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  • Lo sport dans les sciences sociales : de chimère à réalité
    Marco Pasini (sous la direction de)

    M@gm@ vol.11 n.1 Janvier-Avril 2013

    LE DONNE E LO SPORT DAL DOPOGUERRA A OGGI


    Eugenia Porro

    eugenia.porro@uniroma1.it
    Dottore di Ricerca in Teoria e ricerca sociale. Università Sapienza di Roma – Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale.

    1.Premessa

    Lo sport come rappresentazione della cultura sociale si può legittimamente configurare come una vera e propria istituzione, in cui convergono dinamiche di status, ruolo, identità, a loro volta chiavi di lettura del mutamento sociale (cfr. Robertson, 1988, p. 90). Risulta quindi interessante indagare il suo rapporto con il genere e le donne per ricevere risposte di tipo socio-culturale in cui si intrecciano fenomeni tipici della cosiddetta postmodernità come la mediatizzazione, la commercializzazione, la professionalizzazione, ma anche caratteristiche specifiche che hanno a che fare con l'emancipazione femminile, i diritti, la rappresentazione del corpo.

    Soprattutto alla luce del fatto che il connubio donne e sport sembra in Italia ancora rimandare a un immaginario relegato per secoli a una sorta di mitologia collettiva impressionistica e immaginifica dovuto a uno sviluppo lento della sociologia dello sport e della sociologia di genere nel paese.

    L’indagine si presenta significativamente difficile, anche dal punto di vista della rilevazione empirica, qualitativa e quantitativa, perché le informazioni – soprattutto quelle relative ai primi decenni postbellici - sono più scarse e meno organizzate rispetto a quelle che descrivono l’universo competitivo maschile.

    Basti pensare che le prime rilevazioni Istat risalgono al 1959 e ancora nella seconda decade del XXI secolo lo spazio riservato nelle statistiche ufficiali alla dimensione di genere appare assai carente.

    Persino indagini a scala continentale come quelle fornite da Eurobarometro – la più recente è del 2009 - si limitano spesso a fornire dati statistici aggregati di tipo sinottiche che non approfondiscono la scomposizione per genere all’interno dei Paesi considerati nel campione.

    Soprattutto, però, si terrà presente il concetto di campo [1] ipotizzato dal sociologo francese Pierre Bourdieu che riposiziona l’analisi del fenomeno sportivo all’interno di un vero e proprio programma per una sociologia dello sport. Si viene così a creare, secondo il sociologo francese, un universo simbolico e, con esso, un'economia simbolica determinata in ogni campo sociale dalle prospettive del dominio maschile. In questo sistema culturale rientra a pieno titolo anche lo sport.

    Proprio la pratica sportiva, infatti, si configura quale rappresentazione sociale che investe in particolar modo il rapporto tra le donne e il corpo. Il corpo si fa terreno privilegiato della percezione sociale femminile e ne esprime l’essere sociale, anche quando si tratti, per usare la formula di Bourdieu, diun essere-percepito, sottoposto alle logiche del dominio maschile.

    Tuttavia, tale ottica presuppone che un fatto sociale possa essere compreso solamente tramite complesse relazioni di opposizione e congruenza con altri fatti sociali, non tenendo conto delle convenzionali ripartizioni tra domini disciplinari. Non si potrà dunque elaborare un’analisi che, concentrandosi su una sola tipologia di pratica, la isoli dal sistema globale delle pratiche sportive. Soprattutto è necessario assumere che lo spazio sociale degli sport è a sua volta incluso in un universo di pratiche e consumi strutturati in sistemi e sottosistemi. Da un punto di vista scientifico è dunque fuorviante, nel nostro caso, parlare di sport in senso lato. Occorre invece adottare una prospettiva che intende il nesso tra lo sport e il genere come espressione di fenomeni sociali più ampi, capace di fungere da sensori del mutamento sociale.

    Gli stessi indici e indicatori statistici vanno così metodologicamente riferiti alla suddivisione interna tra la pratica di base che racchiude in sé la pratica sportiva (anche non competitiva) – definita nella letteratura sociologica anglosassone come grassroots - e quella invece dello sport di performance. Discende da qui la differenziazione fra sistema della prestazione assoluta, dove l’atleta si rappresenta come un attore orientato alla produzione di un risultato, e area della prestazione relativa, dove la dominante è costituita dalla gratificazione immediata che il praticante ricava dall’attività. Questa distinzione è concettualmente rilevante proprio in relazione alle diverse modalità di azione che interessano gli universi di genere e, indirettamente, lo sviluppo di rivendicazioni dei diritti delle donne in campo sportivo, così come il rapporto con fenomeni come la mediatizzazione o la politicizzazione dell'universo sportivo femminile.

    2. Un primo sguardo sulla pratica sportiva femminile grassroots [2]

    Le scienze sociali hanno a lungo trascurato, non solo ma specialmente in Italia, le potenzialità offerte dalla ricerca sulla pratica sportiva come sensore del mutamento culturale. La condizione femminile, le dinamiche di emancipazione che riguardano l’esercizio della corporeità, le relazioni sociali connesse alle forme organizzative del sistema sportivo, hanno sofferto in modo particolare di questa protratta latitanza dell’analisi empirica.

