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  • Psychanalyse et laïcité
    Ivan Ottolini (sous la direction de)

    M@gm@ vol.13 n.3 Septembre-Décembre 2015





    I PROBLEMI DEL DOPO LEGGE OSSICINI E LA FORMAZIONE DEGLI PSICANALISTI

    Maria Grazia Giacomazzi

    giacomrg@virgilio.it
    Lavora come psicanalista a Castelfranco Veneto con la supervisione del Dr. Ettore Perrella. Laureata in Scienze della Formazione presso l’Università degli studi di Padova. Nel 1996 aderisce a Spazio Zero, Movimento per la psicanalisi laica. Dal 2004 è consulente presso il Consultorio familiare del Cif di Padova.

    Quando sentii parlare per la prima volta della legge 56 del 1989 - che allora veniva chiamata legge Ossicini, dal nome di chi l’aveva proposta - frequentavo da poco tempo un’associazione psicanalitica denominata Centro Studi di Clinica Psicanalitica [1] ed ero all’inizio di quello che mi si sarebbe rivelato solo più tardi un lungo percorso. Il mio desiderio di capire come stavano le cose nella psicanalisi fu decisivo. Qualche anno prima avevo iniziato a frequentare lo studio di uno psicanalista per tentare di porre rimedio ai miei malanni. Poco più che ventenne, cercavo risposte al naufragio soggettivo e politico mio e della mia generazione. Pensavamo di cambiare il mondo, e invece era crollato il nostro. La psicanalisi - della quale, quando ne iniziai una, non sapevo un granché, tanto più che ignoravo dove la mia domanda m’avrebbe condotta - fu per me una sorta di ultima spiaggia, dopo che differenti miei precedenti tentativi d’uscire dalle mie impasses si erano rivelati fallimentari. Rifiutavo d’alienarmi nella presa di un discorso che non condividevo, ma di questo rifiuto emergeva soprattutto il carattere coattivo e fallace. Che fare?

    La psicanalisi mi sembrò subito una buona occasione, vale a dire un’occasione da verificare, da rendere vera (è una condizione del fatto che qualcosa si avveri). E, ad accompagnare questo primo momento, sono state fondamentali alcune parole, parole capaci d’orientare la mia ricerca senza mortificare l’interrogativo che, pur senza chiarezza, mi ponevo sin dall’infanzia: è possibile essere liberi? È possibile agire con giustizia? E se lo è, a quali condizioni? Intraprendere questa via dunque è stato il modo che ho trovato sia per tentare di capire che cosa non era andato nel verso giusto nella mia esperienza passata, sia - anzi soprattutto - l’unico modo che mi rimaneva per rinnovare una promessa di realizzazione (anche se non potevo definire in nessuna maniera che cosa intendevo per “realizzazione”).

    Tuttavia sapevo che quello che avevo fatto fino a quel momento non era la risposta che cercavo.  Chiedevo molto alla psicanalisi, chiedevo molto anche a me stessa. Ma sono convinta che questa radicalità è la stessa che si trova in ogni domanda d’analisi. Una radicalità che nel corso dell’esperienza s’impara a mitigare, perché s’impara a fare a meno dei tranelli dell’idealizzazione, ma che non può in nessun modo essere bandita, o chiusa fuori della porta, o risolta una volta per tutte. Certo, questa radicalità comporta per chiunque una buona dose di angoscia, quindi sia per l’analista, sia per l’analizzante: ma non sono proprio gli analisti - e i lacaniani più di chiunque altro - a dire che non si può seguire la via del proprio desiderio adottando mezze misure?

    Fu dunque all’inizio di questa mia verifica che qualcosa irruppe pesantemente nella scena, provocando quella che si può definire una battuta d’arresto nel mio iniziale percorso. Questo qualcosa aveva a che vedere non solo con la legge 56 del 1989 - la quale, in fondo, istituiva l’ordinamento della professione di psicologo e regolamentava l’attività della psicoterapia -, ma anche con l’agire complessivamente debole e scomposto degli psicanalisti, messi sotto scacco da questa circostanza. Che cosa stava succedendo?

