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    Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.2 Mai-Août 2012

    MEMORIE DELLA SITUAZIONE COLONIALE: GLI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI DEGLI EX COLONIZZATORI ITALIANI IN LIBIA


    Caterina Miele

    caterina.miele@gmail.com
    Dottore di ricerca in Scienze antropologiche e analisi dei mutamenti culturali presso l’Università degli studi di Napoli l’Orientale con una tesi sulla colonizzazione demografica in Libia.


    1. Oltre la rimozione. Studiare la memoria coloniale

    La questione coloniale è per l’Italia repubblicana un passato che non passa, o meglio un passato che sembra non creare problemi [1]. Dalla fine dell’Impero ad oggi il mito dell’italiano “brava gente” è stato corollario dell’oblio quasi totale di stragi e arbitrii operati dai colonialisti italiani in Africa. Nell’agosto del 2008, con la firma dell'accordo italo-libico di “Amicizia, partenariato e cooperazione”, l’Italia ha acconsentito al “riconoscimento completo e morale” dei danni inflitti alla Libia e accettato di risarcire il paese per le perdite umane e materiali subite durante la nostra dominazione [2]. A dispetto del rilievo mediatico accordatogli, però, l’accordo sembra non aver stimolato alcun dibattito sulle ragioni dell’ex colonia né aver smosso le coscienze degli italiani, rappresentando così l’ennesima mancata occasione di determinare una riflessione profonda e condivisa sull’eredità coloniale. Se si eccettua la condanna del genocidio compiuto durante la “pacificazione” della Libia (considerato evento episodico), la classe politica è rimasta concorde nella difesa dell’operato dei connazionali in colonia e solo una parte del mondo accademico ha accolto con favore le scuse e i risarcimenti alla Libia. Si è avuto così il duplice effetto di legittimare l’accantonamento definitivo del contenzioso coloniale e di ancorare nuovamente la riflessione al dibattito, minoritario ma risalente agli anni ’70, tra chi oppone le “strade” alle “stragi” [3].

    Senza sminuire l’importanza degli studi che hanno portato alla luce episodi sconosciuti della storia nazionale in colonia, credo che il rapporto dell’Italia contemporanea con la sua eredità coloniale non possa essere ridotto al risultato di una rimozione. In primo luogo, parlare del passato coloniale come fosse un contenuto indicibile all’interno di una sorta di inconscio collettivo nazionale dal quale di tanto in tanto riaffiora rivelando “sintomi” di un immaginario coloniale-razzista è un’operazione tanto utile quanto problematica. Utile, in quanto definisce una tendenza che accomuna tutti gli ex imperi [4] e rende conto di come l’età coloniale si innesti in quella postcoloniale; problematica perché presuppone la facile trasposizione di un fenomeno psicologico a livello collettivo e una sottovalutazione della complessità dei modi di interazione tra la memoria individuale (inconscia) e quella culturale. Un secondo ordine di problemi deriva dall’impossibilità di considerare il colonialismo come “oggetto” di ricerca tout court, in quanto chi fa ricerca ne è in qualche misura il prodotto storico. L’eredità coloniale è parte di quella “patria” costituita dalle specifiche localizzazioni socio-culturali e dai processi di apprendimento incorporati che formano il soggetto, rendendolo capace e insieme limitandolo “dovunque egli svolga la sua ricerca formale” [5]. Non si dà dunque osservazione positiva del colonialismo come dimensione omogenea e destoricizzata, ma solo pratiche etnografiche che procedendo per frammenti e “mutevoli localizzazioni” [6] si pongano come “modo storicamente determinato di comprendere contesti storicamente determinati” [7]. Infine, se, parlando di rimozione, introiettiamo nell’oggetto di studio valori e rappresentazioni propri della posizione scientifica, del rapporto oggettivante con il passato coloniale, dell’habitus “etnografico” [8], si rende necessaria quell’operazione radicalmente riflessiva, di costante vigilanza epistemologica, che Bourdieu definisce oggettivazione del soggetto oggettivante, che inizia con l’inquadrare in prospettiva storica le “categorie” che il mondo accademico rimanda individuandone il momento di emersione [9].

    I primi esempi di storia coloniale decolonizzata [10] nel nostro paese risalgono alla fine degli anni ’60, quando Gheddafi espelleva la collettività degli ex coloni residenti instaurando il “giorno della Vendetta” e l’Etiopia chiedeva la restituzione dell’obelisco di Axum. Negli anni ‘90 si consolida il lavoro della storiografia critica; grazie soprattutto alle opere di Del Boca e al dibattito del 1996 sui gas utilizzati da Mussolini in Etiopia la questione inizia ad interessare un più ampio pubblico. Nell’ultimo decennio il lavoro degli storici è stato affiancato da studi sulle istituzioni, le procedure, le attitudini e i comportamenti ordinari del colonialismo italiano. Tale nuova letteratura coadiuva la tradizionale ricerca storiografica e insieme ne oltrepassa le istanze, dal momento che, oltre a svelare il passato, ne riconosce le continuità nel presente [11] e supera in maniera definitiva quell’atteggiamento volto a contrapporre i crimini ad una positiva quotidianità [12]. In quest’ultima fase il termine rimozione si afferma come topos storiografico e politico e l’assenza di dibattito sul colonialismo diventa, essa stessa, oggetto di dibattito.