    Il nostro istituto di statistica ISTAT, pur giudicato da decenni uno dei più prestigiosi e meglio organizzati al mondo, ha atteso sino al 1959 per produrre una prima timida sperimentazione applicativa al fenomeno. Pur nei limiti di una rilevazione pionieristica e in assenza di strumenti collaudati d’indagine, lo studio faceva emergere un quadro d'insieme eloquente e deprimente, soprattutto se paragonato a quello offerto da altri paesi europei e se rivolto allo specifico della pratica femminile.

    La stima statistica, così come consentita dalle procedure di proiezione allora in uso e relativa alle interviste condotte su un campione rappresentativo della intera popolazione italiana, segnalava appena 1.300.000 praticanti. Una stima prodotta da una rappresentazione del fenomeno ancora concettualmente approssimativa, ma che riflette lo stato di avanzamento dell’indagine empirica del tempo. In breve, il fenomeno risultava interessare meno del 3% della popolazione nazionale – per l’esattezza il 2,6% -, dato reso più ambiguo dal fatto che circa un terzo dei rispondenti identificava la propria ‘pratica sportiva’ nell’esercizio di una specialità sui generis, e di dubbia ascrizione al sistema dello sport, come la caccia.

    Ancora più sconfortante risultava il dato relativo all’universo femminile: in quota di composizione sul totale dei praticanti le donne rappresentavano appena il 9,2% del totale dei ‘soggetti attivi’.

    La forte incidenza delle attività venatorie, all’epoca quasi esclusivamente appannaggio dei maschi, costituiva certamente un potente fattore di distorsione del dato relativo alla pratica femminile. Anche ricalcolando i valori percentuali in rapporto a questo significativo elemento di disturbo eravamo comunque ancora a livelli assai modesti e sideralmente lontani dalle medie internazionali dei Paesi sviluppati.

    La complessiva composizione del sistema delle pratiche aiuta a comprendere ulteriormente le ragioni di questo profilo, ma non ne altera il panorama generale. Consente, caso mai, di meglio contestualizzare il dato di partenza, l’unico disponibile, di una riflessione sulla parabola delle attività e dell’intensità di pratica nel secondo dopoguerra [3].

    È solo negli anni Sessanta, e con più vigore dalla seconda metà dei Settanta, che lo sport si afferma anche in Italia come fenomeno sociale relativamente diffuso. Dai primi anni Ottanta le Indagini Multiscopo dell'Istat consentono finalmente una rappresentazione più accurata del fenomeno e del suo profilo demografico. Nel 1982 la quota stimata dei praticanti è salita al 15,4% sul totale della popolazione di età superiore ai sei anni; nel 1985 siamo già al 22.2%, dato che si consolida nel 1988 (22,3%), quando il calcolo si riferisce alla popolazione superiore ai tre anni (secondo i precedenti criteri saremmo al 22,9), pur in presenza del calo demografico che incomincia a interessare le fasce di età giovanili.

    Con gli anni Novanta la partecipazione sportiva italiana si stabilizza e si assiste a una crescita costante anche della femminilizzazione: le donne sportive sono già agli inizi degli anni Novanta oltre un terzo del totale e risultano in maggioranza in specialità come la ginnastica artistica e la pallavolo. Non a caso nel tempo decresce anche la percentuale di sport tradizionali come il calcio a favore di specialità emergenti (pallavolo e nuoto) e di pratiche a basso tasso di competitività, più rispondenti al paradigma culturale dello sport espressivo e del modello sportivo seguito dalle donne.

     Certamente negli anni Novanta lo sport entra stabilmente e consistentemente nel costume e nei consumi sociali, e la pratica diretta - orientata a modalità parzialmente innovative rispetto al passato - si avvicina ai valori caratteristici di società di più antica tradizione sportiva e di più elevato livello di reddito. L’espansione della pratica femminile rappresenta allo stesso tempo una delle ragioni più significative di questa dinamica e un indicatore sensibile della sua fenomenologia.

    3. Uno sguardo alle statistiche

    A un’osservazione immediata sembra che il rapporto tra la pratica sportiva e le donne richiami quegli stessi paradigmi che un secolo prima i sociologi avevano utilizzato per spiegare il rapporto tra gli uomini e lo sport.

    Recuperando un’intuizione di Simmel a cavallo fra XIX e XX secolo, lo sport si configura alla fine del Novecento, in Europa e in Italia, come un gioco sociale dove la stessa società si mette in scena, rappresentando bisogni espressivi inediti e il desiderio degli individui di interpretare più creativamente i ruoli agiti nel sistema sociale.

    In questo senso, le teorizzazioni di fine Ottocento da parte del sociologo americano Thorstein Veblen (1899) anticipano abbastanza fedelmente quello che accadrà circa un secolo dopo nell'universo femminile.