    Nel testo della legge non si menzionava, tra le pratiche psicoterapeutiche, la psicanalisi, che pure in un primo momento - nel testo della proposta di legge - era stata esplicitamente menzionata [2]. Tuttavia la decisione di escluderla era stata presa da una Commissione ristretta della Camera, della quale non esistono trascrizioni e quindi la volontà del legislatore è testimoniata da chi c’era, ma non è documentata [3].

    Succedeva che una gran parte degli psicanalisti italiani aveva finito per iscriversi all’Ordine degli Psicologi, chiedendo di essere iscritti nell’elenco degli psicoterapeuti e conseguentemente, anche se non tutti, aprirono scuole di specializzazione in psicoterapia [4].

    Inizialmente le scuole riconosciute erano relativamente poche, spartite prima tra comportamentisti e cognitivisti con stretti legami con l’ambiente universitario e successivamente tra freudiani, junghiani, lacaniani, e tra questi un gruppo, con sede a Roma coordinato da Antonio Di Ciaccia [5] e sotto la direzione scientifica di Jacques-Alain Miller [6], si era prefisso l’intento di unire sotto un’unica guida le molteplici iniziative del campo lacaniano in Italia. Presto, anche per la minaccia che incombeva dal parlamento italiano che si apprestava a varare la legge di cui si discute, la passione che fino a quel momento aveva impedito l’effettiva collaborazione tra i lacaniani in Italia tempestivamente si affievolì e molti aderirono all’appello unitario venuto d’oltralpe e altrettanto presto si adeguarono a trovare nella legge Ossicini [7] ragioni di opportunità professionale. Quindi si adoperarono per ottenere tempestivamente il riconoscimento dell’Altro [8] che avrebbe autorizzato la costituzione dell’Istituto per la preparazione degli psicoterapeuti. Inoltre, l’insieme lacaniano cui inizialmente mi ero iscritta, per mantenere nel discorso sociale la specificità della posizione dello psicanalista cui è affidata l’esistenza dell’inconscio freudiano, fondò la Scuola.

    È così che il grosso problema della trasmissione della psicanalisi e della formazione degli psicanalisti, si chiuse nel peggiore dei modi, risolvendosi nell’escamotage della formazione su due assi: l’Istituto e la Scuola, come se questa struttura di discorso non fosse in realtà antipsicanalitica. In questo contesto formalmente si riconosce la differenza tra psicanalisi e psicoterapia, ma concretamente cosa accade? Di fatto la psicanalisi e la psicoterapia sono poste sullo stesso piano, anzi la prima (psicanalisi) dipende dalle condizioni imposte alla seconda (psicoterapia). Inevitabilmente in gioco c’erano un discreto business e un discreto potere, oltre la garanzia di reclutamento di nuovi analizzanti [9], almeno finché le scuole o gli istituti di specializzazione erano numericamente limitati, ma mi riusciva difficile comprendere come questa soluzione potesse rientrare nella logica e nell’etica dell’esperienza inaugurata da Freud [10]. La confusione era sovrana e il variegato movimento degli psicanalisti italiani si divise ulteriormente, ora non solo per questioni di scuola di appartenenza come era sempre accaduto, ma si divise formulando tre risposte differenti alla questione posta dalla legge 56/89.

