredato di un video documentario di Thomas Radigk. Entrambe le ricerche sono consultabili sul sito www.imiedeportati.eu. Le testimonianze registrate “a posteriori”, emerse dopo lunghi anni di silenzio, non per questo sono meno efficaci, in quanto danno una visione abbastanza puntuale su come ogni intervistato ha vissuto da singolo e insieme agli altri i vari momenti di un’esperienza dolorosa, difficile, umiliante, che ha segnato tutti nel corpo e nell’anima. È stata così finalmente riconosciuta l’importanza della raccolta e conservazione della memoria storica dei protagonisti diretti e dell’analisi del ruolo individuale e collettivo dell’elaborazione di queste tragiche e traumatiche esperienze. Il progetto di intervistare e archiviare testimonianze orali dirette, promosso dall’ANRP, costituisce una ricerca a carattere territoriale che mancava e che ha volutamente accostato storie tra loro diverse che confermano le diversità ma anche le somiglianze presenti in quel “mondo fuori dal mondo” nel quale l’esperienza della deportazione e quella dell’internamento si avvicinano o, in molti casi, si sovrappongono. Denominatore comune è costituito dalla descrizione di alcuni fattori esperienziali: le difficoltà di tipo logistico e fisico, il viaggio in carro bestiame, l’arrivo e la sistemazione nel campo; i disagi per la fame; le idee di tipo politico ed etico; la voglia di cultura per non “morire dentro”.
Il prezioso lavoro di scavo e di approfondimento, reso possibile dall’impulso e dal sostegno dell’ANRP, ha indotto ad aprire nuove piste e approcci analitici, ripensando ad alcuni nodi teorici del rapporto tra storia e sociologia.
I diari di prigionia
Tra le “rappresentazioni della memoria”raccolte dall’ANRP, interessanti spunti di riflessione sono offerti da una notevole moltitudine di scritti ai quali dei semplici, sconosciuti individui, in situazioni difficili, a volte estreme, hanno affidato la memoria del proprio vissuto: i fatti, le esperienze, i contatti interpersonali, i sentimenti e le emozioni, la quotidianità delle piccole cose. Si tratta di diari, memoriali, lettere, poesie in cui, con diverse motivazioni e con diverse modalità, ciascuno ha voluto “fermare” nella parola scritta la propria testimonianza. Per lo più sono scritti inediti, a volte proprio i manoscritti, inviati all’ANRP o direttamente dagli autori, tutti ormai più che ottuagenari, oppure scoperti solo dopo tanto tempo dai figli, dai nipoti, ritrovati per caso, scritti a mano su quaderni o foglietti di fortuna. Memorie individuali che acquistano per i familiari una loro preziosità affettiva, ma che per gli studiosi di storia contemporanea hanno valore aggiunto perché costituiscono quei piccoli tasselli che, messi insieme, ricompongono il grande mosaico della Storia. Una Storia scritta “dal basso”, che acquisisce dignità di documento e pertanto attendibilità, nel momento in cui, sostenendo il confronto con altre memorie individuali, manifesta con quest’ultime quei denominatori comuni, oggettivi, che la rendono partecipe del patrimonio collettivo. «È interessante l’esperienza del racconto biografico o della scrittura autobiografica per far conoscere e mettere in comune le esperienze, spesso simili ma vissute ed elaborate diversamente, che costruiscono una rete di elementi utili a comprendere il senso individuale e collettivo che le stesse esperienze rappresentano nel processo di elaborazione delle identità individuali e collettive e più in generale nel mondo sociale» (cfr. B.Bechelloni, 2007, Memoria, identità e scrittura autobiografica, in Secondo coscienza. Il diario di Giacomo Brisca 1943-1944, Mediascape- Edizioni ANRP, p.30).
Innanzitutto occorre distinguere, come valore dal punto di vista documentaristico, tra racconto in “tempo reale”, (come il diario, la lettera, la poesia), e il memoriale scritto “a posteriori”. Più attendibile è il diario, perché registra una memoria immediata, rispetto al memoriale, racconto in cui la realtà può essere rivisitata con interventi e aggiustamenti successivi, più o meno consapevoli, ma pur sempre alterativi.
