• Home
  • Revue M@gm@
  • Cahiers M@gm@
  • Portail Analyse Qualitative
  • Forum Analyse Qualitative
  • Advertising
  • Accès Réservé


  • Psychanalyse et laïcité
    Ivan Ottolini (sous la direction de)

    M@gm@ vol.13 n.3 Septembre-Décembre 2015





    LIBERA PROFESSIONE E LAICITÀ DELLA PSICANALISI

    Davide Natta

    natta.davide@gmail.com
    Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Genova. Dal 1995 è socio dell'Accademia per la Formazione di Padova. Dal 2001 lavora in ambito educativo e della formazione con adolescenti italiani e stranieri. Dal 2008 lavora nel campo della cura e della riabilitazione delle tossico-dipendenze e delle problematiche alcol correlate. Dal 2010 è Direttore del Consultorio Familiare del CIF di Padova.

    La psicanalisi,nella sua accezione tradizionale, è una pratica formativa. Lo scopo principale dell’analisi è di produrre un analista. La dimensione terapeutica è solo un’applicazione possibile, nemmeno l’unica, della psicanalisi. La maggior parte degli psicanalisti sembra abbia dimenticato questa scomoda verità, non sottolineando, con sufficiente decisione, l’estraneità della psicanalisi dalla legge che regolamenta le psicoterapie in Italia. La psicanalisi ha perso così, nel tempo, la sua carica critica e la sua forza emancipatrice della soggettività, finendo relegata tra i più disparati dispositivi di sanitarizzazione della società. Per questa ragione, rivendicare la specificità della psicanalisi, come pratica formativa, rappresenta un dovere politico ed etico di chi vuole ancora riconoscersi appartenente alla tradizione inaugurata da Freud e rivitalizzata da Lacan. La psicanalisi altro non è che la strada data, come possibile, all’individuo per giungere ad essere sovrano sul proprio desiderio. Ognuno di noi, soprattutto nell’attuale epoca di sconvolgimenti sociali e civili, non può dimenticare che non può esserci sovranità, senza libertà.

    La trasmissione del sapere

    Il fine ultimo della formazione psicanalitica è giungere al grado più alto del sapere, che si traduce in un radicale ed assoluto non-sapere come condizione necessaria per non mancare l’incontro con il reale. Si tratta di accettare il limite intrinseco alla conoscenza, non in una dimensione rinunciataria e depressiva, ma in quella della meraviglia e della creatività.

    Formarsi non vuol dire accumulare informazioni, ma orientarsi nel sapere a partire da un principio unificatore, che permetta di oltrepassare gli steccati epistemologici che chiudono i vari campi dello scibile su se stessi, non per raggiungere un’ideale erudizione, ma per fare del proprio sapere la condizione di verità dell’atto. Motivo per cui è necessario quanto più sapere possibile, nella consapevolezza che non sarà mai sufficiente per compiere l’atto giusto che la situazione richiede.

    In psicanalisi non si agisce a partire da un sapere supposto, acquisito una volta per tutte, ma lasciando che l’oggetto che causa il desiderio, agendo, produca una verità nuova per il soggetto.

    Freud stesso ha sempre ribadito che la psicanalisi non può essere insegnata all’università, poiché la posizione dell’analista si raggiunge facendo esperienza diretta delle leve che muovono il desiderio, partendo dal caso particolare che ognuno rappresenta per se stesso. La psicanalisi si apprende esclusivamente praticandola, prima come analizzante e poi come analista.
    Tutto il mistero, e la conseguente diffidenza che intorno alla psicanalisi c’è sempre stata, è riconducibile a questo modo sui generis di trasmettersi [1].

    La psicanalisi è un percorso di trasformazione soggettiva, che difficilmente può funzionare, se non ha già prodotto degli effetti nell’operatore che la pone in essere, effetti mai definitivi e sempre rinnovati, a partire da ogni atto realmente analitico.