    Una parte degli psicanalisti italiani - la maggioranza, occorre riconoscerlo - decisero che era preferibile iscriversi all’Ordine e aprire degli Istituti di specializzazione in psicoterapia piuttosto che opporsi a una legge che non rispettava la psicanalisi. Ma questa operazione ha finito per trasformare ciascuna di queste strutture in una sorta di scuola legalizzata per la formazione degli psicanalisti (come se questo non fosse in contraddizione con i principi stabiliti da Freud). Un’altra parte - non molti, a dire il vero -, pur iscrivendosi, grazie alle norme transitorie all’Ordine degli psicologi e all’albo degli psicoterapeuti, non ha fondato una scuola di psicoterapia, ma ha continuato a porsi il problema della formazione degli analisti a prescindere dalla legge 56, cercando di difendere l’autonomia della psicanalisi dalla psicoterapia. (da qui nascerà il tentativo di Spazio 0). Infine un’altra parte degli analisti italiani ha continuato a lavorare in ordine sparso infischiandosene del problema, supponendo che non li riguardasse. E questo a torto, per due ragioni: 1. il legame analitico è un legame sociale ed è impraticabile se questo legame non è o rischia di non essere considerato legale. Uno psicanalista non può essere fuori legge [11]: 2. la legge 56, come era facilmente prevedibile sin da subito, comunque avrebbe avuto effetti sul piano culturale e politico, perché rischiava d’inserire la psicanalisi nella congerie assai mal assortita delle psicoterapie [12].

    Insomma la confusione era totale e non era facile raccapezzarsi, infatti non mi raccapezzavo e dal momento che mi stavo giocando una partita troppo importante per trovare una soluzione qualsiasi (come se qualsiasi soluzione potesse poi funzionare) "poi", ho scelto di confrontarmi fino in fondo con questo problema. Aderii a una nuova iniziativa promossa da un movimento di analisti provenienti da diversi orientamenti, Spazio 0, i quali si erano dati come unico scopo quello di contrastare l’assimilazione della psicanalisi alla psicoterapia anche appellandosi al parere di un noto giurista [13], ma ben presto anche questo movimento si concluse lasciando senza ulteriori articolazioni il problema del riconoscimento sociale della psicanalisi non assimilata alla psicoterapia. Della psicanalisi cosiddetta laica.

    Nel frattempo, in quegli anni, si costituiva a Padova un’associazione denominata Accademia platonica delle Arti (attualmente Accademia per la formazione) che mi permise di procedere nel mio lavoro di ricerca una volta uscita dalla scuola lacaniana di cui ho detto sopra [14].

    La psicanalisi è una professione? Dal punto di vista socio-economico "e" fiscale [15] il lavoro dello psicanalista in fondo è una professione come tutte le altre, tuttavia non lo è affatto per il modo in cui si svolge la sua pratica e per gli scopi che essa si prefigge i quali sono, prima ancora che clinici, formativi. La psicanalisi è una pratica costitutivamente formativa nel rispetto di quell’individualità che all’inizio del percorso è del tutto indeterminata, in potenza potremmo dire. E l’analisi è il tempo necessario perché l’analizzante possa decidere quali desideri perseguire e fino a che punto realizzarli. Talvolta, solitamente dopo molto tempo [16] il desiderio dell’analizzante può determinarsi in quello che viene definito il desiderio dello psicanalista. Si capisce allora perché non si possa - proprio per la delicatezza di questo punto etico in cui l’individualità si viene a determinare - in nessun modo decidere prima del percorso quale sarà lo sbocco formativo di un’analisi. Soprattutto non può essere un principio a priori esterno ai criteri analitici come una legge dello Stato, che ripetiamo nel caso della legge 56/89 è un obbrobrio giuridico [17], a volersi appropriare di questo spazio dell’individuale. Quando questo avviene siamo nella barbarie e non nella civiltà [18]. Ed è sorprendente che degli psicanalisti abbiano permesso un'offesa così mortale per la psicanalisi e che questo sia avvenuto tramite l’interpretazione di una legge che smentisce la funzione stessa della Legge perché ne tradisce lo spirito.

    Eppure gli psicanalisti in questo campo dovrebbero essere maestri e custodi della civiltà. E dovrebbero essere i primi a custodire e se necessario difendere lo spazio logico (etico) che consenta a dei soggetti di formarsi liberamente.