    La sua teoria della leisure class attribuiva infatti il dominio dello sport alla nuova borghesia, incarnando criteri della divisione sociale rappresentati dallo sciupio vistoso in cui rientrava anche la pratica sportiva.

    La cosiddetta leisure class era quella che poteva disporre di tempo e denaro da spendere anche in passatempi ‘oziosi’, come appariva lo sport agli occhi dell’arcigno critico sociale.

    Solo con la tarda modernità e con la seconda ondata dell'industrializzazione si è potuto convertire questo sistema di credenze e il relativo rapporto con lo sport, quando il tempo libero ha cessato di costituire il privilegio esclusivo di pochi, fino a diventare una necessità ‘socialmente riproduttiva’ contro la routinizzazione della vita e del lavoro.

    Come altresì sostengono proprio negli anni '80 del Novecento Elias e Dunning, lo sport e in generale la dimensione del loisir, attraverso l'eccitazione emotiva, rispondono a un bisogno socialmente universale. Il bisogno di deroutinizzazione, appare loro un'occasione di rottura e una forma di risposta reattiva alla pressione e all'uniformità della vita di non-loisir (Elias e Dunning, 1989, p. 271). In questa accezione epistemologica, lo sport va interpretato come una delle pratiche di riappropriazione dell'individualità che meglio si adattano alla donna del secondo dopoguerra, soprattutto alla luce di quello che sostiene lo stesso Bourdieu: «i consumi sportivi non possono essere studiati indipendentemente dai consumi dietetici o dai consumi del tempo libero in generale» (Bourdieu, 1988, p. 167).

    Tra i sensori del mutamento culturale di una comunità è dunque lecito inserire la pratica sportiva femminile. Lo conferma negli anni 1995-2000 un'ulteriore indagine ISTAT che, anche grazie al miglioramento degli strumenti di rilevazione, permette di tratteggiare in modo più dettagliato la fotografia della popolazione italiana dal punto di vista sportivo, suddividendo coloro che praticano sport in modo continuativo o saltuario rispetto a quanti, pur non svolgendo alcuna attività, si dedicano comunque a pratiche affini come passeggiare, nuotare, andare in bicicletta.

    In base a questa nuova suddivisione, si va a delineare un livello ancora modesto della pratica sportiva continuativa che raggiunge il 18,2% sul totale della popolazione. I maschi sono rappresentati per il 22,7% e le femmine per il 13,9% (D'Arcangelo, ibidem).

    Interessante notare che, rispetto alle rilevazioni Istat, tra il 1995 e il 2000, l’attività sportiva continuativa aumenta più per le donne che per gli uomini: +2,9 punti percentuali contro +1,9 punti percentuali.

    La pratica saltuaria aumenta solo di poco per entrambi i sessi, mentre il livello di attività fisica in genere sembra diminuire a discapito più degli uomini, 5 punti, che delle donne, 3,1 punti. 

    Questo significa che “la quota di coloro che non praticano sport né attività fisica è aumentata di 2,1 punti percentuali tra i maschi, mentre è diminuita di 0,7 punti per le femmine” (Istat, 2000).

    Tuttavia, le donne hanno anche il primato della sedentarietà, addirittura con il 43,5% nel 2000.

    Quest'ultimo elemento è particolarmente importante perché affiora in modo così forte proprio in quest'ultima indagine e, come si vedrà, avrà negli anni successivi un’incidenza sempre più consistente sulla pratica sportiva complessiva del Paese. In estrema sintesi, emerge una configurazione della pratica femminile come fenomeno in espansione, ma assai meno strutturato e meno ancorato a modalità di fruizione proprie del sistema di prestazione. Ciò dipende da ragioni ancora una volta riconducibili in prima istanza all’obiettivo svantaggio della condizione della donna italiana, che rispetto ad altri contesti nazionali risulta meno sostenuta da politiche pubbliche di supporto alle attività di cura familiare e di offerta di servizi dedicati. Ma gli indici che rappresentano il rapporto tra lo sport e il genere hanno una rilevanza anche in rapporto ad altre variabili socio-demografiche quali la suddivisione per fasce d'età.

    Esiste nel periodo osservato un incremento in tutte le fasce di età, ma più forte per la coorte generazionale dei 15-17enni (9,5 punti percentuali), in cui la propensione all’attività sportiva tende a strutturarsi entro forme organizzative e di gestione delle opportunità meno approssimative. Approfondendo l’analisi per sesso e classi di età si nota come per gli uomini la crescita sia stata maggiore tra i più giovani (oltre dieci punti percentuali tra i 15-17enni e 7,6 punti tra i bambini di 6-10 anni) e nelle età adulte, in particolare nella fascia 55-59 anni, dove si registra una crescita di 5,5 punti percentuali. Sul versante femminile la crescita più forte si riscontra tra le piccolissime e tra le 15-19enni (oltre 9 punti percentuali nella fascia tra i 15 e i 17 anni e 7,3 punti percentuali tra i 18 e i 19 anni).