    Che la “problematicità” della memoria coloniale e la stessa categoria di rimozione derivino dal lavoro di ricerca svolto dal mondo accademico e dalla posizione di distanziamento nei confronti delle rappresentazioni del passato che gli è propria risulta evidente se si considera il rapporto del tutto differente, di tipo “strategico”, che altri soggetti, i politici e le istituzioni ad esempio, hanno con quello stesso “oggetto”. La censura del film Il Leone del deserto, il diniego dell’accesso agli archivi e la costituzione del Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa [13] sono esempi di politiche attive della memoria [14] attuate allo scopo di cancellare o legittimare il passato coloniale. Al peso determinante del mondo politico nella rappresentazione del passato coloniale si aggiunge, poi, il ruolo decisivo degli ex coloni. A partire dall’analisi del suo discorso pubblico, proverò a dimostrare come l’associazione che riunisce gli ex coloni in Libia diffonda peculiari formazioni discorsive e regimi di verità rispetto alla storia dell’Italia in Libia, allo scopo di legittimare il passato coloniale. In secondo luogo, prenderò in esame gli scritti autobiografici degli italiani in Libia, evidenziando come essi confermino e contraddicano contemporaneamente il discorso dell’associazione.

    2. La comunità immaginata dei colonizzatori

    Ripensata in prospettiva relazionale, la memoria collettiva del passato coloniale acquisisce le sembianze di un processo la cui posta in gioco è la corretta definizione della storia e in cui diversi soggetti occupano posizioni reciprocamente conflittuali, mettendo in campo differenti capitali e autorità: quella politica delle istituzioni e quella scientifica dell’accademia, ad esempio. Un’altra forma di autorità nella costruzione della memoria del passato coloniale, di tipo “paraetnografico”, è invece rivendicata dai coloni e dalle organizzazioni che li rappresentano, come l’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL) che riunisce gli italiani vissuti in Libia durante il dominio coloniale, passati dal ruolo di colonizzatori a quello di vinti sotto l’occupazione inglese a quello di minoranza etnica dopo l’indipendenza del paese [15]. Fondata nel 1979 per riunire gli ex colonizzatori espulsi da Gheddafi nel 1970, l’AIRL da più di trent’anni lavora per garantire la continuità della “famiglia” dei rimpatriati e rappresentarli nel contenzioso con il governo per il risarcimento delle confische subite. L’azione “sociale” e quella politica dell’associazione trovano i propri presupposti nel suo terzo e forse principale obiettivo: mantenere in vita la memoria della presenza italiana in Libia. La sua ricca produzione testuale - fatta di editoriali, commenti, comunicati, resoconti di incontri assembleari e congressuali, ricostruzioni storiche, pubblicati sulle pagine del periodico Italiani d’Africa – è interamente tesa a raccontare la storia della presenza italiana in Libia e insieme a legittimare il passato dei rimpatriati e l’opera dei loro padri. In quanto depositaria di questa memoria collettiva (Halbwachs [1968] 2001), attraverso un’incessante evocazione dei luoghi e della realtà umana che il rimpatrio ha sottratto alla collettività, l’AIRL definisce i valori cui la comunità si ispira: lo spirito di sacrificio, la fedeltà alla Patria, la solidarietà verso i connazionali.

    Come chiarisce il direttore di Italiani d’Africa, Italo A. Salinos, la differenza tra il reduce e l’italiano d’Africa è che il primo è “un valoroso soldato quindi in Africa è giunto in armi” l’altro è “un anonimo borghese che in quelle terre primitive e poco accoglienti ha portato la meravigliosa, misconosciuta opera di pioniere profondendo sudore ad ettolitri”. Più che rinsaldare i legami tra i rimpatriati, l’AIRL ne rifonda la comunità, estendendone i confini ben al di là della minoranza nata dalla dominazione coloniale - includendo cioè coloro i quali hanno di fatto condiviso spazi di quotidianità in Libia, le nuove generazioni nate in Italia dopo il rimpatrio e tutti gli europei che hanno lavorato in Africa - ma anche definendone i limiti in maniera netta, escludendo chi non condividerebbe le stesse caratteristiche culturali, l’ontologia, dei primi.

    In questa comunità immaginata (Anderson 2004) di colonizzatori, il lavoro di ancoraggio a “figure del ricordo” (Assman 1997) e narrative stabili, ossessivamente evocate, dimostra un’attenzione per il passato che non è mossa solo dalla nostalgia. Convinti che la ripresa delle relazioni economiche tra l’Italia e la Libia alla fine degli anni ’70 sia stata fondata sulla “rimozione” della loro vicenda e pagata con “il frutto del loro lavoro”, oltre al risarcimento materiale i rimpatriati chiedono il riconoscimento del proprio “sacrificio”. La rappresentazione di sé come comunità di emigranti-lavoratori è, infatti, continuamente minacciata dai detrattori del colonialismo italiano, come gli storici Angelo Del Boca ed Eric Salerno, rei, agli occhi dell’associazione, di diffondere immagini negative del colonialismo italiano. Quando nel 1983 su Il Messaggero Del Boca denuncia la censura del film Omar al Muktar. Il Leone del deserto, la risposta dell’AIRL [16] non si fa attendere:

    Ciò che invece non ci va bene proprio per niente è che un italiano che probabilmente non è mai stato in Libia nell’epoca della nostra occupazione, che quasi certamente di storia di quel paese conosce poco o nulla, che sicuramente non ha consultato persone o testi che riguardano quel periodo, non ci va bene dicevano che un italiano solo per essere considerato «progressista», e per dissacrare l’opera dei suoi padri e dei suoi nonni, accetti per sacrosante verità tutte le atrocità che il film mostra a nostro discapito. Vergogna. […] Noi italiani di Libia che queste cose le abbiamo vissute, possiamo testimoniare e dichiarare che l’Italia si è comportata in Libia, come pure in tutte le altre colonie da paese altamente civile, portandovi pace, lavoro e serenità, profondendovi tesori di esperienza culturale, sanitaria e tecnica in tutti i campi di attività trasformando un paese addormentato da sempre in un crogiolo di iniziative all’altezza dei paesi più progrediti e sviluppati. […] Le Colonie italiane sono ben antecedenti al fascismo […] e se il fascismo ha fatto qualcosa di buono, questo poco lo ha fatto proprio nei territori coloniali, dove ha dato il meglio di ciò che un popolo civile poteva dare a dei popoli ancora retrogradi quali erano i paesi conquistati ai tempi delle conquiste e quali, sotto molti aspetti, sono ancora!

