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    Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.2 Mai-Août 2012

    INTERNATI MILITARI ITALIANI


    Maria Immacolata Macioti

    mariaimmacolata.macioti@gmail.com
    Docente di Sociologia delle religioni e Sociologia della Comunicazione, Dipartimento di Scienze Sociali, Facoltà di Scienze politiche sociologia e comunicazione, La Sapienza, Università di Roma; Dirige il Master Immigrati e rifugiati, La Sapienza, Università di Roma; Coordina il Dottorato in Teoria e Ricerca sociale, Dipartimento di Sociologia e Comunicazione, La Sapienza, Università di Roma.


    Premessa

    Sono passati ormai decenni dalla Liberazione ma solo da qualche anno, con poche eccezioni, cominciano ad emergere i ricordi degli IMI, gli Internati Militari Italiani. Come mai questo lungo silenzio, questo forte ritardo nel far sentire la propria voce? La spiegazione andrebbe cercata, a mio parere, in una serie di fattori sociali oltre che individuali e psicologici.

    L’8 settembre del 1943 vede una serie di rastrellamenti da parte tedesca, segna la sorte di molti militari che vengono imprigionati a seguito del proclama di Badoglio. Seguiranno le deportazioni. Altrove si hanno repressioni sanguinose: Cefalonia, il caso più noto, più doloroso, non è, purtroppo, l’unico caso. Vengono, i militari prigionieri, trattati come lavoratori forzati: il che vuol dire che non viene applicata, nel loro caso, la Convenzione di Ginevra. Che non sono tutelati dalla Croce Rossa Internazionale. Sono IMI, internati, non prigionieri di guerra come gli altri.

    Stimati storici, tra cui Giuntella e Rochat, hanno ampiamente riconosciuto il dramma dell’esercito, vittima in primo luogo della nefasta politica fascista, degli errori e dell’insipienza dei comandi poi, con riguardo ai giorni della fuga del re al Sud, quando i militari vengono abbandonati senza chiare direttive, facendo di loro una facile preda per i tedeschi. Sono circa 600.000 quelli che finiscono nei campi di detenzione.

    La scelta della prigionia

    Pure, anche in circostanze così angosciose, molti di loro sono riusciti, come è emerso poco per volta, a salvare la fedeltà e l’attaccamento alle istituzioni, a dare una testimonianza di dignità anche in situazioni difficili. Molti infatti hanno rifiutato di essere rimpatriati per affiancare la Repubblica di Salò o passare all’esercito tedesco. Hanno scelto la dura prigionia nei campi. Più volte. Fino agli ultimi tempi del nazismo. Magari, inizialmente, hanno resistito in nome del giuramento fatto a quella stessa monarchia che li aveva prima implicati in una guerra assurda, pretendendo ingenti sacrifici di vite umane e quindi li aveva abbandonati senza direttive chiare, rendendoli facili prede dei tedeschi. Nei campi subiscono fame, percosse. Trattamenti umilianti, ripetuti nel tempo, colpiscono persone ormai denutrite, malate. Deboli. Che però continuano con tenacia, per la maggior parte, a scegliere di non rinnegare le proprie convinzioni: un racconto orale fatto il 24 febbraio 2010 da Michele Montagano, presidente vicario dell’Anrp [1], durante la presentazione di un numero della rivista «La Critica Sociologica» dedicato agli IMI, presso la Casa della Memoria e della Storia, a Roma ha sommosso la sala. Montagano ha infatti ricordato come lui e i suoi commilitoni, già indeboliti dal freddo, dalla fame, dai maltrattamenti, fossero stati obbligati a correre, in circolo, per sfuggire la frusta di un tedesco che, al centro, non lesinava colpi. Se qualcuno cadeva, doveva rialzarsi, barcollante, sotto la sferza, ad evitare il rischio di una pallottola. Ha narrato dei vagoni piombati, di viaggi di speranza (erano convinti, i militari italiani, di andare in Italia, di tornare in patria) che a un certo punto divenivano viaggi paurosi: una meta incerta, verso il nord. Condizioni di sporcizia, degrado. Fame. Vagoni divenuti latrine, morti e vivi insieme. Poi, l’arrivo, lo smistamento in un qualche campo. Ha ricordato che molti di loro erano sui vent’anni. Erano appena usciti dalle accademie. Erano partiti in guerra con i libri nello zaino, con la speranza di studiare per i primi esami universitari.

