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  • Journalisme narratif
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (sous la direction de)
    Numéro monographique publié avec le parrainage de l'Ordre des Journalistes de Sicile

    M@gm@ vol.13 n.1 Janvier-Avril 2015



    VIAGGIO IN SLAVONIA PER TROVARE GLI ITALIANI
    Tratto dal volume Terre di guerre e viaggi di pace: con lo zaino in spalla nei paesi insanguinati della Slavia del Sud, con l'autorizzazione dell'editore Odradek di Roma.

    Giacomo Scotti

    scotti.giacomo@gmail.com
    Scrittore e giornalista. Nel 1948 cominciò a occuparsi professionalmente di giornalismo, dedicandosi anche alla letteratura e alla poesia. Per la sua notevole produzione letteraria ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti in Croazia, in Italia e in altri paesi.

    Fiume-Kutina-Plostine, febbraio 1993

    Partiamo per la Slavonia avendo per meta Plostine, il maggiore dei tre-quattro villaggi della zona di Pakrac-Lipik abitati prevalentemente da italiani, i cui avi giunsero dal Bellunese sul finire dello scorso secolo. Alla missione partecipano Sandro Zanetti, Marco Bruccoleri, Franco Senigallia, Daniela Zanella, Giuliana Muscio, Silvia Ferrari, Rossana Schio, Roberto Tomasello e il gigantesco Eros Zaggia detto Zaja. Andiamo con due auto e tre grossi furgoni carichi dei 420 colli per un totale di 4900 kg di generi alimentari e 120 coperte. Sono aiuti raccolti dai "Ragazzi di Padova" dai "Ragazzi dei Mestre", dalle Acli di Padova e dell'hotel "Apollo" di Montegrotto. Guidano i furgoni Armando Bruto, Alessio Zaninello e Andrea Galesso. Con me siamo in tredici.

    È da Capodanno che Marco mi teneva informato sui preparativi della spedizione, telefonandomi una sera sì e una no. Ai "Ragazzi di Padova" che da mesi collaborano con la "Duga-Arcobaleno" di Fiume io avevo parlato dei connazionali in Slavonia, in un territorio devastato dalla guerra nella sua fase iniziale ed ora compresa in una zona UNPA, fra due "confini" che tali non sono. Quella nostra gente, perciò, ha bisogno di un gesto di solidarietà, dissi. «Ci penseremo, forse riusciremo a fare qualcosa», rispose Marco.

    Alla vigilia della partenza da Padova, una sera tardi, l'ennesima telefonata di Marco: «A Mostar sono morti altri tre italiani, domattina alle cinque partiremo noi. Facci sapere dove ci aspetterai e se te la senti di venire. Da quelle parti non ci siamo mai stati». «Vi accompagno, vi aspetto sullo spiazzo antistante la stazione ferroviaria di Fiume». Quella stessa sera ho chiamato Plostine dove ci sono soltanto tre telefoni, e sono quelli portatili dei camionisti. Chiamo Slavko Borghelot, poi Bruno Nora perché avvertano il compaesano Tonci Brunetta, presidente della Comunità locale e della Comunità degli Italiani di far tappa a Kutina, distante 35 km da Plostine, per le operazioni doganali. E forse per trascorrervi la notte, perché si calcola di arrivare di sera.

    Partiti esattamente alle cinque del mattino, di sabato, il convoglio dei dodici ragazzi dovrebbe arrivare al confine di Pesek-Kozina non più tardi delle nove. Passano invece le ore e nessuno si fa vivo. A mezzogiorno Marco telefona finalmente: «Siamo a Mattuglie, vienici incontro». Ci incontriamo mezz'ora dopo.