    Superare i conflitti senza rinnegare il proprio passato, obiettivo dell’AIRL, significa, in definitiva, dare per buona una precisa versione della storia della presenza italiana in Libia, che vede il paese segnato dall’opera e dall’ingegno degli italiani. Il tema della guerra è inglobato nella narrazione ufficiale del colonialismo, di cui costituisce una specie di fuori pista [17].

    L’impegno dell’AIRL per la monumentale rappresentazione del passato e l’estrema rigidità della sua memoria cela anche una costante ricerca di conferme. Se le poche voci fuori dal coro sono ignorate o ferocemente attaccate sulle pagine della rivista, è pur vero che l’AIRL cerca continuamente conferme alla versione ufficiale della “sua” memoria: si sollecitano i lettori a scrivere a condividere i propri ricordi ma si cercano anche consensi in soggetti “esterni” alla collettività, si ricerca fortemente la “pubblicità”, il rapporto con i media, con gli studiosi del colonialismo, con i politici [18]. L’atteggiamento “schizofrenico” dell’associazione e dei suoi membri, di estrema chiusura da un lato, di bisogno di confronto, apertura e riconoscimento dall’altro, sembra sintomo di un malessere, di un’incapacità di accettare il proprio passato e, insieme, del bisogno di trovare in esso la propria legittimazione nel presente in quanto collettività. L’elaborazione della memoria dei rimpatriati inizia, infatti, nel ’70 quando gli italiani di Libia sono oggetto di un duplice rifiuto, dalla società libica e da quella italiana, e subiscono tale rifiuto in quanto collettività. Più che liquidare le loro memorie come testimonianze di assurde nostalgie dell’età coloniale, dunque, mi sembra importante riflettere sul percorso a ritroso nel proprio passato che esse testimoniano. In questa direzione si possono fare alcune prime considerazioni.

    È degno di nota, prima di tutto, il fatto che l’AIRL contrapponga alla letteratura storiografica più critica sul colonialismo, una propria versione della storia dell’Italia in Libia – una “grande narrazione” (Lyotard 1993) di progresso – sulla base di una sorta di “autorità etnografica” (Clifford 1999), rivendicando, cioè, il proprio diritto di parlare in quanto testimoni oculari e profondi conoscitori della natura del territorio e del carattere dei libici. Autori e collaboratori di Italiani d’Africa oscillano poi continuamente tra difesa del colonialismo italiano e puntualizzazione della propria posizione di estraneità al dominio coloniale. Infine, nel discorso dell’AIRL la narrazione del passato è strumento di lotta politica, giocato in funzione della soddisfazione sia materiale che simbolica delle istanze della collettività: è espressione, in altri termini, ciò che Habermas ha definito uso pubblico della storia, un dibattito etico e politico, invece che accademico e scientifico, sul passato che coinvolge in maniera diretta “identità individuali e collettive, giudizi politici sul presente e sul futuro” (Gallerano 1995: 7). Seguendo Gallerano, l’accezione negativa di uso pubblico del passato come strumentale manipolazione della storia va superata: il fatto che istituzioni o gruppi, si impegnino a promuovere una “lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico” va considerata alla stregua di pratiche parastoriografiche che coinvolgono direttamente i cittadini nel dibattito sulla storia e fanno riemergere “lacerazioni profonde e ferite della memoria” (ivi: 19). La peculiare narrazione della storia dell’AIRL è sintomo del fatto che quella memoria occupa uno spazio importante del nostro presente e che il conflitto su di essa non necessariamente si concluderà con la fine dell’ultima generazione degli italiani di Libia.

    Ciò ci permette di tornare ancora una volta sul tema della rimozione, iniziando con il precisare che il discorso dell’associazione più che una vera e propria rimozione della guerra e della violenza evidenzia piuttosto un diniego di questi aspetti del dominio coloniale, ossia la marginalizzazione (piuttosto che omissione) di questi aspetti a favore di altri rispetto ai quali l’argomentazione e il ricordo assumono forme ipertrofiche (Demaria 2006). La maggior parte dei testi curati dall’associazione contengono esempi più o meno palesi di questa forma di oblio, in particolare rispetto all’ipotesi di ammettere l’importanza del danno arrecato dal colonialismo italiano ai libici, tuttavia non è esatto dire che la violenza del dominio sia completamene omessa. Se nei primi anni di vita della rivista si tende a negare in maniera assoluta i fatti di sangue, il progredire della ricerca storica costringe progressivamente l’associazione ad ammetterne la veridicità ma anche ad insistere ancora di più in forme di narrazione del passato che mitigano il ricordo “intollerabile” con formule di diniego. Nella strategia narrativa che unisce la produzione testuale dell’AIRL, non è la violenza episodica della guerra di pacificazione ma quella strutturale su cui si fonda la situazione coloniale ad essere oggetto di un vero e proprio silenzio. È in questo spazio liminale che separa e unisce contemporaneamente il diniego dall’omissione all’interno di formule discorsive fortemente stereotipate che si inserisce la memoria autobiografica, allo stesso tempo confermando e contraddicendo il discorso dell’AIRL.

    3. Autobiografia e situazione coloniale

    Gli scritti autobiografici degli italiani di Libia sono messe in scena di un modo di esserci nella Libia coloniale in cui è interessante concentrarsi sulle modalità discorsive con le quali l’esistenza ordinaria è narrata. Questi testi, oltre che come espressione di una ricerca di senso, di un difficile percorso a ritroso nel proprio passato da parte degli autori che sembra rispondere al desiderio di sanare il ricordo della traumatica esperienza di esuli, rispondono, come tutte le narrazioni autobiografiche, ad un’esigenza di contestualizzazione e radicamento sociale [19].