    L’esperienza inaugurata da Freud muore se sceglie di non correre il rischio di essere un’impresa senza alcuna garanzia di riuscita, perché affidata esclusivamente al desiderio di verità di chi se ne occupa, a prescindere dal fatto di essere nella posizione dell’analista o dell’analizzante.

    Lacan sosteneva che ogni volta che insegnava era sempre nella posizione dell’analizzante, cioè di colui che interroga e si interroga. Infatti il termine “analista” designa una funzione e non rappresenta l’essere di un soggetto.

    La tradizione analitica è stata da sempre attraversata da un’ambiguità semantica, per cui da una parte il termine “analista” designa la funzione necessaria affinché ci sia il lavoro dell’analisi, mentre dall'altra indica colui che pratica la psicanalisi. Quindi un conto è l’analista come funzione strutturale all’analisi e un altro conto è l’analista come professionista. 

    Questa ambiguità ha generato una serie di incomprensioni e di equivoci, non ultima la diatriba sul fatto se la psicanalisi debba o non debba essere inclusa nella legge 56/89, che regolamenta la professione di psicologo, nonostante il fatto che questa legge, per volere esplicito del legislatore,  non include la psicanalisi nel proprio seno [2].

    La psicanalisi è una pratica formativa, che solo di riflesso ha effetti terapeutici, per cui il principio su cui agisce è quello della responsabilità individuale, sia per quanto concerne la parte che riguarda l’analista, sia per quel che concerne l’analizzante.

    La posizione scomoda della psicanalisi, e di ogni psicanalista degno di questo nome, si trova sul difficile crocevia dove l’etica ed il diritto si incontrano. Egli da una parte ha l’arduo compito di assumere su di sé il fondamento del proprio agire, mentre dall’altra deve avere la capacità di porre le condizioni perché l’esperienza analitica apra all’individuo delle possibilità nuove.

    In gioco non vi è una sterile contrapposizione tra professioni sanitarie e professioni non sanitarie, ma una vera e propria trasformazione antropologica del concetto stesso di professione.

    Autorizzarsi al compito

    Prendere una decisione non è mai stato facile. Il momento della decisione conosce l’angoscia che accompagna la perdita. Le certezze vengono meno, si è soli davanti all’ignoto.
    Potrebbe una vita definirsi ancora umana, se le fosse sottratta questa dimensione, di certo angosciosa, ma proprio per questo così reale e vera?

    Ad occultare l’angoscia riescono i più disparati apparati ideologici, da quelli religiosi a quelli scientifici, che si ritrovano stranamente apparentati in questo comune intento.

    Nell’angoscia rimane celata la verità del soggetto al contesto relazionale, che non sempre è preparato ad accoglierla, perché a volte è destabilizzante, in quanto portatrice dell’emergenza del reale soggettivo al di la di ogni limite preconfezionato. Freud sperimentò nell’isteria la dialettica della verità tra l’individuale ed il sociale. 

    La patologia ha assunto oggi contorni diversi, sfociando in forme di disagio estremamente gravi, come le dipendenze. Tuttavia ad essersi modificata non è la necessità della scelta patologica, ma l’orizzonte simbolico in cui questa si attua.

    L’isteria, ad esempio, è un modo per farsi carico, soggettivamente, delle mancanze dell’altro – inteso come sistema simbolico in cui il soggetto agisce, o come altro dell’amore –, attraverso l’offerta di completarlo, a condizione che venga riconosciuto all’isterico il merito di essere ciò che di essenziale effettivamente manca all’altro per raggiungere la perfezione. L’isteria è sempre in grado di dare un prezzo all’amore.

    Anche nelle dipendenze, si tratta ancora di riconoscimento e d’amore, ma la posta in gioco, questa volta, è la vita o la morte. Perciò le dipendenze hanno un’incidenza maggiore in ambito sociale e politico, non solo per quanto riguarda le modalità della cura [3], ma soprattutto per quanto riguarda gli effetti che queste patologie hanno nella società nel suo complesso, per gli aspetti giuridici, sanitari ed etici che inevitabilmente sono connessi al loro manifestarsi.