    Sono stati dichiarati, gli IMI, nemici del nazismo: nei campi presto imparano, vivono valori nuovi. Erano giovani fascisti adusi alla pronta obbedienza, all’esecuzione degli ordini: diventano in fretta adulti consapevoli. I racconti autobiografici che sono stati pubblicati, le voci che si sono levate parlano di un apprendimento della democrazia lì, nei campi. Perché paradossalmente è proprio nella cattività che i militari, o meglio una buona parte di loro, imparano, insieme, a reagire, a dare aiuto a chi più è in difficoltà, a comunicare agli altri le proprie conoscenze. Sappiamo dalle loro memorie, dalle loro storie di vita, di libri condivisi, di conferenze, di spettacoli teatrali organizzati, eseguiti: di tentativi, in genere, di cementare un senso di identità, basato su tratti culturali, su tradizioni, usi e costumi italiani. Si condivide cultura e resistenza: e la preparazione, l’ascolto di una radio clandestina, la comunicazione di notizie ne fa parte. Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati, tanti altri con la loro condotta e cultura mostrano di aver fatto una consapevole scelta di resistenza. Confermata giorno per giorno.

    Recentemente, questa forma di testimonianza e la resistenza nei campi ha avuto pubblici riconoscimenti, è stata confermata dalla attenzione specifica del Presidente della Repubblica [2].

    Difficili, i ritorni

    Perché solo ora se ne parla? Devono essere stati difficili, i ritorni. Pressoché impossibile, nell’immediato, spiegare una vicenda così difficile. Un esercito intero che ha consegnato le armi, che è stato fatto prigioniero: 600.000 persone. Una situazione vissuta, certamente, con sensi di colpa, con sentimenti di vergogna. Una vicenda che è stata individuale e collettiva, che ha rischiato di spezzare i singoli, che sono stati odiati, perseguitati, maltrattati, sottoposti ad angherie e lavori massacranti mentre erano affamati, denutriti, malati, picchiati. Come dar conto di notti e giorni di angoscia e rischi di degradazione a donne già fidanzate o mogli, che li avevano conosciuti come giovani brillanti, fieri dell’uniforme, fiduciosi in glorioso avvenire? Come parlare di tutto questo a figli troppo giovani per capire, troppo grandi per non comprendere che qualcosa di grave è occorso, che nulla potrà più essere come prima? [3] L’aveva scritto Carlo Levi a proposito della Shoah, molti di loro ne erano convinti: nessuno li avrebbe creduti. Nessuno, soprattutto, voleva riaprire ancora capitoli dolorosi e vivamente sentiti, in cui si era andati assai vicino alla guerra civile. Molti provavano una profonda vergogna per quanto occorso, mitigata solo in parte dalla consapevolezza di una prigionia subita con dignità.

    L’Italia era uscita distrutta da una guerra che l’aveva lasciata con un territorio ridimensionato, con una situazione economica disastrosa: inevitabilmente, i più giovani, quelli che erano abbastanza in forze hanno ripreso le note vie dell’emigrazione verso Francia, Belgio, Germania: molti moriranno in queste imprese. Basti per tutti il ricordo della frana della miniera di Marcinelle [4]. Il paese è povero, stremato, dilaniato dalla storia recente, da episodi oscuri Chi vuole sapere altre storie dolorose, sentire rievocare fatti tragici che riaprirebbero ferite non ancora ben rimarginate?

    Loro, i protagonisti, per lo più tacciono. Ripongono le poche carte conservate a stento, qualche pagina di diario. I cassetti si chiudono su memorie troppo dolorose per potere essere rivissute nell’immediato, per essere comunicate, accettate. Si preferisce, di regola, tacere: anche in famiglia. Pochi affrontano pubblicamente questo tema, in un paese che non è pronto all’ascolto. I pochi che pubblicano i propri ricordi, come Giovanni Guareschi, non ne parlano in casa: è come se le famiglie dovessero essere preservate [5].