    Si considerino alcuni passi di un romanzo scritto sulla base dei ricordi personali dell’autrice [20], partita per la Libia durante la colonizzazione demografica intensiva di Balbo:

    Si ricordò ciò che Silvia aveva detto: «Andiamo a lavorare una terra che sarà nostra, una terra vergine da amare e far fruttare». Un buon motivo per non rimpiangere ciò che aveva lasciato! […] Il podere destinato alla famiglia Pelizzari era il n. 234: una distesa di arida sabbia che indusse Teresa, muta e ostile, a chinarsi, raccoglierne un pugno e lasciarla filtrare tra le dita con una mossa sprezzante. […] Eros sollevò le sopracciglia. «Sotto questa sabbia» disse «la terra è vergine e fertile. Ha bisogno soltanto di acqua e di cura amorose. Non sono parole mie ma del perito agrario.» […] « Ci metteremo al lavoro tutti e questo nostro podere fatto di sabbia, diventerà un giardino» […]« È così. L’idea di coltivare una terra che diventerà nostra, mi dà una specie di energia vitale, mi fa sentire come una dei Padri Pellegrini, o quasi» si corresse ridendo. (Rima Caveri 1988: 7 - 31).

    Le famiglie venete protagoniste del romanzo ricalcano, in un linguaggio che si vorrebbe letterario, immagini e idee proprie della propaganda fascista. Il pionierismo, l’idea della terra che torna fertile se sapientemente coltivata, se guadagnata con il sudore: sono immagini ampiamente sfruttate dal regime ed elementi di un immaginario condiviso dai coloni che le memorie, a distanza di decenni, riportano in maniera estremamente viva. Se nel 1940 il giornalista inglese Martin Moore poteva dare per scontato che i contadini assoldati per la colonizzazione demografica fossero interessati più a garantirsi un pezzo di terra proprio che non, romanticamente, ad incarnare la parte dei pionieri, decenni più tardi le autobiografie dei coloni documentano un diverso rapporto con l’immaginario pionieristico. I coloni italiani in Libia non furono mai dei pionieri, essendo ogni aspetto della loro esistenza garantito e regolato dal regime, ma si può presupporre che nel pionierismo essi trovarono un valido sistema di significazione per un’esperienza estraniante per chi, come loro, aveva come unico riferimento l’angusto universo del proprio paese natio.

    Un altro colono veneto, Giacomo Cason, nel suo diario ricorda la precaria situazione economica in Italia, l’organizzazione della partenza dettata dal regime in ogni minimo particolare; le foto scattate dai fotografi durante la traversata (“Mi ricordo che avevo la bambina Agnese di tre anni in braccio e li aditavo che guardasse il fotografo. Quella foto poi vené fuori in tanti giornali e riviste con la scritta: Il Padre addita al figlio la meta” [21]). Cason definisce il quadro politico-istituzionale della sua nuova esistenza in Libia: il sussidio dall’Ente di colonizzazione, il villaggio del suo comprensorio diretto da “un dottore in agraria” e costruito su un terreno ceduto “all'Istituto dal Conte Chiavolini” in quanto amico di Mussolini” (ivi: 53-8). Il lavoro nei comprensori si presenta da subito arduo a causa delle condizioni climatiche e del terreno, la vita sociale è pero povera ma appagante:

    Anno 1940. Questo è stato l'anno che a cominciato i guai. A dire che si stava bene, eravamo in un bel posto sulla strada statale, fra il nostro villaggio Oliveti e Zavia nostro Comune. Una cittadina di quasi 30.000 abitanti, con molte caserme e soldati, con due giorni di mercato alla settimana. Si trovava di tutto però i commercianti erano tutti arabi. Alla festa cera la Messa delli ufficiali e soldati, sempre la Chiesa piena. […] Da quando siamo arrivati o avuto modo di conoscere molte persone specialmente alla festa, che ci trovavimo al dopo lavoro al Villaggio o in giro per le Fattorie dove facevano magazzino del vino (queste Fattorie erano diversi anni che erano li). Così bevendo e chiacchierando ne o conosciuto di tutti i colori, di tutti i dialetti di quasi tutte le Provincie (ibidem).

    Anch’ella protagonista della colonizzazione demografica, Iole Mezzavilla Ferrara [22], partita dal Piemonte, ricorda di come lei e la sua famiglia furono preparati all’impresa dalle autorità fasciste, con il lungo discorso di Mussolini che li esorta al grande compito di rendere fertili le terre della Libia. La famiglia di Mezzavilla aveva dovuto abbandonare il proprio paese perché i proprietari terrieri presso cui lavorava avevano venduto la proprietà. Anche nel caso di Giovanni Spinelli, originario di un piccolo paese della provincia di Bari, la difficile situazione economica familiare è ciò che spinge i genitori alla partenza. Al porto di Tripoli Spinelli, la sua famiglia e gli altri coloni trovano ad accoglierli una grande festa con le fanfare e i discorsi delle autorità, sul bellissimo lungomare di Tripoli in mezzo a gente “che per vestito aveva una coperta di lana” che poi impareranno essere i barracani (ivi: 15). La soddisfazione di trovare una casa grande e fornita, nei più giovani della famiglia lascia presto spazio alla sensazione di scoramento di fronte al deserto, ad un ambiente che appare subito ostile:

    Per chi veniva dall’Italia la vista non era delle più belle: cumuli di sabbia, che venivano spostati anche da una leggera brezza e qualche cespuglio. Ci fu qualche commento da parte dei ragazzi subito rientrato quando papà li richiamò all’ordine: “siamo venuti qui per cercare qualcosa che non siamo riusciti a trovare nel nostro paese. Mi auguro che non pensavate che sarebbe stata una cosa facile. Ci sarà da lavorare come non abbiamo mai fatto però è nostro dovere andare fino in fondo. Cerchiamo di accettare le cose come sono senza lamentarci perché farlo renderebbe il lavoro ancora più faticoso”. Non avevo mai sentito papà dire tante parole in una sola volta (ivi: 16).