    Se un tempo l’isteria poteva essere il banco di prova di un ascolto sufficiente ad articolare alcuni inceppamenti soggettivi sul piano simbolico, oggi, di fronte alle dipendenze, si tende sempre di più ad arginare la portata sovversiva, che ogni scelta patologica porta con sé, con l’utilizzo di presidi medici, dagli psicofarmaci al TSO.

    L’atteggiamento contrario a questa deriva tecno-sanitaria è di fare della patologia, qualsiasi essa sia, una macchietta da operetta romantica, con relativo sfondo buonista o cinico, a seconda di dove porta l’immancabile tratto perverso del curante, dimenticandosi – e i primi a farlo sono coloro che sono chiamati ad occuparsi di queste situazioni di disagio – che il soggetto non può accedere alla propria verità, se non attraverso un atto radicalmente sovversivo, non fosse che rispetto al discorso familiare che lo costituisce. Quale sia questo atto non è dato saperlo a priori, il più delle volte neppure al soggetto in questione. Dietro alla scelta tossicomanica, o a quella anoressica, o alla spasmodica ricerca dell’azzardo, c’è un atto che viene negato nel momento stesso in cui si produce.

    Si tratta dell’atto di accedere ad un proprio desiderio effettivo, svincolandolo dal volere insensato dell’altro, anche a costo di accettare il rischio di trovarsi di fronte alla più profonda solitudine, come prezzo da pagare in nome della libertà. Ma solo questo è il presupposto per potersi autorizzare a seguire il proprio compito etico, cosa certamente complicata per chi si trova in una posizione di dipendenza. Perciò queste forme patologiche richiedono un ripensamento radicale dei principi stessi su cui si basa la cura, che deve necessariamente ritrovare, almeno sul piano logico, le coordinate che la situino come intervento prima di tutto formativo, e solo in seconda battuta terapeutico-sanitario.

    Libertà. Politica ed economia

    Se questo atto di libertà – confrontarsi, cioè, con il proprio compito etico, cosa che nelle dipendenze  assume forme grottesche e tragiche – risulta sempre più difficile anche nelle attività quotidiane di ciascuno, è perché qualcosa di essenziale è venuto modificandosi nel nostro tempo.

    È evidente come il sopravvento che l’economia globale ha nei confronti della politica riduca gli spazi di rappresentanza e di decisione condivisa, mettendo al servizio di valori mercantili ogni altro valore: culturale, civile, etico.

    Molte delle sicurezze economiche e politiche, con cui abbiamo convissuto dagli anni Settanta, sono venute meno, e sempre di più assistiamo ad adeguamenti delle tutele politiche – il più delle volte al ribasso – al nuovo contesto mondiale, decisamente più ampio, dove molti e diversi attori sono in campo rispetto al recente passato.

    Alla politica è richiesta la capacità di tornare a governare i cambiamenti e di riuscire ad integrare le istanze collettive ed individuali [4].

    La psicanalisi non può non interrogarsi su quale sia la soggettività, così come si conforma, nelle sue linee essenziali, nel nostro tempo, presa com’è nelle reti sociali e costruita artificialmente dai prodotti mainstream. La psicanalisi deve quindi provare a non sottrarsi al proprio compito, diventando anche una voce critica nei confronti di molti assunti politici ed economici dati per acquisiti e vissuti come immodificabili. Non è un impresa facile, dal momento che la pratica inaugurata da Freud rappresenta un movimento estremamente ridotto sul piano numerico, quindi scarsamente incisivo sul piano politico.