    Scrive Renato Sicurezza, curatore di un estratto su I prigionieri e gli Internati Militari nella Seconda Guerra Mondiale, che la prigionia è già, di per sé, una situazione avvilente: e lo è ancor più quando riguarda dei militari, poiché si tratta, in questo caso, di un «…totale fallimento… della sua missione, della sua stessa esistenza e ragione d’essere». E aggiunge che questo è forse il motivo del lungo silenzio dei Prigionieri e degli Internati.” [6]. Ragioni sociali, quindi, in primo luogo, che rinviano alla oggettiva situazione di difficoltà dell’Italia nel secondo dopoguerra; e ragioni connesse alla specifica fascia di persone interessate, più gravate di altre a causa degli esiti del conflitto, doppiamente penalizzate dai politici che hanno portato il paese alla guerra e dai comandi militari che li hanno, di fatto, abbandonati, sacrificandoli. Ragioni psicologiche e sociali, quindi.

    Non è andata nello stesso modo per la Shoà, nel cui ambito ben presto sono emersi invece racconti biografici di ebrei reduci dai campi di sterminio: che venivano a inserirsi in secolari memorie di persecuzioni subite, ai tempi della cattività in Egitto, della schiavitù in Babilonia. Nell’identità ebraica il tema della persecuzione, quello dell’esilio sono stati sempre presenti. Si sono imposti nella tradizione ebraica, campeggiano nei Salmi. Una storia tormentata, quella del popolo ebraico. Che, nei secoli, ha assunto la persecuzione e l’esilio come temi fondanti della propria identità. Ha saputo assumere la Shoà come motivo identitario forte nel mondo di oggi. Ha rielaborato questo terribile lutto e l’ha saputo comunicare in più forme, in una ampia, corale narrazione che si è nutrita di scritti ma anche di un’opera capillare di testimonianze orali rivolte ai giovani, nelle scuole e altrove, da parte di sopravvissuti. Registi e film [7] sono anch’essi intervenuti a ricordare particolari momenti, specifici luoghi della persecuzione, rinnovando l’attenzione, impedendo l’oblio di questi accadimenti. Sono state raccolte interviste in tutto il mondo [8], sono stati fatti video, sono stati organizzati viaggi della memoria ai lager di un tempo.

    Non così per gli internati militari, non così per altri che pure hanno patito analoghe esperienze, come gli zingari [9]. La situazione degli IMI era oggettivamente ben diversa: impossibile riprodurre una costruzione identitaria simile a quella elaborata dal mondo ebraico.

    Impossibile altresì proporre una memoria collettiva quale quella che è venuta formandosi in Italia circa la Resistenza. Memoria che si è nutrita, in primo luogo, delle narrazioni di giovani uomini e donne vicini alla sinistra in genere, al PCI in particolare. Si è trattato di un legame forte, narrato, testimoniato, comunicato anch’esso da parte di molti protagonisti. Subito, e poi ancora nel tempo: ma era più facile, ché si trattava di una storia che aveva il sigillo della vittoria. La Resistenza viene riconosciuta dagli alleati, gioca un suo indubbio ruolo nella liberazione del paese. Una Resistenza, certo, dalle molte anime, in cui come è noto sono entrati a pieno titolo molti cattolici: che prenderanno ben presto il potere e lo terranno a lungo. Ai comunisti italiani resterà la possibilità, il compito di trainare memorie su quei giorni oscuri e difficili, in cui lo sgomento, le scelte sbagliate, la guerra civile erano sempre presenti, in agguato. La sinistra italiana si è decisamente riconosciuta nella Resistenza, ha saputo narrarla, comunicarla. Ha consolidato l’immagine collettiva di uno stretto, forte abbinamento tra opinioni politiche di sinistra e resistenza. In questo, creando un immaginario collettivo consolidato, come altre forze in campo non hanno saputo fare.

    Gli IMI: memorie e ricordi

    Oggi, a sessanta anni di distanza, in un mutato contesto, in una Italia meno povera, più protesa sul futuro, alcuni dei militari di allora hanno pubblicato scarni brani di diario, hanno offerto memorie ricostruite oggi, a partire da furtivi e forzatamente rapidi appunti di allora: emerge un materiale inedito che da un lato contribuisce a dare elementi per una ricostruzione storica, dall’altra ha certamente un valore affettivo, familiare: si fa sentire, evidentemente, l’esigenza di raccontare cosa è avvenuto perché si sente il dovere della memoria. Perché si riconosce il diritto alla memoria delle giovani generazioni, dei propri nipoti.