    La città Croata di Vudokovar, foto di Goran Zikovic, quotidiano La voce del popolo di Rijeka-Fiume

    Sulla carta autostradale segnamo: Karlovac, Zagabria autostrada per Belgrado, pardon per Slavonska Pozega. Arriviamo a Kutina alle 18 ed è già buio pesto. II parroco, che rappresenta la "Caritas", sta a celebrare la messa. Il suo sostituto ci dà una mano per sbrigare le faccende burocratiche. Si va poi all'hotel "Kutina" per un collegamento telefonico con Plostine. Mi aiuta lo chef di cucina Gigi, originario di quel paese, e quindi italiano. Chiama non so chi, per poi dirmi: «Tutto a posto, non c'è che aspettare». Qualcuno da Plostine verrà a Kutina per incontrarci ed accompagnarci stasera stessa a destinazione.

    Alle otto di sera arrivano da Plostine Brunetta e Nora. Bruno Nora ha una macchina targata Belluno, lui fa il camionista per una ditta italiana, ma come tutti quelli di Plostine preferisce usare l'antico dialetto dei suoi avi.

    Tre automobili e tre furgoni fanno una lunga fila su strade tutte buchi e solo in parte asfaltate, attraverso boschi e campagne. Tonci Brunetta mi spiega che gli italiani in Slavonia sono milleduecento, dei quali cinquecento usano in casa e in paese il dialetto bellunese. Oltre a Plostine, abitato esclusivamente da italiani, i nostri connazionali si trovano anche a Banovac Veliki e Mali, a Kapetanovo polje (l'insegna del paese porta anche la dicitura: Campo del Capitano), a Ciglenica, a Lipik ed a Filipovac. Purtroppo, nella recente suddivisione territoriale questi villaggi sono stati aggregati a due diversi Comuni: Pakrac e Lipik, sicché in nessuno dei due riescono a raggiungere 1'8 per cento della popolazione. "Furbi i politicanti", dice un Plostinese.

    A 18 km da Kutina, altrettanti prima di arrivare a Plostine, dobbiamo fermarci a un posto di blocco vigilato dai caschi blu giordani. Qui comincia la Zona UNPA. Tonci Brunetta è conosciuto dai soldati delle Nazioni Unite, sicché il nostro convoglio passa senza eccessivi controlli. I caschi blu stanno lì per non far passare e uscire armi, e la zona dovrebbe essere disarmata. Una volta entrati nel territorio, incontriamo i caschi blu ancora una volta prima di Campo del Capitano, ma qui nessuno ci ferma.

    Tonci Brunetta, che nella fase iniziale della guerra comandò un'unità territoriale composta da uomini armati di quattro villaggi, compresi in essi un centinaio di italiani di Plostine e dintorni, ricorda che alla fine del '91 i villaggi italiani rimasero per lungo tempo accerchiati, posti fra barricate erette dalle popolazioni serbe insorte, ma su di essi non cadde una sola granata di mortaio, né fu sparata una sola raffica di arma automatica. Vissuti sempre in amicizia con Croati e Serbi, gli Italiani furono lasciati in pace.

    Qui i Serbi vengono chiamati dagli Italiani "Grechi", cioè seguaci della religione greco-ortodossa. Tuttavia la guerra ha causato la morte anche di alcuni nostri connazionali della Slavonia. Ci fanno i nomi di Renato Cavalli, di Ivica Baschiera e di ben quattro membri della famiglia Feltrin tutti di Mali o Veliki Banovac. Sono caduti nelle file di unità croate inviate al fronte. Un altro italiano caduto, Aco Bortoluzzi di Plostine, viveva a Pakrac dove fu ucciso da una granata sulla soglia di casa.

    I Plostinesi festeggiano i tredici venuti dall'Italia con gli aiuti: una cena con pane, formaggio e salame nell'edificio più bello e più nuovo del paese: l'ambulatorio, costruito l'anno scorso con i mezzi raccolti dai Bellunesi. Ci riuniamo in quello che sarà l'appartamento del medico. Se il Comune di Pakrac lo manderà. È passata la mezzanotte, quando, due per famiglia, si va finalmente a dormire. Domani, domenica, si scarica.