    Le memorie dei coloni ritraggono la realtà coloniale, testimoniando la progressiva iscrizione dei loro corpi all’interno di un territorio già segnato dal potere coloniale e che loro contribuiranno a segnare in questo senso, una progressiva presa di coscienza, attraverso i discorsi, le pratiche, gli oggetti e i simboli, del proprio ruolo di “civilizzatori”. Se le cerimonie organizzate all’uopo dalle autorità coloniali e la sistemazione nei poderi furono le prime fasi di adattamento alla nuova situazione e all’alterità, il lavoro di valorizzazione delle terre dei poderi fu il più importante strumento di risoluzione materiale e culturale di quella situazione critica. Se l’alterità etnica è assente o fa solo da sfondo alle memorie (che quasi non nominano la popolazione locale), al contrario estremamente vivo è il ricordo dell’ordine coloniale iscritto nel territorio: i simboli del potere coloniale (la via Balbia, i villaggi agricoli), i simboli della conquista (la croce e i monumenti ai caduti fascisti). La situazione coloniale, preannunciata dai discorsi delle autorità e dal richiamo alla missione civilizzatrice, è ritrovata iscritta nel territorio e, infine, incarnata dai coloni stessi.

    Simili argomenti e strategie discorsive caratterizzano gli scritti degli italiani che vissero a Tripoli e Bengasi. Angelo Nicosia [23], figlio di commercianti nella Bengasi coloniale, descrive un vissuto di sacrifici e lavoro, simile a quello di tanti emigrati italiani: “a casa nostra di solito si mangiava in modo più frugale, sia a causa dell’attività commerciale esercitata dai miei, che lasciava poco tempo per queste cose, sia perché ‘loro’ pensavano al risparmio”; infatti, “conservare in cassaforte tanti «filus» quei bei bigliettoni da cento lire grandi come fazzoletti da naso era l’aspirazione di tutti gli italiani d’Africa”. Appartenente ad una classe sociale non privilegiata, Nicosia vive una società coloniale segnata dalla segregazione degli spazi e dalla presenza ingombrante dei segni dell’occupazione italiana, il contesto in cui l’esistenza di lavoro è vissuta:

    Questa era la strada più bella della città con le sue palme altissime sui marciapiedi con i suoi cento negozi di articoli vari e con gli studi dei professionisti più pagati tutti residenti in palazzi costruiti di recente dagli italiani come cortina del quartiere arabo. […] Una vacanza meravigliosa della quale ricordo la lunga strada asfaltata che percorreva l’altipiano, passando tra campi rigogliosi pieni di alberi in fiore, tra i Villaggi Luigi Razza e Beda Littoria e le case coloniche che i “Ventimila” contadini italiani l’anno dopo nell’ottobre del 1938 avrebbero abitato per cercare di dissodare e rendere fertili quelle distese steppose che si perdevano a vista d’occhio verso le lontane oasi di Cufra.

    Michele Marconcini [24], figlio di uno dei primi italiani a trasferirsi in Libia, ricorda che la sua “acculturazione” alla vita coloniale inizia ancor prima di partire per la Libia, quando il padre gli regala un casco coloniale di sughero comprato a Roma, molto gradito a quel bambino pieno “di infantili sogni di «conquista»”. Nel giugno del 1912, Marconcini raggiunge il padre in Africa:

    Due giorni dopo la partenza, all'arrivo nella rada di Tripoli, dove il piroscafo sostò in mare aperto perchè un molo di attracco ancora non c'era, seppi dal capitano («ma qui il porto non c'è signor capitano?») della nave che lì a Tripoli, c'eravamo arrivati anche per costruirvi un porto. La mia domanda ebbe sapore di ovvietà; la mia Piombino, piccolo e vecchio che fosse, un porto ce l'aveva e la differenza non poteva non colpirmi. Mio padre poi - e questo me lo riferì successivamente mia madre - ci aveva soltanto spiegato che si andava «a vedere i mori». […] Eravamo stati preceduti dalla occupazione militare e la zona per la costruzione del porto era militarmente protetta. Marinai, soldati di ogni arma, giravano per Tripoli sempre col fucile a spall'arm, proiettili nel serbatoio, giberne piene. C'erano già i primi «velivoli» che bombardavano e spezzonavano le «mehalle» ribelli.

    La famiglia del Marconcini trova il padre ad accoglierli “con due uomini di scorta” e “armato di un grosso e pesante fucile «Mauser» preda bellica”. Così avviene l’incontro con quella “terra d’Africa” che era “allora ancor tanto sconosciuta e che ci fu subito ostile”, un’ostilità percepibile già dai sensi:

    Mi offese l'olfatto, sulla riva, un insopportabile fetore di residui di macellazione di animali: agnelli, cammelli, bovini. Uno stabilimento civile per la macellazione non c'era e così le necessarie operazioni di abbattimento e squartamento degli animali, avvenivano sulla riva, sotto i «bastioni» a nord est della città, costruiti da Murad Pascià (di quale Murad si trattasse, in numero ordinale, non saprei proprio dirlo: uno dei tanti) a difesa degli attacchi che i corsari portavano in antico alla città, con i loro sciabecchi armati. […] Le onde che si frangevano stilla riva, via via trascinavano i residuati animali in mare aperto. Il fetore, comunque, stagnava in permanenza. Lo sentimmo per anni quando, ragazzi, transitavamo per caso sui «bastioni» passando attraverso il quartiere grecomaltese.

