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  • Psychanalyse et laïcité
    Ivan Ottolini (sous la direction de)

    M@gm@ vol.13 n.3 Septembre-Décembre 2015





    IL DESIDERIO DELL’ANALISTA E LA TRASMISSIONE DELLA PSICANALISI

    Finizia Scivittaro

    finizia.scivittaro@gmail.com
    Laureata presso l'Università degli Studi di Padova. Dal 2000 è consulente del Consultorio familiare del CIF (Centro Italiano Femminile) di Padova. Dal 2011 inizia a formarsi come psicoterapeuta transculturale presso la Fondazione Cecchini Pace di Milano, Istituto transculturale per la salute.

    Riflettere sul tema del desiderio dello psicanalista comporta inevitabilmente volgere il pensiero in direzione della componente essenziale e imprescindibile dell’esperienza psicanalitica. Se partiamo dall’assunto di base che non ci può essere l’analisi senza il desiderio dell’analista, assumiamo che la causa prima affinché possa iniziare un’analisi è che ci sia il desiderio di un’analista e che questo desiderio si manifesti e si esprima come desiderio psicanalitico. Il desiderio dell’analista non solo permette che una psicanalisi possa iniziare, ma apre alla possibilità che essa possa proseguire, infatti senza il desiderio dell’analista un’analisi non può procedere. Anche per portare al termine un’analisi è necessario che ci sia sempre il desiderio dell’analista.

    Queste affermazioni possono apparire, di primo acchito, scontate o ridondanti. È bene, però, avere presente che iniziare un’analisi, proseguirla e portarla a termine, se da un punto di vista logico può costituire un unico processo - infatti, anche per questo Lacan diceva che una domanda d’analisi è già una guarigione -, da un punto di vista pratico rappresenta l’articolazione di momenti distinti e diversi tra loro. La trasmissione stessa della psicanalisi, nelle sue varie articolazioni che possono spaziare dall’esperienza clinica, dalla sua teoria alle sue possibili applicazioni nel sociale, richiede che ci sia un preciso desiderio che la garantisca.

    Di che desiderio si tratta quando parliamo del desiderio dello psicanalista?

    Sicuramente è un desiderio che prima di Freud [1] non si era mai manifestato, almeno in questi termini. Freud l’ha espresso con una forza e un orientamento tali da inventare, istituire e trasmettere la psicanalisi nell’esperienza, nella pratica e nel corpus teorico, determinando una rivoluzione radicale nei vari campi del sapere che non hanno riguardato solo la dimensione della clinica psicopatologica. Lacan [2] ha rivelato la portata di questo desiderio come fondamento della cura psicanalitica stessa, individuando come esso rappresenti, all’inizio dell’analisi, il cardine perché il transfert possa strutturarsi, e alla fine dell’analisi, l’apertura necessaria perché l’analizzante compia il suo atto, unico e irripetibile senza dubbio, che gli permetta di assumere una nuova posizione rispetto al sapere inconscio e al suo desiderio.

    La dimensione del desiderio - a partire dalla sua genesi nel soggetto fino alle sue molteplici articolazioni - è stata ampiamente scandita dalla teoria psicanalitica. Il desiderio costituisce l’esperienza più centrale, fondante ed essenziale, per ciascuno di noi, da quando nasciamo fino al momento della nostra morte. Il soggetto si costituisce come soggetto desiderante già dalle prime esperienze della sua condizione di infans. Egli chiede all’Altro materno la soddisfazione dei propri bisogni che possono poi articolarsi in un’unica e fondamentale domanda: la domanda d’amore, il desiderio dell’Altro, - come si esprime Lacan -. È il desiderio dell’Altro che dà al bambino la possibilità di essere riconosciuto come unico, irripetibile e insostituibile. Il bambino desidera il desiderio dell’Altro come qualcosa di essenziale proprio perché potrebbe non essere desiderato e in tale misconoscimento si perderebbe nella sua mancanza ad essere. Tale mancanza, infatti, è proprio la distanza che separa il soggetto, a causa del linguaggio, da un oggetto perduto, l’oggetto a causa del desiderio e supporto del fantasma del soggetto. Ecco che le prime esperienze libidiche infantili vengono a rappresentare miticamente, nella sua economia pulsionale, il pieno soddisfacimento. È proprio la perdita di questa prima mitica esperienza che genera nel soggetto la mancanza ad essere che lo costituisce. Il soggetto diviene, da questo momento mitico, desiderante e proteso alla ricerca continua del suo oggetto perduto, l’oggetto piccolo a. Da questo momento il suo desiderio diverrà quella spinta indistruttibile, come ci ricorda Freud nell’interpretazione dei sogni, verso la ricerca di qualcosa di essenziale e di imprescindibile per il soggetto.

