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  • Journalisme narratif
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (sous la direction de)
    Numéro monographique publié avec le parrainage de l'Ordre des Journalistes de Sicile

    M@gm@ vol.13 n.1 Janvier-Avril 2015



    MICHELA/MIKI: STORIA VERA DI UN UOMO CHE NON SI È MAI SENTITO DONNA

    Anna Paola Lacatena

    annapaola.lacatena@tin.it
    Giornalista Pubblicista. Dirigente Sociologa I° livello presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto. Laureta in Sociologia presso l’Università La Sapienza di Roma.

    Introduzione

    Quella raccontata da un paziente del Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto, Michela prima e Miki poi, è la storia di un'infanzia difficile, consumata in una casa in cui la violenza e la scarsa attenzione nei confronti dei bisogni sono la cifra principale. La protagonista non accetta le sue sembianze femminili, non si sente donna, vive come se non lo fosse.

    Da subito, si percepisce uomo in un corpo femminile. Miki non è un personaggio frutto di fantasia, dove quest'ultima rischierebbe di essere superata per drammaticità dalla realtà. È una persona che non ha saputo né voluto coltivare una menzogna esistenziale. Inizialmente provandoci con tutta la rabbia verso la vita di cui Michela era capace e successivamente con la consapevolezza di non essere solo distruttività e rabbia.

    Il desiderio profondo di vedere realizzata la propria autenticità lo conduce al rifiuto di darsi in pasto all'annientamento completo decidendo, dopo un accumulo di sofferenze e rifiuti, di decidere chi e come essere nel mondo. Rifiutando il rifiuto, cercandosi profondamente, la sfida non è stata più contro il resto del mondo ma a favore di sé e, conseguentemente degli Altri.

    Particolarità di una storia particolare

    Conoscevo Miki, al tempo Michela, da ragazzina. Avevamo frequentato lo stesso oratorio. In quegli spazi, essendo piuttosto incline alla timidezza finivo sempre per occupare i margini del sistema festante e per i margini ho continuato, anche a distanza di anni, a provare un interesse particolare. Mi aveva addolorata ritrovare Michela tra i pazienti eroinomani del Ser.T. di Taranto. Avevo seguito l'evolversi della sua carriera tossicomanica e criminale. E nel tempo, avevo imparato a registrare anche i suoi cambiamenti fisici senza troppi stupori.

    Ciò che mi ha indotta alla meraviglia è la persona che è diventata, l’equilibrio e l’autenticità di cui si è fatto portatore. La volontà di uscire da certi percorsi di vita, l’assunzione di responsabilità e consapevolezza che gli ho visto maturare hanno portato il Servizio a invitare Miki a collaborare per progetti d’informazione e sensibilizzazione, soprattutto all’interno degli ambienti scolastici. L’ho visto impegnarsi seriamente per i malati di AIDS della mia città, collaborare con Associazioni e altri Servizi dell’Azienda Sanitaria Locale, ho ascoltato il suo narrarsi con la stessa attenzione e rispetto di tanti studenti.


    (Miki, 2014)

    Ho capito che la Michela che avevo conosciuto non esisteva più. Con l'approccio ibridizzato della raccolta della storia di vita, tra sociologia qualitativa e giornalismo narrativo ho cercato di eludere la trappola della valutazione ideologica o dell'assunto moralistico, provando semplicemente ad ascoltare ciò che emerso attraverso la voce del protagonista che si è fatto testimone privilegiato di fenomeni quali la dipendenza patologica da sostanze illegali, la criminalità, la detenzione, la contrazione dell'HIV, fattosi con gli anni AIDS, la transizione sessuale.

    Dell’importanza di questo percorso, strada facendo, ho avuto diversi assaggi. Nella sua partecipata rilettura del perché del racconto di una vita, ho capito che per Miki il senso è stato guardarsi indietro e dentro senza giustificazioni o sconti. Il suo raccontare episodi, sensazioni, frammenti di vita, riaprendo le ante, a volte malmesse, di vecchi armadi hanno consegnato al mio interlocutore una visione nuova. Forse anche solo, per la prima volta, una visione d’insieme.

    Ho avuto la sensazione un po’ da sociologa, un po’ da giornalista ma soprattutto da persona di avere a che fare con qualcuno che aveva messo da parte, e non solo per l’occasione, la tanto diffusa pratica del bluff. Mai ho avvertito in lui e nel suo raccontarsi la voglia di schermarsi, di proteggersi omettendo o, peggio ancora, mistificando la realtà. L’ho sentito recuperare ricordi con l’imbarazzo di chi fa fatica a riconoscersi in quello che è stato, personalmente ho cercato solo di farmi ascolto.