    Del resto la salute non è un modello di comportamento cui tutti ci dobbiamo uniformare (la psicologia com’è intesa nel modello medico/sanitario è un errore di prospettiva sull’essere umano), ma sta nella corrispondenza nel tempo di ciascuno con se stesso. Per questo la formazione dura tutta la vita. La psicanalisi non si propone solo di alleviare le sofferenze soggettive prodotte dai sintomi e dalle inibizioni, ma si propone di far emergere i desideri essenziali di un soggetto perché questo possa trovare una traccia di senso in quello che fa.

    Tutti sanno benissimo che la psicanalisi non ha nulla a che vedere con la psicoterapia «intesa come atto medico» [19], sarebbe quindi necessario a questo punto che gli psicanalisti riuscissero ad affermare pubblicamente questa evidenza. Quando la psicanalisi prescinde radicalmente dalla verità allora non esiste, evapora. Essere al servizio dell’Ordine degli psicologi anziché operare in nome della verità (quella che s'incontra nell’esperienza dell’analisi) non fa altro che contribuire a produrre quegli stessi guasti simbolici e sociali dai quali scaturiscono i disagi di cui la psicanalisi si occupa. Considerare una legge dello Stato sempre identica alla Legge (l’ordine simbolico su cui si fonda la civiltà) e far coincidere l’etica della psicanalisi con il rispetto della legalità è un abbaglio [20] e la miglior via al fondamentalismo. Al pensiero unico. E questo non ha nulla a che vedere con la psicanalisi, ma con la sua cancellazione. Quando una legge è ingiusta non ci si può solamente chiamare fuori. Occorre fare di tutto, e con tutte le forze, per annullarne gli effetti o cercare di renderla più giusta. Sia la soluzione legalitaria, sia la soluzione del chiamarsi fuori dalla legge non sono in realtà soluzioni. Nell’uno e nell’altro caso non solo resta irrisolto il problema della trasmissione della psicanalisi, ma tendenzialmente si chiude una possibile ricerca di soluzione.

    Se invece vogliamo che la psicanalisi continui a dare un contributo alla cultura e alla civiltà (altrimenti perché occuparsi di psicanalisi?) occorre ripensare la pratica analitica anche in termini sociali e comunitari rimanendo tuttavia fedeli ai suoi principi etici. Allora impostare politicamente il problema della formazione degli psicanalisti (ma questo può valere per la formazione tout-court), vuol dire creare le condizioni preliminari perché questo sia ancora possibile. Per questo occorre promuovere e partecipare a un dibattito politico complesso, anche sulla politica delle professioni, favorendo il confronto con altre figure professionali. La psicanalisi deve essere fondata su criteri etici, esattamente come la politica, se vogliamo che la nostra tradizione civile trovi il modo di rinnovarsi nella società dell’informazione e della pubblicità dove tutto si trasforma in oggetto di scambio. I cosiddetti nuovi sintomi, le dipendenze patologiche all’oggetto, non avvengono per caso. Sono trasformazioni che non riguardano solamente la clinica della psicanalisi perché esse sono effetti delle trasformazioni dei quadri strutturali nell’ambito sociale in cui il soggetto si forma, in particolare famiglia e scuola. Occorre ritornare ai fondamentali e cercare di riconfermare i dati etici che stanno alla base della nostra tradizione, ma ripensandoli e riformulandoli in relazione alla nuova situazione sociale.

    Ed è per questo che gli psicanalisti, come cittadini prima ancora che psicanalisti, devono assumersi l’onere di impedire che l’individualità sia schiacciata dietro esigenze generali. Occorre farlo in due modi e il primo di questi prevede che si risolva urgentemente il problema messo in evidenza dalla legge 56/89 riaprendo, ma su altri presupposti, quel confronto che si è interrotto con un nulla di fatto tanto tempo fa. "Altri presupposti" significa che non è un dibattito interno al mondo psicanalitico quello che interessa, ma un confronto esterno nella città, esponendosi al rischio della messa alla prova di ciò che si vuole promuovere.

    Per questo ho trovato urgente organizzarsi in una associazione di categoria professionale [21] capace di interloquire realmente con la politica affinché si modifichi l’impianto di una legge, non-legge, che è mortale per la psicanalisi. Adottando un principio liberale pratico [22], vale a dire collaborando perché ci sia una legge o un regolamento che abbia ampie probabilità di venire rispettato [23] e trovare degli strumenti per farlo rispettare senza discriminazioni.