    Politicamente, però, non è irrilevante quando nascono iniziative che puntano a salvaguardare alcuni aspetti irrinunciabili sul versante dei diritti civili, in particolare a favore di una concezione laica e liberale della società. A questi movimenti, una psicanalisi rinnovata, anche nel suo rapporto con la polis, potrebbe dare un forte contributo, per mettere in evidenza quali siano le reali istanze in gioco, in una contesa epocale, in cui a soccombere sono sempre di più le istanze legittime di libertà e democrazia dei cittadini.

    Diventa inoltre sempre più importante riconoscere, sul piano economico, quale profondo disagio si celi sotto la pressante domanda di scardinare certi obsoleti vincoli di tipo corporativo, al fine di liberare energie nuove, in grado di recuperare dignità al lavoro a partire riconoscimento  effettivo del merito.

    Non ne facciamo un discorso prettamente politico ed economico, perché solo se la libertà – e la responsabilità che vi corrisponde – non diventa un cardine su cui costruire una società aperta, molte delle nostre conquiste culturali sono inevitabilmente destinate a scomparire, misconoscendo i principi su cui sono sorte e per cui si è combattuto per ottenerle.

    La psicanalisi, vista in un’ottica globale, potrebbe risultare cosa di poco conto, ma in realtà è una  delle poche opportunità formative che la nostra epoca offre ai soggetti che si lasciano ancora interrogare dal disagio e dal sintomo, inteso sia in senso individuale, sia – e forse soprattutto – in senso sociale. Si tratta di compiere una sorta di propedeutica all’assunzione del compito individuale, quando il disagio non è che l’altra faccia di una vocazione alla quale non si vuole dare ascolto. La vocazione ha sempre a che fare con l’ambito religioso, ma non necessariamente con quello confessionale. Se togliamo al soggetto la possibilità di rispondere alla propria chiamata, laicamente intesa, operiamo di fatto una scelta radicale, sul piano culturale e civile, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, riconducibili come sono ad uno spaesamento generalizzato. Ciò che stiamo perdendo, sul versante sociale, è la consapevolezza di tale scelta.

    Le impasses della psicanalisi

    Dopo i successi ottenuti in Italia negli anni Settanta e Ottanta, la psicanalisi ha conosciuto un lento declino. Le ragioni sono molteplici: i cambiamenti socio-economici, le spaccature interne al movimento psicanalitico, alcune vicissitudini giudiziarie, l’affermarsi della professione dello psicologo e i cambiamenti legislativi che ne sono conseguiti, con l’introduzione della categoria professionale degli psicoterapeuti.

    L’avvento della legge 56/89 ha modificato sostanzialmente la possibilità di accedere alla professione di psicanalista. Pur non contemplando, nella sua formulazione finale, la psicanalisi, questa legge è divenuta ipso facto la cornice giuridica entro la quale si vorrebbe far entrare la pratica analitica, ad ogni costo.

    Già Freud, nello scritto del 1926 La questione dell’analisi laica, metteva in guardia un giudice, che era chiamato a pronunciarsi in merito all’accusa di abuso di professione rivolta ad un suo allievo diretto, non medico, su quali fossero le cose da prendere in considerazione per considerare la formazione degli psicanalisti: la specificità delle problematiche di cui si occupa la psicanalisi, il particolare iter formativo degli analisti e le resistenze che gravano nei confronti della pratica analitica da parte di coloro che ne hanno una conoscenza solo esteriore.

    Le cose da allora non sembrano cambiate di molto, e ci troviamo ancora nella difficile situazione di trovare una collocazione professionale alla psicanalisi.

    Il nucleo principale della questione, in Italia, sembrerebbe riconducibile all’interrogativo se considerare la psicanalisi una pratica sanitaria oppure no.