    In ogni frangente, però, ho contattato il suo desiderio di sfuggire alla trappola della possibile identificazione del lettore con l’eroe negativo. Ho guardato al suo passato e anche al mio. Se crescita è stata per Miki, non mi sento esente da ripensamenti e rivisitazioni anche di quella che è stata la mia esistenza.

    Due strade, due scelte differenti, eppure sono convinta l’Altro non è mai tanto diverso da noi. Cambia la risposta, il modo di interpretare le opportunità e i dolori che un’esistenza, qualunque essa sia, può proporre. I bisogni, però, sono gli stessi per tutti. Sono ritornata alla preadolescente che sono stata e che guardava a distanza, anche per paura, Michela conquistarsi un posto nel mondo a sgomitate e spintoni. Mi sono sorpresa della nitidezza di quel ricordo. Ho recuperato una curiosità che era rimasta, nonostante gli anni, intatta. Sono tornata a chiedermi ancora una volta il perché.

    Sono riuscita a trovare risposte. Ho rinsaldato, se pur ve ne fosse stato bisogno, il mio legame con l’idea che ciò che siamo non può prescindere da ciò che siamo stati e che la sceneggiatura della vita ci ha offerto nei suoi primissimi capitoli. È fondamentale che la società si renda conto dell’importanza delle esperienze maturate nei primi anni di vita in termini di conseguenze sull’intera esistenza dell’individuo. Come siamo stati attesi, trattati, cresciuti, visti, ascoltati, come noi stessi ci siamo guardati e percepiti si ripercuote sulla nostra vita e, conseguentemente, sulla società. La non accettazione di sé, la droga, la criminalità non possono non essere valutati come espressione cifrata di quelle esperienze che hanno accompagnato i nostri primi anni di vita.

    Non ho simpatia per la superficialità un po’ cinica di chi nega l'importanza della scoperta autentica di sé. Mi è più facile accordare il mio favore a chi fa della ricerca una modalità di vita. Nell’illusione dell’assenza di sfumature avverto, infatti, il rischio della banalità che uccide gli Altri e dunque se stessi. Ascoltando il raccontarsi autobiografico di Miki, mi sono convinta che non sia il dolore a renderci migliori ma le nostre risposte a questo e alla sua antitesi. Restando in guardia rispetto al peggiore dei rischi: quello della negazione di entrambi.

    Da Michela a Miki

    Cosa c'è di più normale della devianza? Nella sua accezione meno comune e più a-valutativa, la devianza riesce a descrivere e spiegare, forse meglio di qualsiasi altra situazione, tratti, atti e reazioni di una società. Ascoltare e riportare, ove necessario riordinandolo, il racconto dell'Altro non può, conseguentemente, non parlare di ciò che ognuno di noi è profondamente.

    Nella famiglia di Michela violenza e paura sono elementi che segnano il quotidiano, minando la fiducia nella vita. Questa una sua poesia scritta ad appena dodici anni:


    Queste le sue parole, oggi, nel ripensare a suo padre:
    «Non lo odio più.
    Non l’ho mai odiato veramente.
    Non ero cattiva. Semplicemente non mi sentivo una bambina.»

    Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, psicofarmaci e droghe inducono il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omologazione.

    È possibile sostenere che quando il sociale non è più praticato, il privato resta senza ricambio d'aria. La domanda che ci si pone è se può esistere una cura, una possibilità di riappropriazione di quel Sé autentico, capace di rimettere in equilibrio il sentire profondo. Forse la strada è proprio quella dell'esperito, del percepito, del sentito. Né situazioni che coprono il sintomo, né percorsi che possono problematizzare qualsiasi esperienza. Semplicemente provare a ripercorrere, in condivisione con gli Altri, ciò che ci è accaduto, in una sorta di rituale infantile che ridisegni e conformi la nostra identità di adulti.

    Miki si sofferma di quel mondo che non può non influenzare la costruzione del Sé. Lo fa senza risparmiarsi la scomodità di verità forti, ripercorrendo scelte e condotte che hanno messo a rischio se stesso e gli altri e riassumendosi, in questo percorso a ritroso, fatto di dolore, di un'autodistruzione (di decisione e di default) mai veramente compiuta fino in fondo.

    «Non è la droga che cerca te. Sei tu che ti porti dentro un appuntamento al quale, prima o poi, ti presenterai. Saranno le tue credenziali che ti permetteranno di essere riconosciuto idoneo e immediatamente arruolato

    La carriera tossicomanica di Michela è segnata dall'incontro, senza passaggi attraverso le cosiddette droghe leggere, con l'eroina prima e la cocaina poi. Sono gli anni in cui i tossicodipendenti gestiscono in proprio la sostanza, rifornendosene direttamente alla fonte. Dal Venezuela arriva quella consumata da Michela e dal suo gruppo. Non durerà. Ben presto, infatti, la criminalità organizzata esautora i consumatori, avocando a sé la vendita e il controllo degli stupefacenti.