    Tra i giovanissimi pertanto i livelli di sedentarietà (sia maschile sia femminile) non sono ancora allarmanti, ma già rilevanti nella fascia degli under 19: un ragazzo su cinque e una ragazza su quattro non praticano sport. In questo caso il dato pare in controtendenza rispetto a quanto affermato in precedenza sul tempo libero e all'evoluzione della società stessa, se vista in prospettiva futura. Si conferma invece nelle età adulte, ma è marginale in quelle anziane, dai 65 anni per i maschi e dai 60 per le femmine. In sostanza il processo di invecchiamento ha riflessi soprattutto sulla popolazione sportiva maschile, che parte da una base di partecipazione maggiore ma trova difficoltà a incrementarsi. Le donne, invece, partendo da valori nettamente più bassi. offrono un margine di miglioramento maggiore, contando soprattutto sul potenziale delle giovanissime, che però presentano dopo i 19 anni una quota di abbandono (drop out) assai più elevata di quella maschile. 

    Nel primo decennio del 2000 le indagini statistiche fungono ancora da cartina di tornasole del divario nella pratica sportiva maschile e femminile, come viene rappresentata dalle rilevazioni del 2000-2006 e poi 2006-2011.

    In questo periodo la pratica sportiva continuativa tende peraltro a crescere anche se non in modo considerevole: +2,3% (2000-2006) e +1,5% (2006-2011).

    In sostanza il divario tra la pratica maschile e femminile rimane comunque un dato da segnalare, seppur negli anni si siano raggiunti livelli quasi impensabili da quanto veniva rilevato nel 1959, i dati mostrano come ci sia ancora molto da fare per raggiungere una forma di parità tra i sessi nello sport grassroots.

    Una seppur sommaria spiegazione di questo si può rintracciare in due ordini di fattori: il primo riguarda la differenza abbastanza netta tra i dati della pratica discontinua e quella continuativa che si possono far risalire ancora una volta al problema tempo-famiglia delle donne. In concreto: alla maggiore difficoltà per le donne di organizzare il proprio tempo libero quando optino per attività, come quelle sportive di competizione, che richiedono un impegno quotidiano e programmabile.

    Il secondo è di tipo motivazionale e consiste nel diverso rapporto con lo sport e il genere, come suggerito dalle ancora scarse indagini motivazionali in materia. Gli uomini praticano sovente sport per piacere o passione, con un approccio espressivo, mentre le donne sono maggiormente spinte da intenzionalità strumentali quali il benessere fisico o il mantenimento della forma. Infatti, osservando le tipologie di sport praticati,  mentre per gli uomini predomina sempre il calcio, mantenendo una tendenza pressoché invariata negli anni, per le donne si situano ai primi posti la ginnastica, l'aerobica, il fitness e la cultura fisica in generale. Seguono gli sport acquatici, la danza e il ballo.

    In generale la panoramica descritta definisce in modo particolarmente eloquente persistenti fattori ostativi che riguardano soprattutto la pratica femminile, cumulandosi con gli effetti di carenti politiche sociali nell’ambito del supporto alle famiglie e alle donne lavoratrici. Visto che secondo l'annuario dell'Istat nel 2011 la situazione permane inalterata, con una media di uomini praticanti pari al 38,6% contro il 25,9% di donne in tutte le fasce d'età, si potrebbe sostenere che anche nel campo sportivo servirebbero profondi cambiamenti culturali o sociali per ridurre o eliminare definitivamente le differenze di genere.

    Lo sport italiano risulta del resto particolarmente plasmato dai media, nell’offerta di intrattenimento, nelle opportunità stesse di socialità e nel sistema dei consumi tipici dell’immaginario maschile: dalla cultura del campionismo e dello sport spettacolo, dalla permanente sottovalutazione delle potenzialità della pratica come volano di inclusione sociale e così via. Si tratta di un sistema profilato su tempi, bisogni comunicativi, modalità culturali e abitudini che sono in larga misura propri dell’universo maschile e ben poco compensati da pratiche di incoraggiamento all’avviamento e, ancora più, al mantenimento in età post-adolescenziale (drop out delle giovani atlete) della pratica femminile. Questo panorama non manca però negli ultimi anni di riservare sorprese proprio ai livelli di alta prestazione, che rappresenta l’altro punto focale della riflessione qui proposta.

    4. Le donne e le competizioni agonistiche

    Come si è evidenziato nell'analisi dei dati e a dispetto dallo scenario appena descritto, l’espansione della pratica femminile a cavallo tra il XX e il XXI secolo conferma un interesse sempre maggiore delle donne per l'attività fisica in generale. Tendenza che si accompagna però a una minore persistenza alla pratica che rende le donne “sportive” con intensità di pratica e continuità nel tempo significativamente inferiori ai valori registrati dagli uomini. Appare perciò interessante sviluppare una comparazione diversa, relativa ai risultati di alta performance, come evidenziata dal boom delle azzurre ‘a medaglia’ in occasione delle Olimpiadi di Pechino 2008, e in parte di Londra 2012, dove le donne conseguono successi finalmente paragonabili a quelli dei colleghi maschi.