    Anche l’etimologia del termine desiderare esprime chiaramente questa mancanza come: “condizione in cui sono assenti le stelle”. E senza le stelle, col cielo coperto dalle nuvole, gli antichi aruspici non erano in grado di compiere le loro funzioni divinatorie e profetiche.

    Già l’etimologia del termine ci induce a considerare che l’esperienza del desiderio non può essere intesa, in modo riduttivo, semplicemente come un vuoto ed è inutile rincorrere un qualcosa che abbiamo perso e che non c’è più. Ci induce, quindi, a guardare al di là del proprio fantasma. L’esperienza del desiderio ci costituisce nella verità del nostro esistere. È una dimensione che ci trascende e di cui non possiamo farne a meno proprio perché contiene qualcosa che sfugge non solo alla nostra volontà di controllo - l’io non può esserne mai il detentore - ma anche alla possibilità di poterla esprimere e dirla pienamente. C’è un indicibile in gioco che ne custodisce incessantemente il suo valore iniziatico. Il valore iniziatico dell’esperienza del desiderio rappresenta uno dei suoi aspetti fondanti.

    Per comprendere in modo più approfondito la natura del desiderio dall’analista è necessario cogliere la dimensione del desiderio svincolata dalle sue significazioni fantasmatiche. A questo proposito Perrella [3] parla dell’esistenza di due tipi di desiderio che non necessariamente debbano essere assolutamente agli antipodi l’uno rispetto all’altro: il desiderio patologico e il desiderio etico.

    Quando un analizzante chiede di iniziare un’analisi non conosce quale sia la verità nascosta nel suo sintomo e ritiene che l’analista, invece, abbia questo sapere. Per questo l’analizzante attribuisce all’analista il sapere della propria verità. Questo comporta che, spesso, nelle rappresentazioni più o meno inconsce del nevrotico, l’altro appaia come un soggetto degno di considerazione a cui manca, però, qualcosa quanto alla sua verità. Il nevrotico, infatti, pensa d’incarnare la verità dell’altro.

    Nella situazione analitica il nevrotico non si accorge di mettere la propria verità al posto di quella di colui al quale parla, l’analista. Se egli ne fosse consapevole non inizierebbe un’analisi, e l’analista, se glielo rivelasse sin dall’inizio, non svolgerebbe la sua funzione di analista. Per questo l’analista vela all’analizzante tutto ciò che di personale e di soggettivo lo riguarda. Lacan parlava dello psicanalista come di un soggetto senza io, quando doveva svolgere la sua funzione di analista diversamente dalla sua vita quotidiana e personale. La sua presenza, dunque, nel setting analitico, è quella di una soggettività pura dove gli aspetti patologici vengono lasciati in sospeso.

    Naturalmente è chiaro che l’analizzante s’inganna riguardo alla sua posizione transferale che lo porta a credere che l’analista ne sappia della verità che lo riguarda, infatti, l’analista non solo non la conosce ma addirittura non vuole saperla. Se la facesse propria questo lo asservirebbe all’analizzante con tutte le conseguenze che questo comporta. All’inizio di un’analisi, l’analista è - nella supposizione inconscia dell’analizzante - colui che ama l’analizzante, è lui l’amante e l’analizzante è l’amato. Freud a questo proposito parla di resistenza che si produce in analisi attraverso la ripetizione e la rimessa in atto di una situazione edipica infantile. Alla radice dell’amore da transfert troviamo l’illusione che sapere e verità appartengano allo stesso registro e il corso dell’analisi dovrebbe mostrare questo errore logico. Il fatto che il nevrotico creda che all’altro manchi esattamente ciò che lui gli può dare, dipende dal fatto che è imbrigliato nel fantasma attraverso una coazione a ripetere. Questa certezza svolge una funzione che è quella di poter pensare di potersi garantire la verità di un amore di cui non si è sentito mai abbastanza appagato soprattutto nelle proprie esperienze di relazione primarie. Di fatto questo lo porta a non riconoscere l’altro nella sua alterità e differenza e soprattutto nel poter credere illusoriamente di poter avere un dominio sulla propria verità, laddove il lavoro dell’analisi dovrà mostrare esattamente il contrario, in quanto è la verità che può esercitare la sua sovranità sul soggetto.