    Un contadino del luogo, allegro per la "sgnappa", attacca a cantare "La campagnola" come la cantavano suo padre, suo nonno e il nonno di suo padre. In poco più di un'ora scarichiamo i furgoni, riempiendo i locali di quella che un tempo fu come si legge sulla tabella esterna - l'osteria "Belluno". Tonci Brunetta e un altro giovanotto del paese ci fanno da guida per una visita alla zona. Dopo Plostine e Veliki Banovac, che non hanno riportato neppure una scalfittura, cominciano a susseguirsi i villaggi e le cittadine massacrate dalla guerra: Gornja Obrez: e Omamovac, già villaggi abitati da popolazioni serbe, sono totalmente distrutti, non una casa o una baracca, un pollaio, un forno, nulla è rimasto in piedi.

    Nei villaggi croati sono abitate una casa sì e una no, ma anche le abitazioni risparmiate dalla distruzione portano sui muri il segno delle raffiche. Le città di Pakrac e di Lipik sono semidistrutte dopo essere passate dall'uno all'altro dei contendenti. Nella via principale di Pakrac, dove ogni casa è crivellata di proiettili, ogni seconda è squarciata, il vasto complesso degli edifici dell'ospedale è un guscio vuoto: distruzione sistematica operata con mortai e col fuoco. Nessuno degli edifici pubblici e delle chiese è stato risparmiato. Tra Pakrac e Lipik interi villaggi sono stati cancellati dalla faccia della terra. Anche Lipik è in gra parte una città sventrata, ovunque un'immenso disastro: gli impianti delle terme sono una rovina. «E quello che vedete - ci dice un uomo non è lo specchio di quello che fu la guerra, perché molte case nel frattempo sono state ricostruite. Qualche fabbrica pure».

    Pakrac e Lipik sono cittadine semideserte, non vi è rimasto neppure un quinto della popolazione. Lipik contava 3500 abitanti, oggi ne restano meno di mille. A sindaco è stato eletto un italiano, Mario Zanetti, uno dei discendenti di quelle famiglie arrivate in questo territorio sul finire del XIX secolo dalle province di Belluno e Treviso. Arrivarono per lavorare nei boschi, rivelandosi però anche ottimi fornaciari e muratori; le loro case di mattoni erano e sono tuttora tra le più belle della regione.

    I Serbi furono cacciati da Pakrac e Lipik all'inizio di dicembre del 1991, ma i cannoneggiamenti sulle due cittadine continuarono fino al luglio del 1992. Appena da allora sono cessati i rumori della guerra. Qui però dicono che le colline continuano a brulicare di armati che avrebbero dovuto cedere le armi ai caschi blu dell'ONU. Il "confine" corre a 150 metri dal centro di Pakrac e noi ci siamo andati vicino, seguendo le Nazioni Unite in giro d'ispezione alla città. Sulla piazza di Pakrac si vedono due chiese, l'una distante dall'altra cinquanta metri: ambedue sono state sventrate, prima la cattolica dai serbi, poi la serba dai cattolici dopo che i Serbi erano stati cacciati sulle colline.

    Stranamente, però, nessuna strada ha cambiato nome, nessuna lapide "comunista" è stata abbattuta. Gli amministratori hanno altre gatte da pelare. Due poliziotti croati non ci degnano nemmeno di uno sguardo, sembrano assenti; la camionetta dei caschi blu passa e ripassa senza che gli occupanti si lascino distrarre dal chiasso che fanno dodici padovani, un fiumano e due Plostinesi parlanti uno strano italiano.

    Torniamo a Plostine quasi silenziosi, però, atterriti da quanto visto. Pranziamo nelle famiglie dei Plostinesi in silenzio. E quasi in silenzio ripartiamo poco dopo le due del pomeriggio. C'è la promessa di tornare in maggio per "el majo", la festa profana e religiosa del paese.

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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