    In realtà, si tratta di un falso problema, dettato esclusivamente da un’impostazione di stampo corporativo. Proprio su questo piano si è svolta una battaglia tra l’Ordine dei medici e quello degli psicologi, ai quali fu concessa la possibilità di divenire psicoterapeuti, esattamente come lo fu ai medici. Ma in questo modo fu adottato un criterio universitario di accesso alla professione di psicoterapeuta, escludendo così la possibilità, per gli analisti, di formarsi in modo “laico”, fedelmente alle concezioni di Freud. Inoltre – cosa ancora peggiore – furono costituiti degli Istituti privati per la formazione degli psicoterapeuti, che sono necessariamente obbligati a seguire i criteri universitari richiesti dalla legge 56/89.

    L’insegnamento della psicanalisi è sempre stato appannaggio di associazioni liberamente costituite, con aspirazioni, fin dagli inizi, internazionali, come dimostra l’IPA, che aveva anche ambizioni egemoniche, messe in discussione da Lacan quando decise di uscirne, per fondare una scuola e un insegnamento autonomo.

    Sia Freud che Lacan sono giustamente considerati dei padri in ambito analitico perché Freud è stato l’iniziatore e Lacan è stato colui che, sotto certi aspetti, ha sottolineato la forte valenza etica che comporta occuparsi di psicanalisi, sottraendo così agli analisti anche gli ultimi alibi che passano sotto i paludamenti istituzionali.

    Eppure, nella trasmissione della psicanalisi, qualcosa non è andato per il verso giusto se manca la capacità da parte degli analisti di ricomporre il quadro frammentato in cui versa la psicanalisi oggi, - da una parte confusa nell’indifferenziato delle varie psicoterapie, e dall’altra dispersa in vari gruppetti isolati e spesso autoreferenziali,-  per cui sembra impossibile si possa costituire un movimento coeso, in cui analisti di diverse provenienze possano riconoscersi e che permetta di sostenere politicamente le legittime istanze liberali della psicanalisi. 

    Umani, troppo umani

    La psicanalisi ci sarà fino a quando ci saranno gli psicanalisti. Potrebbe sembrare una tautologia, ma non è così, dal momento che una pratica deve la sua trasmissione alla passione di chi la incarna.

    Molti analisti, in Italia, hanno scelto di entrare nell’Ordine degli psicologi e molte scuole sono passate dal formare psicanalisti a sfornare psicoterapeuti, per logiche di convenienza e di mercato.

    Sospendiamo il giudizio su queste scelte, poiché non compete a noi. Ma certamente, rispetto ad una tradizione, seppur breve, ma comunque ricca di personalità di rilievo, come quella della psicanalisi, ci sembra poca cosa che gli analisti delle generazioni precedenti, salvo poche eccezioni, abbiano abdicato al proprio compito di trasmettere la psicanalisi nella sua specificità, nel momento in cui hanno permesso che, di fatto, la psicanalisi fosse inclusa nella legge 56/89, costituendo degli istituti di formazione per psicoterapeuti ad indirizzo analitico, senza insistere affinché fosse riconosciuto alla psicanalisi uno statuto diverso da quello delle psicoterapie, nella  loro convinzione che questa scelta garantisse introiti economici sicuri, decisione, tra l’altro, che nel tempo, è stata smentita dai fatti.

    Gli psicanalisti che vogliono ancora riconoscersi tali, nel proprio desiderio, ma soprattutto nei propri atti, hanno un lavoro straordinario da intraprendere: sul piano culturale, nel far conoscere la forte carica innovativa che ancora la psicanalisi può apportare in ambito epistemologico; sul piano sociale, riscoprendo le ragioni profonde di un disagio soggettivo sempre più esteso e sempre meno ascoltato, in quanto tale; sul piano politico, affermando l’esigenza di ripensare la formazione sotto il profilo soggettivo, e non solo tecnico-funzionale; ed infine, sul piano etico, rimettendo al centro del discorso comune l’individuo con le proprie istanze e i propri desideri, alle prese con le proprie scelte di fronte al sesso, alla morte, al luogo dove vivere, alla cura da intraprendere e a molti altri aspetti essenziali della vita di ciascuno.