    Le donne iniziano a praticare con relativa continuità lo sport competitivo solo a partire dal Novecento avanzato, facendo intuire come la costruzione sociale del genere fosse ancorata alla convinzione – condivisa dallo stesso barone de Coubertin - che la ‘natura maschile’ fosse più adatta allo sport di prestazione. Le donne vengono ammesse alle competizioni olimpiche per la prima volta alle Olimpiadi di Amsterdam nel 1928, nonostante la loro presenza nelle discipline sportive fosse già in aumento a partire dai primi anni Venti, seppure con notevoli differenze nei diversi settori e a seconda dei Paesi. Nel ciclismo, per esempio, il primo campionato mondiale femminile si terrà solo nel 1957 e il primo Giro d’Italia nel 1987, sebbene sin dalla Prima guerra mondiale l’uso della bicicletta fosse assai diffuso tra le donne. Anche il calcio – lo sport maggiormente praticato in Europa, ancora oggi prevalente appannaggio degli uomini – si diffonde tra le donne in USA già dai primi del Novecento. L’idea di una proprietà maschile di alcuni sport viene a volte rapsodicamente smentita nella prassi anche da esiti eclatanti, come, per esempio, il risultato dell’atletica leggera ai mondiali di Siviglia del 1999 in cui il numero di vittorie femminili per le atlete italiane fu pressoché pari a quello maschile (cfr. G. Gianturco-E. Porro, 2009, p. 220).

    Anche in questo caso, l'analisi di alcuni dati statistici – focalizzandoci sulla partecipazione ai Giochi Olimpici - può essere di aiuto. Infatti la partecipazione delle donne alle Olimpiadi cresce negli anni, considerando soprattutto il lasso temporale che va dal secondo dopoguerra a oggi (1960-2012), passando da sole 34 donne presenti nella nazionale italiana a Roma '60 a ben 131 con Pechino 2008 dove si registra un vero e proprio boom delle presenze femminili, confermata dall'edizione successiva di Londra 2012 con 126 atlete. Questo significa che rispetto a venti anni fa le donne partecipanti alle Olimpiadi sono raddoppiate, rappresentando il 43,3% del complesso degli atleti, ma soprattutto descrivendo in tal modo un'evoluzione culturale del Paese molto più interessante del puro dato numerico.

    La presenza olimpica femminile è sicuramente meno consistente di quella della nazionale maschile, la quale peraltro dai 241 atleti nel 1960 giunge a 215 presenze nel 2008 e va diminuendo ancora con Londra 2012 con 164 atleti maschi. Il crescente numero di atlete è tuttavia di grande rilievo se si considera il protratto ritardo che le donne dell’alta prestazione hanno dovuto colmare nella seconda metà del Novecento. Infatti, mentre per gli uomini la partecipazione ai giochi non ha un andamento costante, pur mantenendosi su livelli alti di prestazione, la curva che descrive il trend femminile è in ascesa continua.

    Suddividendo questi dati in decadi, si può notare come il boom delle sportive si possa far risalire agli anni Novanta del secolo XX quando in soli quattro anni, da Seul 1988 a Barcellona 1992, le italiane che partecipano ai giochi olimpici passano da 42 a 78.

    Lo stesso fenomeno, a dir il vero, avviene in ogni passaggio di decade anche se il dato relativo a Roma '60 è sicuramente influenzato dal fatto di appartenere al paese ospitante. Ma non a caso, tra gli anni Settanta e Ottanta, si passa da sole 27 donne alle 47 di Montreal.

    L'evoluzione della partecipazione agonistica e competitiva delle donne sportive nel paese esprime quindi un mutamento costante e una continua ascesa che non si manifesta soltanto nel numero delle partecipanti, ma anche attraverso segnali culturali come quelli che riguardano la mappa coniugale dal momento che sono in aumento sia gli sposati (16 donne e 26 uomini) così come la rappresentanza di mamme e papà azzurri (8 mamme e 12 papà).

    A margine di queste note positive, è però da segnalare che permangono ancora dei gap, ad esempio quello tra nord e sud del paese, indicando il permanere di un divario sportivo e sociale. A Londra 2012 erano presenti atleti di 17 regioni, rimanendo escluse Molise e Basilicata, mentre la Lombardia era la più rappresentata, come già quattro anni prima a Pechino.

    Meno stabile appare invece la proporzione applicata al medagliere olimpico in cui l'elemento più significativo riguarda il rapporto in termini di medaglie tra gli uomini e le donne.

    Rispetto ai podi olimpici, infatti, le vittorie maschili subiscono nel tempo una flessione. Nelle edizioni deegli anni tra il 1968 e il 1994 gli uomini vincono in totale 150 medaglie, in media dieci per ogni Olimpiade, se suddivise per il totale di quindici edizioni olimpiche; 126,5 nelle edizioni olimpiche (invernali ed estive) tra il 1996 e il 2012, con una media di 14 medaglie per ciascuna edizione. In generale la media delle vittorie si alza di quattro medaglie tra le edizioni considerate.