    Si vede chiaramente come il soggetto, determinato dalle significazioni, dal fantasma e dalla propria storia, non può che esprimere il proprio desiderio in termini patologici. Il desiderio patologico è sempre il desiderio di catturare qualcosa, è strutturato fantasmaticamente, cioè dal rapporto fra il soggetto e un oggetto. Il desiderio di qualcosa non è nulla se non è sostenuto dal fantasma.

    L’ossessivo rinvia per non incontrare la morte, l’isterica si precipita a ripetere un’esperienza traumatica. L’analizzante vive nell’illusione che l’analista possa appagare i suoi desideri. Il desiderio patologico è in definitiva sessuale. Ammettere che il proprio desiderio è inappagabile è una sorta di morte soggettiva e di cancellazione da cui l’analizzante dovrà uscire per concludere effettivamente la propria analisi, privandosi delle facilitazioni che essa consentiva. Alla base dei desideri umani c’è l’eterno problema delle illusioni.

    Il desiderio etico, invece, comporta che il soggetto riesca a recuperare una relazione di giustezza rispetto al proprio desiderio. È il desiderio nella sua verità che supera trascendentalmente la volontà di possesso. È nel desiderio etico che il soggetto può agire compiendo degli atti che possano sortire effetti di verità.

    Ogni atto ha un effetto di messa tra parentesi della soggettività. Compiendo l’atto, il soggetto può agire liberamente senza essere determinato dal fantasma. Un atto implica un rapporto di sfida nei confronti della legge, non tutto ciò che si fa è un atto, dice Lacan, lo è solo ciò che si fa correndo il rischio d’affermare un principio differente da quanto prevede una legge comunemente accettata. Nell’atto psicanalitico c’è una presa di posizione etica che comporta un rischio, il rischio di potersi assumere a propria volta la posizione di psicanalista nei confronti di qualcun altro che chiede di essere aiutato a trovare la chiave della sua verità. Il soggetto dell’atto, cioè quel punto di soggettività etica e non patologica che si manifesta alla fine di un’analisi non può che essere già presente dall’inizio dell’analisi nonostante il sintomo e il transfert. In altri termini l’intera analisi è il percorso necessario a mettere in evidenza questo punto di emergenza soggettiva che dobbiamo supporre operante fin dall’inizio.

    La domanda d’analisi non può essere motivata soltanto dal desiderio patologico e dal transfert ma lo è anche dal desiderio etico del quale il desiderio dell’analista è soltanto una sua espressione.

    A questo punto non possiamo che considerare il desiderio dell’analista come una forma particolare del desiderio etico. L’analista è un soggetto che non desidera nulla dall’analizzante, se non che faccia la sua analisi. Attende l’ora giusta e opportuna per agire prima che lo faccia l’altro, interviene e agisce finché non è costretto a farlo, finché la sua azione non può acquistare il carattere paradossale di non essere sua. Attende il momento opportuno, opportuno per l’altro. È pronto a divenire lo strumento e non l’autore del momento giusto per intervenire e agire nel setting analitico. Attende che arrivi l’ora, l’ora della verità. Non vuole niente per sé, quello che vuole, lo vuole per la verità. Questo potrebbe significare che c’è dell’amore nello psicanalista, certo non per il sintomo dell’analizzante, ma per la sua verità, a condizione che egli se la assuma. Proprio di questa lo psicanalista pur amandola non vuol sapere nulla, se la facesse propria impedirebbe, infatti, al soggetto di raggiungerla con le proprie forze. Senza il desiderio dell’analista un’analisi non può procedere. la psicanalisi è solo un’esperienza che serve per continuare se stessa.

    La clinica psicanalitica sorge in uno spazio di finzione, infatti, l’analizzante chiede di essere aiutato a trovare il modo di accedere alla sua verità senza però che questa debba essere svelata. La sua domanda perciò chiama in causa una posizione essenziale dell’analista la quale può essere raggiunta solo a patto che l’analista abbia compiuto una vera e propria formazione personale che lo renda consapevole del passaggio logico e assolutamente individuale tra la posizione dell’analizzante e quella dell’analista.

    Per questa ragione la formazione degli analisti, con tutti i risvolti giuridici e legali che essa comporta, è un tema estremamente attuale e imprescindibile, affinché ci sia ancora la possibilità, nel nostro tempo, che qualcosa dell’ordine del desiderio etico, nella declinazione contingente del desiderio dell’analista, possa ancora trasmettersi.

    Note

    [1] S.Freud, L’interpretazione dei sogni, Ed. Bollati Boringhieri, 1993, Torino.

    [2] J.Lacan, Libro VII. L’etica della psicanalisi, Einaudi, 2008, Torino.

    [3] E.Perrella, La formazione degli analisti, Ed. Aracne, 2015, Ariccia.

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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