    Una nuova strada per il domani

    oggi esistono strumenti che in passato non esistevano. Una legge liberale, la 4/2013, che regolamenta le professioni non ordinistiche, permette di superare certi ostacoli pratici e logici che le generazioni passate hanno incontrato [5].

    Il punto cruciale, su cui tante iniziative di politica della psicanalisi si sono scontrate, è stato il riconoscimento professionale dello psicanalista. 

    Due logiche diverse si contrappongono: da una parte una concezione liberale e dall’altra una concezione corporativa della professione di psicanalista. Per quanto riguarda questa seconda possibilità non ci dilunghiamo oltre, essendo sotto gli occhi di tutti l’effetto nefasto che sta producendo la scelta fatta da alcune associazioni analitiche di far rientrare la formazione degli analisti all’interno dell’Ordine degli psicologi, condannando la psicanalisi a non essere altro che una delle tante psicoterapie in commercio, tra l’altro nemmeno una delle più appetibili per l’utenza, visto che, comunque, non si capisce cosa la distingua dalle altre per cui valga la pena investire tempo e denaro, quando sembra ci siano a portata di mano metodologie concorrenti più efficaci e più rapide.

    In contrapposizione a questa logica, che sfocia inevitabilmente nel classico corporativismo italiano, sarebbe opportuno rispolverare concezioni più aperte e liberali, magari di stampo anglosassone [6], poiché la psicanalisi, come  esperienza che mira a fornire un percorso formativo al soggetto, in quanto percorso di individuazione personale, non può che essere considerata un’arte liberale, alla stregua della musica, della pittura e di altre pratiche artistiche, per le quali è evidente, anche nella percezione comune, quanto sia necessario un duro lavoro per conoscerle al meglio e metterle a frutto. Come ci si forma in ogni arte, così avviene nella psicanalisi, attraverso, cioè, la pratica e lo studio.

    Dietro al sintomo, inteso analiticamente, si cela sempre un desiderio. L’analisi è una possibilità che il soggetto si può dare per riconoscere un senso e attribuire un nome a quel desiderio [7].  A partire anche da questa considerazione appare chiaro come la psicanalisi non possa essere considerata una pratica sanitaria, in quanto non mira assolutamente a scardinare il sintomo. Al contrario, solo attraversando il significato che può avere il sintomo, il soggetto apprende nuove possibilità per se stesso, ritrovando il proprio singolare modo di stare al mondo, ma soprattutto, cosa ancora più fondamentale, imparando ad agire in esso.

    Una volta svincolata la psicanalisi dal discorso medico-sanitario, conseguenza inevitabile quando se ne recupera l’ascendenza laica, come era nel desiderio di Freud, non si vede perché non si possa accettare il fatto che coloro che hanno svolto in modo rigoroso la propria formazione in psicanalisi, non possano legittimamente situarsi nella posizione dell’analista, visto e considerato che una psicanalisi può dirsi effettivamente conclusa quando produce, di fatto, un analista, a prescindere poi dall’eventualità in cui l’analizzante decida di praticare o meno come psicanalista.

    L’analisi produce un analista semplicemente perché è un’esperienza che tende a trasmettere una posizione soggettiva e non solo delle competenze tecniche, ragion per cui è impossibile valutare con procedure oggettive se un soggetto si trovi o meno in una determinata posizione.  Solo i suoi atti potranno testimoniare la giustezza di tale posizione, come succede, per inciso, in ogni pratica, che sia sportiva, artigianale, artistica o intellettuale.

    Impedire, a priori, la possibilità di accedere alla posizione di analista a chi non possieda una laurea in psicologia o in medicina, in nome di istanze meramente burocratiche, vuol dire, di fatto, condannare la psicanalisi alla sua estinzione, cosa che di fatto sta già accadendo con il beneplacito di eminenti analisti. E’ bene ricordare che l’articolo 33 della nostra Costituzione recita che “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento“, per cui alienare gli analisti non permettendogli di trasmettere la loro arte, in un orizzonte politico e sociale davvero liberale, potrebbe configurarsi come una violazione del dettato costituzionale.