    Sono frangenti di scontri e conflitti che vedono Michela protagonista. Ben presto la stessa resta invischiata nelle trame della criminalità organizzata tarantina degli anni '80 con ruoli piuttosto prestigiosi per una donna. Le armi, lo spaccio, gli scippi, tutto è collegato alla droga e alla necessità di procurarsela. Non si può, però, pensare di farla sempre franca. Poco più che adolescente, Michela impara a conoscere quella palestra di durezza e soprusi che solo la strada è in grado di rappresentare. La pena più lunga è comminata per il reato di sequestro di persona. Appena ventenne, entra in carcere e anche qui si cuce addosso il ruolo di leader forte e autoritario.

    «Sentivo i detenuti gridare. Di giorno e di notte, erano sempre urla strazianti cui non riuscivo a dare una spiegazione plausibile. Se pure ve ne fosse stata una. Guardiane, Vigilatrici e poi Agenti di Polizia Penitenziaria. Questa è stata nel tempo l’evoluzione di chi ha avuto e ha la responsabilità di custodire e immobilizzare corpi. Perché è questo, nella maggioranza dei casi, il carcere

    Miki racconta il suo essersi sentito escluso, "disturbo" per gli altri, ridondanza sociale per chi non vuole provare a comprendere (dal latino cum con e prehendere prendere) ossia includere, capire, riorganizzare e ridisegnare ogni assetto precedente. Un uomo in un corpo di donna nelle sezioni femminili, paradosso di una società incapace di guardare con senso del realismo. Essere uomo nell'impossibilità di sentirsi riconosciuto come tale lo spingeva ad accentuare quegli aspetti di un maschile poco sano, violento, costruendo la propria identità su tratti parossistici.

    «Ho avuto il mio seguito, ho conosciuto la noia di tante detenute, ho fatto conoscere a loro e ad alcune agenti il piacere che può donarti una persona che si sente uomo in una sezione femminile. Spesso l’ho fatto tanto per, ma qualcuna l’ho amata veramente. L’omosessualità è diffusa in certi ambienti. Alcune la praticano perché non ci sono alternative, io perché avevo scelto le donne. E non è la stessa cosa. Sei più credibile, più ricercata. Forse puoi addirittura regalare più gioia a una donna di un uomo. Nella sezione maschile l’omosessualità è praticata alla stessa maniera ma è tenuta nascosta. È fisica. È tra uomini. Nella sezione femminile è quasi ostentata. Vai in giro mano nella mano, ti scambi effusioni in pubblico. Una delle due rimane una donna. L’altra recita il ruolo dell’uomo, e nei suoi aspetti peggiori

    Avvertire il desiderio ma più ancora assecondarlo di raccontarsi è, inequivocabilmente, il segnale di un bisogno di consapevolezza che orienta all'età adulta. Organizzare il passato, vivere il presente, riprendendo l'enorme patrimonio accumulato in termini di eventi, circostanze, affetti e predisporne una visione diretta, capace di ridimensionare lo strapotere dell'Io, forse, è questo entrare, al di là di aspetti anagrafici pre-definiti, nell'età adulta. Con il passare degli anni, nella vita di Miki si affermano due presenze indesiderate almeno quanto impreviste: HIV prima, AIDS dopo solo pochi anni. Siamo nel 1984 in una società impaurita da ciò che da subito sembra seminare solo morte. I farmaci sono ancora in fase sperimentale e riuscire a salvarsi dalla mattanza seminata dal virus tra tossicodipendenti e mondo LGBT non è facile.

    «Spesso, più la malattia è grave minore è il numero dei segnali che è disposta a mandare. Esperta della strategia di guerra, opera nell’ombra, minando il numero e la resistenza di quei soldatini deputati a difendere l’intero accampamento. Poche informazioni, neanche l’ombra di un farmaco, all’inizio fu solo la comunicazione di un medico del Ser.T. dal camice bianco, fattosi toga nera, che, scorrendo un lungo elenco di nomi, arrestava l’indice a ogni segno “+”. Una scrivania tra dottore e paziente che, come per nessun’altra malattia, è distanza e protezione. “Sei risultata positiva al test." Poche parole, accompagnate da una dose ancora più ristretta di sensibilità, a porre l’accento sulla nostra comune ignoranza in merito. Con una differenza: per lui non cambiava niente. Per me, ogni possibile giorno futuro

    Qualcosa di diverso, di pressante e minaccioso, però, comincia farsi strada nella sua mente e nel suo corpo. Se l’infanzia può essere negata, anche l’identità può restarne ferita quando non del tutto indefinita. La sessualità costituisce una componente identitaria, socialmente riconosciuta, che spesso entra in contrasto con la dimensione interiore. Michela esteriormente e Miki interiormente. È un destino incontrovertibile o ci si può liberare da un ruolo assegnato ma rivelatosi conflittuale rispetto alla parte più profonda e autentica di sé? Un carcinoma maligno dell'utero è ciò che conferisce a Michela il desiderio-necessità di cancellare quella parte femminile che in lei, e da lei, non è mai stata accettata. Se il corpo non mente, finendo per lanciare messaggi sempre più chiari, la mente non può non beneficiare dello squarcio sulla menzogna esistenziale.