    Tripoli appare come una terra priva di civilizzazione, un territorio vergine che gli italiani-colonizzatori hanno il compito di trasformare e un contesto fortemente militarizzato ove i ribelli non sono ancora stati del tutto sconfitti e gli italiani girano armati o sotto scorta.

    Uno dei più significativi racconti autobiografici ambientati nella Libia coloniale urbana è quello di Roberto Nunes Vais, appartenente ad un’antica famiglia di religione ebraica e di origine portoghese, con cittadinanza italiana, presente in Libia da prima della colonizzazione italiana di cui tuttavia adotterà pienamente lo spirito, almeno stando alle parole di questo suo componente, molto noto all’interno della comunità italiana di Tripoli [25]. Il suo scritto, Reminiscenze tripoline [26], è una delle prime autobiografie scritte da italiani di Libia e costituisce una sorta di modello narrativo a cui molti di loro, più o meno consapevolmente, si conformano nel raccontare la propria vicenda. Scritto a puntate su Italiani d’Africa a partire dal 1979 e poi nuovamente pubblicato sulla rivista negli anni novanta, il testo di Nunes Vais è caratterizzato da una singolare commistione di storia di vita individuale e storia della collettività: il ricordo della propria vita in Libia è inseparabile dalla memoria dell’ “opera” della collettività italiana e le vicissitudini dell’autore e della sua famiglia sono continuamente intervallate dal giudizio politico sul senso della presenza italiana nel paese nordafricano. La Tripoli turca era per Nunes Vais “una piccola città addormentata” racchiusa nelle sue mura, “una cittadina provinciale con appena qualche tocco di mondanità, un piccolo mondo chiuso in se stesso, un modo di vivere senza slancio e senza fantasie”, che a partire dalla conquista italiana nel 1911 inizia una lenta e inesorabile trasformazione: “la cittadina esce dalle sua mura troppo anguste, e incomincia a respirare”. Gli anni venti sono segnati da una sempre più decisa affermazione dell’ordine coloniale di cui è vittima la popolazione indigena, la sua libertà e le sue tradizioni religiose, come rivela lo stesso autore ricordando che a Tripoli i cortei religiosi in occasione delle grandi solennità musulmane, una “delle manifestazioni più caratteristiche del costume locale” furono vietati dal Governo della Libia “a causa delle difficoltà create al traffico, o per altri forse meno espliciti motivi”. I ricordi più piacevoli per Nunes Vais sono legati agli anni trenta, quando la colonia fiorisce e la collettività italiana trova nuovi spazi di affermazione:

    In onore dei visitatori, e per le premiazioni delle gare automobilistiche, aeree, tornei, ecc, venivano date grandi feste al Palazzo Governatoriale, quasi sempre all'aperto del magnifico parco che lo circondava. Spahis schierati sulla grande scalinata d'ingresso, aiuole fiorite, fontane ed alte palme illuminate da potenti riflettori, ufficiali nella bella uniforme di gala, grandi tavole imbandite, orchestre e danze fino alle ore piccole: per i fortunati che vi partecipavano poteva sembrare di trovarsi nel paese di Bengodi.

    Nunes Vais, appartenente ad una classe sociale privilegiata, si affida alla formula della collettività operosa per neutralizzare nella narrazione l’immagine di una elite coloniale che gode della sua posizione dominante. A dimostrazione del fatto che il benessere della collettività italiana fosse la giusta ricompensa alle fatiche del lavoro di civilizzazione, l’autore ricorda il più emblematico segno del dominio coloniale italiano, la costruzione della via Balbia:

    La nuova strada di circa 2000 kilometri lungo tutto il litorale libico, con i suoi ponti, le case cantoniere disseminate ogni 50 km. per la sua continua manutenzione, renderà ormai rapido ed agevole il percorso. E' sfruttatissima la barzelletta secondo la quale Balbo dice orgogliosamente a dei capi cabila: Vedete, prima con le vostre carovane impiegavate tre settimane per andare da Tripoli a Bengasi: ora ci potete arrivare in una sola giornata! E' vero, Eccellenza, risponde un capo cabila: ma cosa faremo negli altri venti giorni?...

    Con questa storiella, Nunes Vais rivela il contesto di violenza materiale ed espistemologica, la mancanza di riconoscimento dell’altro (Pasquinelli 2006), all’interno del quale si inseriva la presenza italiana in Libia.

    Il confronto tra discorso dell’AIRL e le memorie degli italiani rimpatriati dalla Libia evidenzia la tensione che, come ha sottolineato Vereni (2000), esiste tra autobiografia e dichiarazione di appartenenza a un gruppo (nazionale, etnico, ecc.), essendo la prima espressa in forma narrativa mente la seconda si basa su una definizione, tout court. L’AIRL fonda la sua identità su definizioni che distinguono colonialisti e colonizzatori, lavoratori e soldati, escludendo a priori la partecipazione della propria collettività dalla violenza del contesto coloniale. Nei testi autobiografici l’autodefinizione è ex post, nel senso che gli autori provano a “dimostrare” la propria appartenenza a quella che si è definita la comunità immaginata degli emigranti-colonizzatori attraverso una narrazione che inevitabilmente lascia trasparire il quadro dei rapporti di potere all’interno del quale si inseriva la presenza italiana in Libia.

    A partire dal presupposto che ogni produzione di memoria è contemporaneamente produzione di oblio, selezione e ricostruzione del passato [27], si può evidenziare che dietro l’iterazione di verità sulla presenza italiana in Libia, c’è quello che sia i testi sia politici che autobiografici dei rimpatriati non raccontano, ossia il rapporto con gli indigeni che rimangono sempre in ombra nelle narrazione di cui è protagonista l’autore come membro di una comunità chiusa. La separazione degli spazi tra italiani e libici e il ruolo subordinato di questi è data per scontata e mai problematizzata. Il lavoro occupa tutti gli spazi della narrazione, permettendo di trovare sempre un punto di equilibrio, quando questa rischia di scivolare nel terreno pericoloso del conflitto racchiuso nella relazione dominatore/dominato, mettendo in crisi l’immagine di “bonomia” degli italiani.