    Il secondo modo invece è un lavoro di prospettiva e prevede dei tempi più lunghi che potranno essere anche tempi di verifica sull’utilità della psicanalisi a livello delle strutture culturali e politiche in cui ci si trova a operare. A partire dall’esperienza che sto portando avanti da qualche anno nel campo della politica, ho il privilegio di potermi accorgere quanto labile sia il confine che separa la barbarie dalla civiltà. Questo è evidente in particolar modo nel campo dei diritti civili: quando non c’è spazio per l’individuale è facile cadere nel brusio di voci dell’informazione che rende tutti noi parti perfettamente intercambiabili di una massa indifferenziata. Per questo penso sia doveroso continuare a insistere sull’importanza essenziale del riconoscimento anche politico dei diritti degli individui, e difendere le singole libertà (non la libertà assoluta) che spettano a ciascuno e che costituiscono il presupposto indispensabile per qualsiasi azione. La legge non dovrebbe mai dire esplicitamente ciò che uno deve fare. E questo è un principio liberale, l’unico che la psicanalisi può, anzi deve difendere perché è in base a questo principio che la legge non ha il diritto di esprimersi su tutto, sul desiderio o sull’amore per fare due esempi evidenti. C’è anche un’altra cosa che la legge non deve fare: concedere a qualcuno il diritto di decidere anche per un altro. È il principio del paternalismo, vale a dire dell’impostura.

    Lo sforzo dovrà essere quello di creare una communitas effettiva in cui allenarsi a tollerare una solitudine costosa la quale tuttavia non può prescindere da quell’elemento di fiducia e di collaborazione in cui sperimentare il rinnovarsi del legame tra individui. E questo è il compito che compete a tutti gli individui e che la psicanalisi ha il dovere di ricordare.

    Essere formato che cosa significa? Significa prima di tutto cercare d’agire giustamente. Ne va del senso non solo della psicanalisi, ma di tutta la nostra tradizione che è quella di lasciare aperto lo spazio d’azione dell’individuo concreto e singolare in cui si fonda ogni possibile libertà e ogni possibile assunzione di responsabilità individuale (non ce ne sono altre). Le ragioni del nostro convivere non vanno solo ricercate ma vanno sempre rifondate, così come vanno rifondate le nostre parole che diventano vuote se mancano di relazione con la verità. Non perché le parole contengano in sé una qualche verità, ma perché per essere vere non possono mancare della loro relazione con la verità cui apparteniamo.

    L’assunzione di un compito e la sua possibile attuazione non possono prescindere dall’apertura al nuovo (che è ricerca di verità) accompagnato dalla ripresa di una eredità e questo è l’unico modo concreto per tentare di imprimere nella cultura quell’incandescenza che non ha appartenenza e per questo chiamiamo libertà. Insisto nel dire che non tutto può diventare oggetto di legge. Vi sono ambiti nei quali non si può legiferare e occorre trattenere la tentazione di occupare quello spazio essenziale perché qualcosa di nuovo possa essere. È il principio stesso della generazione. Quell’incompiutezza che è lo spazio stesso della legittimità come principio della legge non scritta perché scriverlo trasformerebbe questo principio in qualcos’altro, in una tirannia.

    Tutto questo è necessario non solo per la psicanalisi, ma per quella forma di legame che chiamiamo democrazia e che il filosofo Roberto Esposito individua nella dimensione permanentemente incompiuta. La vera democrazia si mantiene nell’incompiutezza perché non pensa di rappresentare in modo integrale l’idea del bene e quella della giustizia tramite la legge. Ma si mantiene nell’apertura strutturale di una oscillazione fra forme simboliche compiute e incompiutezza. C’è un rischio e una fragilità, ma è questo rischio e questa fragilità che rispettano quel principio di legittimità quale prodotto più raffinato e delicato della nostra civiltà.