    Le vittorie femminili in proporzione distaccano nettamente quelle degli uomini: sono appena 8 nel periodo 1948 (Londra)-1964 (Tokio), 33 tra il 1968 (Città del Messico)-1994 (Giochi invernali di Lillehammer), 69,5 tra il 1996 (Atlanta) e il 2012 (Londra 2012). In media quindi dalle edizioni degli anni 1948-1964 vincono 2,2 medaglie in ogni Olimpiade e tra il 1996 e il 2012 ne vincono 7,7, superando così la media maschile.

    Se si prende in esame il medagliere olimpico, che tiene conto solo delle Olimpiadi estive, la situazione è la medesima: il maggior numero di vittorie ottenute dagli uomini si rilevano in coincidenza con le Olimpiadi di Roma '60 (34 medaglie) e addirittura a Pechino 2008 risultano esattamente dimezzate (17 medaglie), anche se leggermente in aumento a Londra 2012 (20 medaglie). Al contrario, le italiane, pur in numero sempre inferiore, vincono sempre di più giungendo al picco con Atlanta 1996 (13 medaglie), con risultati degni di nota anche a Pechino 2008 con 11 medaglie vinte, ma in leggero decremento a Londra 2012 con 8 medaglie.

    La serie di vittorie maschili nel tempo rappresenta una curva dall’andamento irregolare, mentre per le donne la curva sale quasi costantemente.

    Considerando nello specifico il periodo del secondo dopoguerra in Italia, sembra che per gli uomini si presenti uno spartiacque tra le prime edizioni e quella di Roma, nella quale furono favoriti dal fatto di essere gli atleti del paese ospitante [4].

    Le donne invece conquistano sempre più successi, ma la vera “rivoluzione” si avrà soltanto con le edizioni di Atlanta a Pechino, a cavallo dei due secoli.

    5. La rivincita delle donne?

    Il risultato di Pechino 2008 merita un’attenzione specifica. Insieme a Josefa Idem, che ha conquistato la sua ennesima medaglia, non si può non pensare alle ragazze della scherma, alle azzurre della pallavolo, alle sorprendenti ‘farfalle’ della ginnastica ritmica.

    Dell’anno successivo sono i trionfi ai Mondiali di Nuoto del 2009 a Roma della Pellegrini, della Filippi e della Cagnotto.

    Alle Olimpiadi estive di Londra 2012, nonostante gli insuccessi delle favorite come Federica Pellegrini e di Josefa Idem, le atlete hanno saputo regalare grandi emozioni e anche molte medaglie; da ricordare ad esempio quella del fioretto femminile, come del tiro a volo con Jessica Rossi, il fioretto individuale con Valentina Vezzali o le ginnaste della ritmica.

    Le donne del team azzurro hanno confermato così un grande spirito di vittoria e di competizione, dalle veterane alle giovanissime come Francesca Deagostini, appena quindicenne.

    Tuttavia, a livello internazionale, Londra 2012 ha mostrato anche come lo sport possa costituire una risorsa simbolica per l’emancipazione femminile come nel caso dell'atleta saudita Wojdan Shaherkani, 16 anni e prima atleta donna del suo Paese a partecipare alle Olimpiadi. La sua partecipazione era stata infatti messa più volte in discussione perché la Federazione Internazionale del udo non voleva che partecipasse con il jihab, come impostole dalle autorità sportive saudite, ottenendo alla fine il permesso di gareggiare con una cuffia, vincendo una battaglia culturale per tutte le donne del suo paese.

    Le donne italiane scalano sempre più podi e intanto a raggio internazionale cambiano anche le stesse discipline, come dimostra una delle grandi novità delle Olimpiadi di Londra 2012 come la presenza di tre categorie di boxe femminile, sport reputato da sempre tipica riserva maschile.

    Il costante aumento dei successi femminili di vertice a livello internazionale consente ulteriori riflessioni di carattere sociologico o psico-sociale, come per la capacità delle donne di resistere alla sofferenza e il valore aggiunto che per molti nasce anche dalla propensione a instaurare un rapporto di fiducia con il proprio allenatore. Alcuni esperti del settore come Bruna Rossi, psicologa dello sport ed ex atleta, sostengono ad esempio che «parlando in generale, la donna matura più velocemente dell'uomo; ha un'aggressività meno spiccata ma più spirito di collaborazione nelle discipline di squadra; più focus sul risultato che vuole ottenere però più sensi di colpa in caso di insuccesso» [5] . Aggiunge il coach della Nazionale di pallavolo femminile Massimo Barbolini, che ha allenato sia uomini sia donne: «Le ragazze hanno un grande rispetto del proprio lavoro, nei confronti del quale sono disposte a rinunciare o a rinviare vacanze, esigenze personali, amiche, marito e, addirittura, figli» [6].