Nel momento in cui il ricordo riaffiora nella memoria, questo viene attualizzato e ricontestualizzato alla luce del presente e di tutte le informazioni che nel tempo si sono acquisite. Inoltre i ricordi non riemergono in modo organico seguendo l’effettivo andamento temporale, ma si dilatano e restringono temporalmente susseguendosi in modo irregolare. È importante quindi distinguere il tempo della narrazione dal tempo cosiddetto biografico, cioè quello scandito dalla regolarità delle azioni quotidiane che può essere intrecciato con il tempo della storia. Perché la biografia di un singolo individuo possa acquisire significato e senso socialmente rilevante è necessario che venga contestualizzata in una sfera sociale d’azione ovvero in uno spazio e un tempo collettivo di appartenenza. Un discorso diverso è quello del diario. «Ogni diario, ha in sé, nella sua essenza di contenitore di pensieri a carattere autobiografico, un suo limite, essendo il racconto di un’esperienza individuale, ma la schiettezza della trascrizione immediata di informazioni o avvenimenti affiora priva di strumentalizzazioni o mediazioni ed è, proprio per questo, più efficace anche dal punto di vista storico. L’autobiografia, infatti, può diventare Storia se gli eventi personali dell’esistenza sono inseriti, attraverso la pratica diaristica, in un contesto sociale e in una condizione relazionale. Ed ecco allora che il diario di un ex internato, scritto nel periodo della prigionia, dimenticato per lungo tempo e forse mai più letto dall’Autore, in questo eterno movimento sé/altro, dentro/fuori, esce dal suo solipsismo e diventa strumento didattico attraverso cui far avanzare la ricerca, promuovendone lo sviluppo e socializzandone i contenuti. Leggere un diario è una straordinaria avventura di conoscenza. Una conoscenza tanto più approfondita se l’approccio avviene attraverso il manoscritto. Nel meccanismo della comunicazione il messaggio verbale, sia orale che scritto, viaggia tra l’emittente e il ricevente secondo un codice che va interpretato e decodificato. Nel caso del diario, il rapporto fra chi scrive e chi legge è quanto mai diretto, tocca le corde dell’inconscio. Chi scrive il diario lo fa generalmente di getto, con immediatezza, quasi con l’urgenza di fermare la memoria del proprio vissuto. Colui che legge percepisce il flusso del pensiero da cui sono scaturite le parole, le frasi, le annotazioni; instaura pertanto con il narratore una sorta di feeling, di compartecipazione agli eventi raccontati, alle riflessioni formulate, alle emozioni descritte. (…) Una lettura attenta consente di cogliere qualsiasi sfumatura, di leggere tra le righe; è trascinante e coinvolgente. Se poi tutto questo avviene attraverso la lettura del manoscritto, il coinvolgimento è ancora più forte, perché il linguaggio verbale si arricchisce di altri messaggi più o meno espliciti: la grafia, l’impaginazione, la fruizione dello spazio del foglio, le righe, le cancellature, le pause, gli appunti a lato pagina ecc. Anche queste cose parlano, raccontano» (cfr. R. Zucco, 2010, Il manoscritto, la trascrizione, la lettura, in Volontario di coscienza. Il diario di Giuseppe Lidio Lalli 1944-1945, Mediascape- Edizioni ANRP, pp.70-71).
Ma che cos’è che ha spinto persone così diverse ad affidare alla parola scritta il racconto proprio vissuto? «Lo stile, generalmente, non è proprio di chi ha una certa “facilità di penna” e un abituale, assiduo rapporto con l’espressione scritta. Quelle annotazioni a volte scarne, a volte minuziose di piccoli particolari del vissuto, sembrano più che altro dettati dal bisogno di fermare, nella parola scritta, tanti piccoli frame di quella che ha tutta l’aria di essere e di diventare un’esperienza straordinaria, intesa come fuori dall’immaginabile e comunque fortemente significativa nella vita di qualsiasi individuo. Ma probabilmente la motivazione è anche un’altra. La pratica del diario è innanzitutto conoscenza di sé. Conoscersi attraverso la pratica diaristica è un “esercizio di scrittura” che può risultare apparentemente scontato e senza finalità speculative; eppure esso può assumere una forza significativa, essendo una sorta di alter ego con cui confrontarci e da cui attingere forza. Enrico Zampetti, altro ex internato, nonché studioso della diaristica dell’internamento, definisce la “spirale del diario” quel duplice processo (il più delle volte inconsapevole) per cui alla riflessione al termine della giornata segue la tensione che apre la via per l’azione quotidiana, quel continuo rinnovamento che è il processo stesso dell’esistenza, intesa in tutta la sua concretezza (E. Zampetti, 1990, La spirale del diario, GUISco). A fine giornata, in colui che scrive, soprattutto un pensiero è ricorrente: rinnovare, giorno per giorno, il proprio impegno di resistere ai nazisti, escogitando nel contempo forme sempre nuove per cercare di sopravvivere, insieme ad altri compagni di internamento, ad un’esperienza alienante fisicamente e psicologicamente» (cfr. Zucco R., ibidem).