    La psicanalisi non potrà mai essere una pratica sanitaria per la semplice ragione che le formazioni dell’inconscio non potranno mai essere assimilate ai segni di una malattia da guarire con l’ausilio di procedure generalizzate, valide per tutti.

    Scegliere da che parte stare è la nostra eredità. Quella da cui veniamo e quella che lasceremo. Soprattutto quella che lasceremo è l’eredità che conta perché la psicanalisi deve poter ri-cominciare nell’esperienza di chi lo desidera.

    Note

    [1] Il Centro Studi di Clinica Psicanalitica era una delle realtà italiane che in Italia testimoniavano, attraverso varie iniziative - convegni, seminari, conferenze, cartels - dell’importanza del pensiero di J. Lacan.

    [2] La Spi, attraverso accordi informali, aveva ottenuto che, nel testo della legge, la psicanalisi non fosse menzionata affatto. Un escamotage per salvare la forma, visto che poi, nella sostanza, la Spi aveva già grosse responsabilità sul modo in cui la legge era stata formulata, e inoltre aveva già da tempo strutturato al proprio interno dei percorsi di formazione molto simili a quelli richiesti dalla legge stessa. Purtroppo la Spi non fu l’unica Associazione psicanalitica a seguire un percorso poco trasparente, perché fu seguita presto da altre, che vollero anch’esse creare degli Istituti per la formazione di psicoterapeuti, senza specificare chiaramente le differenze esistenti tra la formazione degli psicanalisti e quella degli psicoterapeuti ex lege 56.

    [3] Vedi l’intervista a M. Gramaglia in Professione psicanalisi, Aracne, Milano.

    [4] Occorre ricordare qui che prima di intraprendere questa linea di azione (allora non necessaria e per questo sintomatica … sicuramente non solo a causa degli psicanalisti, ma anche per come era formulata la legge) gli psicanalisti italiani sono stati protagonisti di un animatissimo dibattito sulla differenza tra psicoterapia e psicanalisi, differenza da tutti riconosciuta almeno formalmente, ma questo dibattito ha mantenuto un valore esoterico tutto interno alle beghe più o meno edificanti del variegato insieme psicanalitico e non è mai diventato un problema minimamente interessante a un pubblico più vasto di quello riservato agli addetti ai lavori.

    [5] A. Di Ciaccia in quegli anni si era trasferitosi dalla Francia in Italia, prima partecipando al dibattito sulla particolare frammentazione del discorso lacaniano nel nostro paese (erano fallite sia la proposta al Tripode fatta dallo stesso Lacan ai suoi allievi, sia l’esperienza dell’Intercartel) e successivamente per costituire l’Istituto Freudiano per la Clinica, la Terapia e la Scienza di cui è tuttora presidente.

    [6] La posizione di J.A. Miller non era delle più semplici. Sposato con la figlia di J. Lacan doveva gestire l’eredità sia familiare che testamentaria dell’insegnamento di Lacan che comprendeva l’assoluto controllo sulle pubblicazione dei seminari del maestro francese. Ma a parte questo problema la cui circostanza credo abbia pesato notevolmente sui criteri adottati per la trasmissione del discorso lacaniano, mi chiedo quanto l’impianto familistico che si è venuto a creare abbia influito nella logica dei legami sociali promossi da questo presupposto. Più direttamente: l’impianto familistico poteva non pesare a livello della comunità degli analisti?

    [7] È curioso notare che lì dove non era riuscito nemmeno Lacan con la proposta al tripode, e lì dove erano falliti diversi tentativi di dare una struttura unitaria al campo lacaniano in Italia, ci sia riuscita questa legge.

    [8] Nel discorso lacaniano l’Altro ha funzione di mediazione e riconoscimento. Esso precede il soggetto entro le cui leggi esso si iscrive costituendosi. La domanda rivolta all’Altro esige il riconoscimento dell’Altro e si collega al desiderio del soggetto. Per capire quanto questa legge sia stata in realtà voluta, desiderata, dagli stessi analisti, è illuminante la lettura di un libricino “Psicoterapia e psicoanalisi”, supplemento a La psicanalisi, Astrolabio, Roma 1992.