    La memoria collettiva dei rimpatriati dalla Libia dimostra una forte saldatura tra identità coloniale e identità post o neocoloniale: non a caso, essi rifiutano l’idea del diritto assoluto dei colonizzatori alla proprietà e alla terra libica, ma rivendicano ancora oggi il diritto a contribuire alla modernizzazione del paese. Pur evitando di considerare i loro discorsi come una strumentale e consapevole manipolazione della storia, è necessario sottolineare che il ruolo di testimoni (di un’epoca storica, di un ambiente sociale, politico e culturale) che incarnano i membri di questa collettività si inquadra in formazioni discorsive e immaginari che sono propri dell’Italia contemporanea. Come ha giustamente sostenuto Annette Wiewiorka, “la testimonianza soprattutto quando si trova ad essere inserita in un movimento di massa, esprime, oltre all’esperienza individuale, il o i discorsi preferiti dalla società, nel momento in cui il testimone racconta la propria storia, sugli eventi descritti dal testimone”; la testimonianza, in altre parole, esprime ciò che ogni individuo ha “di irriducibilmente unico” ma “con le parole appartenenti all’epoca in cui il testimone narra, a partire da una richiesta e da un’attesa implicite, esse stesse contemporanee alla sua testimonianza” (Wieviorka 1999: 14). La memoria degli italiani rimpatriati dalla Libia non attesta solo della rielaborazione del passato propria di un piccolo gruppo di ex colonizzatori, dunque, ma anche del fatto che il colonialismo è una “dimensione ingombrante del nostro presente” (Manoukian 2002). Come sono implicite le richieste della società, così lo sono le risposte di coloro che si propongono come testimoni. Non basta, dunque, intravedere in questo patrimonio di memorie la voce residuale di un passato concluso, ma non basta nemmeno denunciare nel discorso pubblico dell’AIRL un mero tentativo di giustificazione e riabilitazione del proprio passato attraverso una pratica storiografica falsa e tendenziosa. Bisogna invece considerare quanto l’adesione ad un certo discorso colonialista sia involontaria e inconsapevole e soprattutto quanto il discorso coloniale italiano - così come si è sviluppato dalle sue origini, come è stato elaborato nell’epoca fascista e poi riformulato nell’Italia repubblicana - permei ancora oggi il nostro immaginario collettivo e non solo quello degli italiani rimpatriati dalla Libia, permettendo, in ultima istanza, a questi ultimi di rappresentare e spiegare il proprio passato utilizzando retoriche e narrative ampiamente condivise, di utilizzare cioè i “discorsi preferiti” dalla nostra società.