Altre pubblicazioni dell’ANRP su storie di internati
Numerosi saggi sono stati pubblicati nel corso degli anni dall’Associazione, riguardanti storie particolarmente significative di internati. Ricordiamo tra questi il volume di A.M. D’Amelio “Paolo Orsini: dipingere per sopravvivere. Immagini dai campi di prigionia (1943-1945)”, con un interessante saggio introduttivo di Luciano Zani sui pittori dei lager e in particolare su “quei fantasmi”, dipinti dal pittore toscano (foto 09). «Io mi salvai dipingendo, la pittura mi aiutò a ritrovare me stesso, a non dimenticarmi». Così Paolo Orsini (1910-1974) ricorda quale fu la sua resistenza, come quella di molti altri artisti, durante i quasi due anni di prigionia nei lager della Germania e della Polonia. Le figure ritratte nei suoi acquerelli si muovono in un’atmosfera lugubre, caratterizzata dall’essenzialità del tratto e da una limitata gamma cromatica; “anime lunghe” dalle forme sempre più evanescenti, senza volto, o con i lineamenti appena accennati, che riflettono l’annullamento interiore, l’umiliante condizione psicologica di chi è stato ormai privato della propria identità.
Foto 09 – P.Orsini, Anime lunghe (foto ANRP) |
Tra i memoriali pubblicati dell’ANRP, di notevole interesse è quello dell’ufficiale italiano Paolo Desana, leader della resistenza dei 369 giovani ufficiali italiani, internati e inviati al lavoro coatto in una fabbrica-lager di Colonia. Il volume è corredato dalla discussione sul testo di Desana, sviluppata in un convegno pluridisciplinare che si è svolto nella Biblioteca del Senato della Repubblica il 20 gennaio 2016, aperta da un messaggio di grande rilievo del Presidente del Senato Pietro Grasso (cfr. L. Zani, a cura di, 2016, Paolo Desana. Il “NO!” al lavoro li ha resi liberi. Il caso dei 360 Internati Militari Italiani a Colonia, Mediascape – Edizioni ANRP).
Nel 2013 è stata pubblicata la nuova edizione del volume curato da Antonio Vincelli, Testimonianze di tre deportati molisani nei campi di sterminio nazisti, che riporta le testimonianze di tre molisani deportati nei campi di sterminio nazisti: Nicolangelo Ciamarra, Gino Di Domenico e Michele Montagano. Quella dei tre reduci molisani è un’attenta ricostruzione di documentazioni, dirette e indirette, precise e molto crude nella loro oggettività; sempre offerte con umiltà, non senza qualche reticenza, con tanta riservatezza.
L’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-1945, il LeBI e il Museo “Vite di IMI”
La “storia delle esperienze”, fin qui oggetto del nostro lavoro, è stata avvalorata come linea metodologica anche dalla Commissione di storici italo tedesca, istituita nel 2008 dai Governi di Italia e Germania per perseguire tra i due Paesi una comune politica della memoria, nell’intento di ricostruire un quadro quanto più dettagliato possibile di quel periodo complesso e controverso che ha visto tante vittime dell’aberrante politica nazifascista. I dieci storici italiani e tedeschi nel Rapporto conclusivo hanno cercato di dimostrare, attraverso il reperimento di documentazione bilaterale, la possibilità di tracciare un lineare e articolato racconto dei fatti storici, un efficace percorso cronologico-tematico degli accadimenti e dei loro protagonisti.
A partire dai suggerimenti della Commissione di storici, si è intensificato l’impegno dell’ANRP per far conoscere la storia degli IMI. Importanti e corposi progetti sono stati messi in campo, cofinanziati dal Fondo italo tedesco per il futuro, per avviare una capillare ricerca d’archivio in Italia e all’estero, soprattutto in Germania, per raccogliere dati anagrafici e biografici di ciascun IMI da inserire in due data base, l’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-1945 (www.alboimicaduti.eu) in cui sono registrati in ordine sistematico elementi anagrafici e biografici dei militari italiani deceduti dopo la cattura nei lager del Terzo Reich tra il 1943 e il 1945 (circa 52.000 schede convalidate), completata nel LeBI - Lessico Biografico degli IMI (www.lessicobiograficoimi.eu), con i dati del maggior numero possibile degli oltre 600mila internati rientrati (a giugno 2018 risultano registrate le schede di 268.337 nominativi di IMI) (foto 10).