    Potrà sembrare eccessivo associare alle sorti della psicanalisi la possibilità futura di interrogarsi ancora sul destino che compete ciascuno di noi in quanto soggetti; altre modalità si affacceranno nella storia, ma non crediamo di poterci illudere che questo possa avvenire, se noi non saremo in grado di salvaguardare l’esile apertura che ha dischiuso il senso profondo del nostro esistere e se non ci preoccuperemo di come fare per trasmettere ad altri questa stessa apertura.

    Note

    [1] Si veda a tal riguardo  A. Menconi, La bottega di uno psicoanalista. Autobiografia di un mestiere, in questo numero.

    [2] Cfr. M. Gramaglia, Perché la psicanalisi non fu inclusa fra le psicoterapie normale dalla Legge 56/89, in Professione psicanalisi, Aracne, Ariccia 2015

    [3] Cfr. F. Scivittaro, Comunità o psicoterapia. Gli insegnamenti della tossicodipendenza, in Asclepio ed il centauro. Il compito della psicanalisi nell’epoca delle psicoterapie. Ed. Franco Angeli, MIlano, 2005.

    [4] Cfr. F.Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento, Ed.Laterza, 2015.
    “[…] occorre andare incontro alle contraddizioni esistenti e imparare a gestirle in modo unitario. E questa gestione unitaria è possibile se si mette a fuoco il vero avversario, quel corporativismo anche elettorale che nei decenni trascorsi ha favorito il declino. Per progredire su questa strada è necessario abbandonare l’idea cara alla tradizione non solo marxista che la categoria di individuo sia soltanto il veicolo di rivoluzioni passive o controffensive moderate, e scegliere invece di connettersi anche a quelle figure sociali e produttive che giocano la partita mettendo a rischio e alla prova i propri destini individuali, che non rimuovono la responsabilità respingendola su altri. Un individuo capace non solo di sganciarsi ed emanciparsi, ma anche di darsi vincoli e obiettivi, di legarsi ad essi.
    Un individuo che sia, per dirla con un’espressione cara alla cultura cattolica, anche “persona”.
    La capacità di “fare impresa”, di esporsi al rischio, guardando al futuro come a una sfida da raccogliere e non come una catastrofe da cui ripararsi, è una risorsa decisiva per costruire un blocco sociale più largo, per mettere insieme tutte le energie necessarie per stare al gioco grande della globalizzazione senza scivolare in una posizione periferica e subalterna.”

    [5] Grazie a questa legge si è costituita un’associazione di categoria, il Coopi, che  promuove una concezione della professione di psicanalista più consona alla tradizione e alla logica della psicanalisi.

    [6] Si veda la ricostruzione storica della stesura della Legge Ossicini svolta da P.F. Galli, Guadaisti e avanguadisti, In Professione psicanalisi, Ed. Aracne, Ariccia, 2015, in cui emerge chiaramente come si sarebbe potuto prendere una strada completamente diversa, nella formulazione di tale provvedimento, se solo si fosse accolta un’impostazione liberale, promossa dallo stesso P.F. Galli, più confacente alla situazione, vista la materia su cui si andava a legiferare.

    [7] Lacan denominava questo desiderio il desiderio dell’analista. Si tratta di una forma particolare, culturalmente determinata, in cui può prendere corpo il desiderio etico. Una questione importante è capire come mai, il desiderio etico, nella nostra epoca, assuma  tale forma, ma soprattutto, perché, da più parti, viene ostacolato il suo comparire ed il suo affermarsi. Analoga sorte, bisogna ricordarlo, la psicanalisi la ritrovò, nel secolo scorso, in ogni regime totalitario che si premurò affinché fosse bandita al proprio interno.

    Collection Cahiers M@GM@


    Volumes publiés

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com