    [9] Come se anteporre interessi istituzionali non compromettesse in partenza i difficili destini della domanda d’analisi.

    [10] Freud ha più volte ripetuto, in particolare in un testo del 1926 redatto in occasione del processo a Reik, Die frage der lainanalyse, che la formazione degli analisti non avviene mediante la trasmissione di un sapere costituito e non può quindi obbedire a dei criteri universitari, bensì analitici.

    [11] Gli analisti che continuano praticare la psicanalisi a dispetto della legislazione agiscono sotto la continua minaccia di una denuncia e questo pone degli ostacoli evidenti, in particolare quando si tratta di formare nuovi analisti.

    [12] Timore che a distanza di tempo possiamo confermare. L’ambiguità della legge ha favorito una interpretazione sempre più restrittiva e corporativa. Se per un certo periodo è stato possibile operare nel campo della psicanalisi perché gli psicanalisti che non si dichiaravano psicoterapeuti venivano assolti dai tribunali dall’accusa di esercizio abusivo della professione, dalla sentenza della Corte di Cassazione 2011, dove la psicanalisi è stata equiparata a una particolare forma di psicoterapia, lo spazio si è ulteriormente ridotto. Credo tuttavia che gli psicanalisti non possano accettare che la psicanalisi sia definitivamente inquadrata in una logica del tutto incompatibile alle premesse della sua esistenza.

    [13] Parere pro veritate sull’applicazione della legge 56 del 1989, in www.accademiaperlaformazione.it

    [14] Parlare dell’Accademia ci porterebbe fuori dai limiti del testo, ma se qualcuno è interessato lo rinvio a: www.accademiaperlaformazione.org.

    [15] Non includo qui il punto di vista giuridico che presenta una complessità supplementare proprio a causa della L.56/89. Tuttavia sull’articolazione del punto di vista giuridico c’è un progetto di lavoro del Coordinamento degli psicanalisti italiani.

    [16] C’è chi ipotizza almeno vent’anni!

    [17] E lo è non solamente perché è una legge corporativa, o perché garantisca dei diritti a un Ordine professionale che non c’entra nulla con la psicanalisi, ma perché è una legge che mette mano su un principio fondamentale - quello dell’autodeterminazione- dell’essere umano.

    [18] E perché allora non sarebbe parte essenziale del nostro compito civile il senso critico e la capacità di contestare la validità di norme che ci appaiono inadeguate, ingiuste e dannose? Vedi Roberta De Monticelli La questione Civile, Cortina Raffaello, Milano.

    [19] Corte Suprema di Cassazione, sez. VI penale, 11/4/2011 n.1440, in www.coopiweb.it.

    [20] Come è capitato nella storia con esempi più tragici della legge 56, uno Stato può emanare anche una legge totalmente illegittima come ha dimostrato Hannah Arendt nel suo imprescindibile libro sul processo Eickmann.

    [21] Il Coopi, coordinamento degli psicanalisti italiani, è un’associazione di categoria professionale che rappresenta la professione dello psicanalista. Per risolvere gli aspetti economici e fiscali non è necessario compromettere tutto l’impianto analitico e la nostra associazione ha elaborato alcuni principi di formazione e organizzazione nel rispetto dei requisiti previsti nella legge 4/2014.

    [22] È un segno della politica della psicanalisi il fatto che questa pratica viva e si diffonda unicamente in paesi democratici, il lavoro degli psicanalisti è laico perché non lo si può concepire se non in base a dei principi realmente liberali.

    [23] Ad esempio togliere il vincolo della laurea in psicologia e medicina. Togliere il significato legale ai diplomi universitari. Liberalizzare il mercato. Sarebbe già un buon passo, un passo che consentirebbe di non sentirsi al di sotto o al di sopra delle regole e senza aderire a una legge contraddittoria.

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