    Note

    1] Pavone (2004) citando lo storico Paul Corner.
    2] I risarcimenti ammontano a circa 5 miliardi di euro da versare alla Libia in 25 anni sotto forma di investimenti in infrastrutture, borse di studio e pensioni per le vittime di azioni militari italiane durante il periodo coloniale. Dall’accordo l’Italia guadagna concessioni in materia energetico-commerciale e l’intesa sul fronte della lotta all'emigrazione clandestina. Lo scorso 15 dicembre il governo Monti e il leader del Consiglio nazionale transitorio libico, Mustafa Abdul Jalil hanno riattivato l’accordo, la cui applicazione era stata sospesa dopo la morte di Gheddafi e la caduta del suo regime.
    3] Labanca 2007.
    4] Cfr. per esempio Blanchard et al. (2006); Social Anthropology, “Colonial legacies”, 3/2008; Gilroy (2006).
    5] Viesvewaran 1994 cit. in Clifford 2008: 109; Clifford 2005. Chi studia il colonialismo è sempre contemporaneamente e sul “campo” e nel luogo della “scrittura” (Gupta Ferguson 1997b) ma né tale mancata “separazione” né il fatto di prendere ad oggetto il colonialismo stesso sono in sé garanzie di una conoscenza antropologica “decolonizzata”.
    6] Gupta A., Ferguson J. 1997.
    7] J. & J. Comaroff 1992.
    8] Clifford 2005.
    9] Bourdieu 2005; 1992.
    10] Faccio qui riferimento in particolare agli studi di Rochat, Salerno e Del Boca che documentano per la prima volta la repressione della resistenza anticoloniale in Cirenaica o l’aggressione all’Etiopia.
    11] Labanca 2007. Sulla persistenza nell’Italia contemporanea di pratiche esotizzanti di rappresentazione dell’alterità e di un razzismo che attinge ad immaginari propriamente coloniali si veda: Isneghi 1996; Tabet 1997; Gallini 2000; Castelli, Laurenzi 2000; Labanca 2000; Castelli 2003; Andall, Duncan 2005; Palumbo 2003; Ben-Ghiat, Fuller 2005.
    12] È quanto fa lo stesso Del Boca (2002: 115) quando sostiene che parlare delle atrocità commesse dagli italiani in colonia non significa negare gli “aspetti positivi” della nostra presenza in Africa per “lo sviluppo delle popolazioni da noi amministrate” o che sarebbe ingiusto “sottostimare il contributo dei singoli italiani, sul piano del lavoro, dei sacrifici, della fertile immaginazione”.
    13] Istituito nel 1952 dal Ministero dell’Africa italiana ormai in via di dismissione per documentare la storia della presenza italiana in Africa utilizzando gli archivi del Ministero stesso, il Comitato (a cui è da attribuire la perdita di carte di archivio, manomissioni e sparizioni di documenti) doveva trasmettere una versione del colonialismo italiano improntata all’esaltazione dei suoi lati positivi (di qui l’enfasi sull’opera) e assolutamente silente su quelli negativi.
    14] Le politiche attive della memoria sono le azioni “direttamente legate ai poteri politici che mirano a conservare o a cancellare il ricordo di taluni fatti storici” (Rossi-Doria, Fiocco 1997), come la loi memorielle francese che impone di inserire nei programmi scolastici una lettura positiva del colonialismo francese (Galimi 1997).
    15] La prima spedizione italiana in Libia risale al 1911, ma la vera e propria conquista militare del paese si conclude negli anni ’30 con la “pacificazione” della Cirenaica. Durante la colonizzazione demografica la colonia diviene meta di un’immigrazione di massa di cittadini metropolitani. Lo sforzo dei fascisti di incrementare la presenza di coloni ottiene i suoi frutti: nel 1939 dei 185.617 italiani residenti nell’Impero, 120.000 sono in Libia (Miége, 1968). La sconfitta nella Seconda guerra mondiale sancisce la fine del dominio coloniale. Dopo l’indipendenza raggiunta nel 1951, molti italiani abbandonano il paese: a rimpatriare sono i più poveri e indifesi, come i coloni dei villaggi agricoli che non hanno accumulato nulla; rimangono i professionisti, i proprietari di immobili e i vecchi concessionari che hanno tratto profitto dalle loro attività in Libia (Del Boca 1991). Nella seconda metà degli anni ‘50, l’inizio dello sfruttamento del petrolio e il boom economico fanno dimenticare agli italiani le sofferenze degli anni precedenti e permettono loro di continuare a godere dei privilegi derivanti dall’antica posizione dominante. Nel 1968 la collettività italiana in Libia contava 33.106 unità, la più numerosa nelle ex colonie (Ministero degli Affari Esteri 1969). Nel 1969, la rivoluzione degli Ufficiali Liberi rovescia la monarchia di re Idris e porta al potere il colonnello Gheddafi che dopo meno di un anno ordina la confisca di tutti i beni degli italiani e la loro espulsione dal paese. Oggetto dei provvedimenti sono solo quegli italiani (e i loro discendenti) stabilitisi nel paese durante l’epoca coloniale, mentre vengono “risparmiati” circa un migliaio di connazionali emigrati in Libia tra gli anni ’50 e ’60.
    16] “Il signor Angelo Del Boca e la verità storica”, Italiani d’Africa, maggio 1983.
    17] A proposito della “pacificazione” di Graziani: “Raggiunta, a prezzo di sacrifici, rinunce, pericoli per la propria incolumità e, purtroppo, anche di sangue versato da entrambe le parti (soprattutto da parte libica), la pacificazione di tutta la regione, i bengasini e gli stessi libici cirenaici poterono finalmente dedicarsi, senza più ostacoli e intralci di natura politico-militare, a sviluppare le loro pacifiche attività e dare un maggiore impulso al progresso della città e del territorio circostante” (Francesco Prestopino, “I colonizzatori della Libia Gheddafi e l’Italia”, Italiani d’Africa, dicembre 1989).
    18] Degli esempi possono chiarire quanto detto. Nel 1990, nel convegno dell’AIRL “Il passato per il futuro” sono organizzate diverse tavole rotonde sul tema della presenza italiana in Libia. Al convegno sono invitati noti giornalisti, storici e giuristi. La maggior parte degli interventi è su posizioni vicine all’AIRL, ma un piccolo numero di relatori, tra cui Valentino Parlato, Luigi Goglia e Salvatore Bono, si mostrano, in modo più o meno diretto, estremamente critici e pongono l’attenzione agli altri aspetti del colonialismo italiano, la guerra, la violenza sulle popolazioni, i privilegi dei dominatori. Questi interventi, in particolare quello di Parlato, provocano dure reazioni da parte dei presenti. Dieci anni dopo, le stesse “voci critiche” sono invitate a partecipare ad un nuovo convegno dell’AIRL e la situazione si ripete praticamente immutata. Il mio incontro con l’AIRL è stato sin dall’inizio spiazzante, per l’entusiasmo con cui sono stata accolta e la disponibilità dell’associazione ad ospitarmi nella loro sede e a farmi consultare i loro archivi. Tuttavia, sin dal primo incontro sono stata messa al corrente della diversità che caratterizza gli italiani di Libia, orgogliosi della propria piena “italianità” e, contemporaneamente della propria diversità sostanziale dai connazionali. In loro più della nostalgia mi è apparsa sin dall’inizio prorompente la volontà di confrontarsi con il mondo esterno e di capirlo, finanche di venirci a patti. Ma più di tutto mi è apparso evidente come la memoria e il passato rappresentasse per queste persone non un “oggetto” da conservare, ma piuttosto un motivo di vita, un problema attorno a cui ruota la loro esistenza e che ne determina l’azione.
    19] Sulla memoria autobiografica come ricerca di senso e come modo di contestualizzazione cfr. Jedlowski 2000; Leone 2004.
    20] Lilia Rima Caveri 1988.
    21] Prestopino 1995; Giuseppe Ladurini, “Nostalgia di bianche casette”, Italiani d’Africa, dicembre 1984.
    22] Iole Mezzavilla Ferrara 2002.
    23] Angelo Nicosia, La mia Bengasi, dattiloscritto.
    24] Michele Marconcini, “Come nacque il porto di Tripoli”, Italiani d’Africa, marzo 1984.
    25] Nunes Vais è membro di un’antica famiglia ebraica di origine portoghese e cittadinanza italiana, presente in Libia da prima del dominio italiano di cui tuttavia adotterà pienamente lo spirito.
    26] Roberto Nunes Vais 1982.
    27] Se è difficile dimostrare che i membri di un gruppo condividano una stessa memoria, come per Halbwachs, si può affermare che ciò che essi condividono è quello che hanno dimenticato del loro passato comune (Candau 1996: 64; Yerushalmi 1990b).

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