    «Quando all’Istituto “Spallanzani” di Roma mi comunicarono che nel mio utero era stata riscontrata la presenza di una lesione squamosa di alto grado, ossia un carcinoma maligno (...) sentivo il mio corpo e la mia mente sballottati, senza un punto di partenza e meno che meno di arrivo. Capivo solo che il viaggio poteva concludersi in quel momento, con uno schianto dopo un lungo precipitare. (...) mentre mi comunicavano la possibilità della completa rimozione del mio “femminile”, ho sentito un moto di reazione misto a entusiasmo. (...) Finalmente mi sarei liberata da un’identità che non avevo mai sentito mi appartenesse. La morte cui sarei andata incontro non era la mia ma quella di Michela. Se qualcosa finiva, qualcos’altro poteva finalmente iniziare

    Ciò che porta Michela a decidere per la transizione sessuale è la crescente consapevolezza, instillata da alcune importanti figure femminile (una suora, una direttrice del carcere, la nuova compagna Marilena), che l'armonia tra apparenza ed essenza va ricercata, pena l'autodistruzione.

    «Forse questo Paese non può ancora permettersi di accettare varianti al tema della cosiddetta normalità. (...) Maschio o femmina alla nascita, tale devi rimanere per tutta la vita. Se questa cosa ti fa soffrire, al mondo non interessa. Vivitelo come vuoi, ma senza che quel dolore faccia troppo rumore. Quante menzogne consumate in pubblico, quante verità rivelate nel privato. La vita è un dono di Dio e su questo nessuno, oggi, potrebbe mai farmi cambiare idea ma non riesco a credere che quel Padre buono e onnipotente, tra il bianco e il nero, non abbia previsto sfumature

    Forte della fiducia concessale da una Direttrice del Carcere di Brindisi, nel corso di una delle tante detenzioni, dell'amore di una donna che per lei abbandona marito e figli, sfidando tutto e tutti, Miki rinnegando ogni menzogna esistenziale è riuscito ad imparare cos'è l'amore per se stesso e per gli Altri. Nella voglia di sentirsi "compreso", di rimediare attivamente agli errori del passato, di non guardare al prossimo come oggetto di predonerie e soprusi ma anche nel desiderio di non sentirsi più vittima del mondo e per questo in parte carnefice di sé e dello stesso, Miki è riuscito a trovare la propria strada. Terapie ormonali, interventi demolitivi, il cambio di nome sui documenti dopo un lungo lavoro psicologico e psicoterapeutico gli hanno dato, oggi, quella piena e finalmente corrispondente immagine di sé anche agli occhi del mondo.

    Raccontarsi per Miki è stato rinnovare momenti di dolore e sofferenza ma anche farsi dono della consapevolezza che nulla deve essere rimosso, condannato o taciuto. La verità di cui si è fatto io narrante è anche la sua forza, la sua determinata voglia di non negare nulla del suo passato per poter provare a dargli un senso e una direzione differenti. Raccontarsi è stato un modo per ridisegnare la propria vita automedicandola. Questa volta nella lucidità di chi ha abbandonato da anni stampelle chimiche.

    Questa è la sociologia in cui credo, il giornalismo narrativo che ho cercato di proporre. È conoscenza che procede per approssimazioni, nel pieno rispetto dell'importanza di elementi come la motivazione, il linguaggio, i significati. Non si può pensare di comprendere l'uomo e le relazioni sociali escludendo, quando non sacrificando del tutto, il fattore umano sull'altare di una presunta scientificità fatta solo di numeri e grafici.

    Dotare di senso profondamente l'esperienza del dolore, attraverso il racconto non solo è il modo per ipotizzare possibili nuovi scenari ma anche per migliorare la condizione stessa della persona. La sociologia che informa e prova a rendere liberi, il giornalismo narrativo che racconta ciò che altrimenti sarebbe precluso alla conoscenza oggettiva, l'autobiografia come terapia. È un po' questo che ho cercato, sia pur modestamente, nell'ascoltare la storia di Miki.

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

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