    Da una prospettiva sociologica l'accento si deve puntare sulle conquiste culturali e di trasformazione del costume conseguite malgrado tutto dalle donne negli ultimi decenni. Tra queste forse una maggiore accettazione della donna sportiva all’interno delle famiglie, elemento che ha a che fare con nuove dinamiche di ruolo all'interno della società. Come evidenziato precedentemente, la sportivizzazione femminile si intreccia insomma con l'emancipazione tout court della donna nella società e questo è testimoniato ampiamente dai dati relativi alla pratica di base. Ma confrontando le statistiche sulla pratica e quelle sulla partecipazione alle Olimpiadi, emerge l'espansione della pratica femminile in modo costante in direzione di attività non competitive e una difficoltà a garantire persistenza dell' attività. Il tasso di femminilizzazione della pratica agonistica di alto livello, di fatto, supera quello della pratica di base. Il boom femminile a Pechino, confermato a Londra, si può attribuire all'effetto di dinamiche esogene che appartengono alla categoria sociologica degli effetti inintenzionali. Fra questi il principale è forse la riforma del sistema militare che dal 1999, con la legge n. 380/99, apre definitivamente alle donne le porte delle Forze armate, dando loro la possibilità di praticare sport inserendosi nelle sezioni dedicate e di potersi allenare lavorando.

     Lo status lavorativo consente così finalmente anche alle donne di beneficiare di garanzie sino ad allora prerogativa esclusiva degli atleti (maschi) in divisa, durante e alla cessazione dell’attività agonistica. Si è prodotto in questo modo una sorta di effetto indotto sul sottosistema dell’alta prestazione. A meno di dieci anni dalla riforma degli accessi alle Forze armate e, quindi, ai gruppi sportivi militari, le donne ‘a medaglia’ hanno a Pechino tenuto testa ai colleghi maschi. Per lo sport italiano si tratta quasi di una rivoluzione. I dati danno conferma di quanto rilevato: a Londra 2012 gli atleti militari sono più dei civili, 183 contro107, mostrando che il professionismo di Stato può garantire anche alle donne la possibilità di seguire binari privilegiati con risorse e tempo da poter impiegare nello sport [7]. Questo ultimo elemento risulta particolarmente pregnante poiché mostra con evidenza come lo sport non possa essere scisso dai processi sociali e come si colleghi saldamente al mutamento sociale e al sistema delle opportunità.

    6. Conclusioni

    Le riflessioni teoriche, i dati e la panoramica sui diritti hanno permesso di tratteggiare a grandi linee la complessa relazione tra il genere e lo sport, inserendola nel contesto storico dell'Italia nel secondo dopoguerra e all’interno dell’orizzonte europeo. Un rapporto che vede cambiare negli anni anche il concetto stesso di sport e lo pone come pietra angolare del mutamento sociale:

    «ci si trova in un immaginario viaggio, percorso spazio-temporale in cui lo sport fa parte pienamente dell'universo sociale postmoderno… L'efficientismo, l'integrazione, la politicità, la commercializzazione fanno parte di questo mondo dal Novecento in poi, una sorta di ultima grande narrazione della società attuale » (cfr. G. Gianturco-E. Porro, 2008, p. 225).

    Bourdieu aveva già avvertito questo movimento definendo “l'insieme delle pratiche e dei consumi sportivi offerti agli attori sociali come un'offerta destinata a incontrare una domanda sociale” (Bourdieu, 1995). Le donne, anche le donne italiane e ai vari livelli di pratica (sport di base e alta prestazione) sembrano rispondere pienamente a questa tendenza, mostrando un livello di pratica crescente e forme di competitività e agonismo in grande espansione.

    Oltre a ciò, la differenziazione delle pratiche – caratteristica fra le più salienti dello sport contemporaneo - le vede sempre più protagoniste anche in campi di tradizionale dominio maschile, come per la boxe.

    Occorre allo scopo considerare quanto sostiene Eichberg sullo sport contemporaneo suggerendo tre modelli interpretativi: lo sport declina il modello industrialistico della prestazione, quello del fitness in cui i valori di riferimento sono la salute e il benessere e quello della sensualità sociale che comprende antichi sport popolari riscoperti, ripensando alla rivisitazione moderna della danza e del movimento e intercettando le tendenze emergenti della cultura postmoderna del corpo (cfr. Eichberg, 1989b).

    I dati sulla prestazione agonistico-competitiva delle donne parlano in Italia di un divario ancora da colmare con la presenza maschile, senza però dimenticare il ritardo storico in cui le donne si affacciarono al movimento olimpico. Parlano anche di grandi potenzialità espresse soprattutto a Pechino o nell'ultima edizione dei Giochi di Londra e della loro capacità di salire con audacia sul podio.