Foto 10 – Home page dell’ “Albo degli IMI Caduti 1943-1945 (foto ANRP) |
Per la realizzazione dei due data base on-line, complementari tra loro, è stato impostato un lavoro sui documenti d’archivio, iniziato nel 2013, in modo particolare presso la Deutsche Dienststelle (WASt) di Berlino (oltre 90.000 documenti esaminati) e l’Archivio del Ministero dell’Economia e Finanze a Roma (circa 600.000 documenti visionati a giugno 2018) che ha visto il coinvolgimento di una decina di ricercatori e di una ventina di operatori. Molto interessanti, per la miriade di informazioni ivi contenute, sono le schede della WASt, cui abbiamo accennato nel paragrafo 4 del presente lavoro. Altrettanto interessante è la documentazione contenuta nei fascicoli del MEF, riguardanti le pratiche esaminate nel 1966 dalla Commissione per gli indennizzi a cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialista: i deportati civili, politici e razziali, e gli internati militari. All’interno di ciascun fascicolo, è contenuta la documentazione, più o meno ricca, prevista per avviare l’iter della pratica. Particolarmente interessante, oltre al foglio matricolare, la domanda così come formulata dall’intestatario della richiesta (o da familiari nel caso dei deceduti). La maggior parte delle domande sono scritte a mano ed è molto vario il modo in cui l’esperienza dell’internamento viene descritta dal diretto interessato. Tali testimonianze sono quanto mai significative, non solo per i dati anagrafici e biografici utili per il data base, ma anche come spaccato sociologico di un’esperienza individuale e collettiva quale è stata quella dell’internamento.
Altro corposo progetto dell’ANRP dedicato agli IMI è il Museo storico didattico“Vite di IMI. Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945” che ha potuto essere realizzatonel momento in cui il Ministero della Difesa, nell’aprile del 2014, ha assegnato all’Associazione i locali facenti parte del Comprensorio militare di Via Labicana 15, a Roma. Detti locali, di cui l’ANRP ha provveduto al recupero e alla bonifica con lavori di restauro e messa a norma, sono incorporati nell’ambito di una vasta area monumentale di pertinenza militare, già caserma dopo l’unità d’Italia, adattata su una precedente costruzione risalente ai primi decenni del XVIII secolo. Interessante dal punto di vista di un percorso storico didattico la vicinanza (circa 200 mt.) di detto Museo con il Museo della Liberazione di Via Tasso.
Inaugurato il 5 febbraio 2015, con l’Adesione del Presidente della Repubblica, lo spazio espositivo, il cui ingresso è gratuito, è stato concepito per delineare attraverso un originale allestimento la vicenda degli IMI, una puntuale rielaborazione di percorsi collettivi e individuali, un significativo e attendibile “spaccato” in cui oggetti, immagini e documenti aiutano a ricostruire la loro storia (foto 11 - 12 - 13).
Foto 11 – Il violino di Luigi Manoni (Museo “ Vite di IMI”, foto ANRP) |
Foto 12 – La sala 3 del Museo “Vite di IMI” (foto ANRP) |
Foto 13 – Gavetta esposta al Museo “Vite di IMI” (foto ANRP) |
La prima esposizione, rispondente inizialmente alla funzione di Mostra temporanea, era costituita principalmente da reperti originali provenienti a livello nazionale dalle sedi periferiche dell’ANRP o da associati, accuratamente selezionati. Il tutto supportato da documentazione italiana e tedesca (anche quella di propaganda), da fonti audiovisive, epistolari e memorialistiche. Dal momento in cui è stata idealmente concepita, fino alla sua realizzazione e alla fruizione da parte di un crescente pubblico di visitatori, la Mostra ha subito “in itinere” una naturale evoluzione con necessari ampliamenti per rispondere alle esigenze di natura didattica. L’ampio consenso di pubblico, il riscontro emozionale dei visitatori e soprattutto delle scolaresche, ci hanno rassicurato sull’efficacia delle scelte operate, ma ci hanno nel contempo indotto a compiere un ulteriore passo avanti e ad integrare il materiale già presente nella mostra presentandolo anche attraverso quei supporti multimediali interattivi che l’avrebbero resa più accattivante e fruibile e, nel contempo, più ricca di approfondimenti. L’8 maggio 2018 è stato inaugurato il Museo Vite di Imi, alla presenza dell’ambasciatore della Repubblica Federale di Germania in Italia, Susanne Marianne Wasum Reiner. Grazie al nuovo allestimento multimediale, i visitatori hanno la possibilità di “controllare” il flusso di informazioni in maniera personalizzata, di “aprire” gli oggetti per conoscerne la storia, di sfogliare album fotografici, di riprodurre video, e di leggere molteplici contenuti digitalizzati. Oltre a un ricco repertorio fotografico e filmico, è consultabile su dispositivi touch screen materiale manoscritto digitalizzato, tra cui diari, lettere e cartoline scritti durante la permanenza nel lager, documentazione d’archivio ecc. Alla fine del percorso museale è presente una postazione PC, attraverso cui è possibile consultare sul web l’Albo degli Imi caduti nei lager nazisti 1943-1945.
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Orlanducci E., a cura di, 2005, Prigionieri senza tutela. Con occhi di figli racconti di padri internati – IMI di Ferrara e Ravenna, Edizioni ANRP.
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Siti Web
www.alboimicaduti.eu
www.anrp.it
www.imiedeportati.eu
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