    Sul versante della pratica di base, si può invece ritrovare la tendenza di cui parla Eichberg rispetto al fitness e a quella che lo studioso definisce sensualità sociale: la pratica non competitiva si caratterizza specialmente per la discontinuità da parte delle donne, a fronte di un aumento di partecipazione in alcune discipline quali il jogging, l'aerobica e le danze. Nemmeno è di secondaria importanza il fenomeno, che meriterebbe un approfondimento, del boom delle scuole di danza in cui hanno avuto il sopravvento i balli latino americani, senza implicazioni competitive e con una partecipazione femminile largamente maggioritaria. Il modello della sensualità sociale descritto da Eichberg appartiene forse soprattutto alle donne e alla loro capacità di interpretare creativamente gli input, giudicati massificanti, della mediatizzazione e della spettacolarizzazione della corpreità agita? Grazie a Wenner (1989) si è imposto nella sociologia della comunicazione addirittura il concetto di mediasport con cui si indica uno strettissimo rapporto che non si esaurisce nell'evento mediatico, ma che caratterizza anche i suoi protagonisti e indirettamente tutti gli attori sportivi, spettatori attivi o passivi dello spettacolo.

    L'atleta viene divinizzato come un attore, i media impongono e investono sempre più come sponsor e l'audience televisivo diventa sempre più importante. Lo sport si trasforma ed entra a sua volta nel menù dei consumi culturali tanto che si può parlare di un mix mediatico, tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, in cui l'orientamento all'azione sportiva è determinato da input culturali, inclinazioni personali e dall'influenza mediatica.

    Mentre sono gli uomini i maggiori fruitori dello sport spettacolo, le donne sono in percentuale inferiore anche in Italia più che altrove spettatrici passive, ma colgono invece le dinamiche sociali tipiche del culto del narcisismo e dell'edonismo emerso negli anni Ottanta e descritto dalla sociologia di Lasch.

    Questo fenomeno, noto come svolta californiana, giunge mediato proprio dal culto televisivo delle telenovelas e dei serial tv per tramutarsi poi in quell'esaltazione del corpo e del benessere fisico che associa jogging, fitness e aerobica.

    L'identità sportiva si configura dunque come un potpourri in cui l'esperienza del praticante si mescola agli stili culturali che appartengono tanto agli attori individuali quanto a quelli collettivi. Le donne del secondo dopoguerra in Italia hanno mostrato di sapere interpretare l'universo postmoderno della sportività, non riuscendo tuttavia ancora a colmare il fossato che le separa da una conquistata parità con l'universo maschile.

    L'interrogativo che ci si pone in chiusura è se non si tratti tanto di un problema di di offerta sportiva prevalentemente orientata al maschile, quanto piuttosto, parafrasando ancora Bourdieu (1995), di una sorta di occlusione della domanda sportiva femminile che enfatizza la caratterizzazione di un’offerta sportiva fortemente declinata sul paradigma maschile.

    Ispirandosi a modelli internazionali più avanzati, sarebbero necessari un’attenzione sociale e un sistema sportivo più sensibili ai bisogni femminili: uno sport più a misura di donna.

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    Note

    1] [...] In termini analitici, un campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Queste posizioni sono definite oggettivamente nella loro esistenza e nei condizionamenti che impongono a chi le occupa, agenti o istituzioni, dalla loro situazione (situs) attuale e potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo, e contemporaneamente dalle relazioni oggettive che hanno con altre posizioni (dominio, subordinazione, omologia [...]

    2] Negli anni Novanta viene coniata la dicitura 'grassroots' per intendere tutte le pratiche sportive che rientrano nella cosiddetta 'prestazione relativà, suggerita da Giammario Missaglia (1998) ne “Il Baro e il Guastafeste. Il futuro dello sport”, Seam Edizioni, Roma.

    3] Dietro la caccia, ma saldamente insediato al primo posto delle attività competitive, si collocava nelle preferenze dei praticanti un altro sport all’epoca a totale configurazione maschile, come il calcio. Il calcio (22,3% di preferenze) era seguito da “sport natatori e nautici, pesca e assimilati”, con meno del 19%; troviamo poi sport invernali e alpinismo, atletica (leggera e pesante), tennis e sport di squadra allegramente confusi (basket, pallavolo, rugby, baseball). La pratica è fortemente concentrata nelle fasce d'età giovanili e, come si è già evidenziato, nella popolazione di sesso maschile. Appena il 3% di giovani sino ai 17 anni si dichiarava regolarmente attivo, mentre prevalevano pratiche estemporanee, svolte in spazi impropri, quasi del tutto estranee alla stessa esperienza scolastica.

    4] Si deve notare che anche l'edizione del 1980 a Mosca rappresenta un'eccezione dato il boicottaggio che gli Usa fecero all'Olimpiade per manifestare contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan. In questa occasione circa 65 nazioni (tra le quali gli Stati Uniti) non presero parte alle Olimpiadi e alcune gareggiarono sotto la bandiera olimpica, compresa l'Italia. Chiaranente ne risultarono penalizzate le discipline maschili ad esempio quelle in cui gli Stati Uniti avevano da sempre il primato, favorendo al contrario altre nazioni meno forti.

    5] Tratto da Gaia Piccardi, Il sorpasso delle donne. Sul podio, Corriere della Sera, 31 ottobre 2009.

    6] Ibid.

    7] Tratto da Maurizio Crosetti, Piu' laureati e mamma, poco sud, come cambia l'Italia in quattro anni, La Repubblica, 26 luglio 2012.

     



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