    Nei decenni trascorsi i ricordi si sono forse stemperati, si è imparato a conviverci. Si è probabilmente più in grado, a distanza di decenni, di fare una rilettura dei fatti di allora, di farsene una ragione. Di cercare di attribuire a questa devastante esperienza un qualche senso, un significato. E quindi oggi alcuni parlano, altri scrivono. Dicono che nella cattività hanno riscoperto la libertà, la democrazia. Michele Montagano, oggi Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, così interpreta la prigionia di un tempo:

    I giovanissimi tra gli internati avevano nutrito la loro adolescenza di entusiasmi e certezze. Facevano parte di una generazione allevata all’obbedienza cieca, pronta, assoluta nel duce, alla devozione al re, all’esaltazione della Patria, quindi il dramma che però sulla vita italiana dal 25 luglio all’8 settembre 1943 creò in loro incredibili tormenti di coscienza. Ora nei campi di prigionia si sentono traditi, ma arbitri finalmente del destino, obbedendo esclusivamente alla coscienza di uomini liberi che andava formandosi, paradossalmente, proprio in quei giorni di miseria, dietro il filo spinato: un misto di dignità nazionale e risorgimentale. [10]

    Sono, quelle che oggi emergono, memorie individuali, che nel loro insieme tendono però a dare un quadro unitario, a creare una narrazione condivisa. Comuni sono state, all’epoca, le vessazioni subite, il dolore fisico e spirituale patito, il luogo (i campi di detenzione) in cui tutto ciò è avvenuto. Ci sono quindi unità di spazio e di tempo (tra l’8 settembre e la fine della guerra) che accomunano i racconti, che fanno da sfondo alle singole vicende. Esprimono, le memorie di oggi, l’esigenza di narrarsi in termini di soggettività ma anche, se non soprattutto, di dare una testimonianza cui si attribuisce un valore di documentazione, di allargamento cioè della conoscenza, di rivisitazione dell’epoca e di quanto in essa si è iscritto.

    Si tratta, necessariamente, di memorie stringate, sintetiche: i protagonisti non sono usi alle esternazioni di sentimenti, di stati d’animo, né sono soliti ricorrere alla narrazione, o tanto meno a essere protagonisti di programmi televisivi che offrono memorie manipolate. Con poche eccezioni, non sono noti scrittori. Quelle che ci propongono sono per lo più memorie che privilegiano pochi anni di una lunga vita: sono, le loro, scarne tranches de vie. Il cui utilizzo è da tempo noto alla sociologia, che ritiene possa trattarsi di materiali preziosi.

    Non si spendono, di regola, in queste narrazioni, molte parole sul prima, sul dopo: si focalizza il tema dei campi, in rispondenza probabilmente alla percezione di una società assai mutata rispetto a quella di un tempo, in cui l’accelerazione dei ritmi di vita tende a espungere certi ricordi, a privilegiare la dimensione del futuro. La percezione dell’esistenza, oggi, di giovani che non hanno alcun ricordo, alcuna consapevolezza circa gli accadimenti della Seconda Guerra mondiale ha concorso, ritengo, a sollecitare alcuni ricordi. Prevalgono oggi infatti tempi brevi, si privilegia l’emozione sulla pacata riflessione, vi è un indiscusso dominio dei media: se non si riuscirà a comunicare al meglio, oggi, questa pagina di storia, si rischia che essa scompaia, che se ne perda il ricordo. Tanto più che stanno scomparendo i protagonisti. Che, se non sempre hanno saputo o potuto parlare ai figli, sembrano confrontarsi oggi volentieri con i nipoti, aprendo un nuovo capitolo di memorie familiari.

    La costruzione della memoria

    Sulla costruzione della memoria di una popolazione gravano, indubbiamente, le letture ufficiali, ma anche la volontà di gruppi e comunità di preservare memorie di sé, di autorappresentarsi: oggi è emersa, sta emergendo tra gli IMI questa esplicita volontà comune. Ma cosa si intende quando si parla di memorie comuni? Penso a memorie condivise. Non sono state necessariamente scritte con confronti reciproci: ma questi sono esistiti a monte. Nell’insieme, il lettore o chi ascolta può cogliere tratti condivisi, rilevanti. Significativi. Viene quindi attuandosi a posteriori, a mio parere, un lavoro di riconoscimento reciproco: che segna, secondo gli studiosi di questa materia, il passaggio dalla memoria comune alla memoria condivisa. Non solo e non tanto, quindi, una comune base di partenza, ma una concordanza sulla rilevanza, sulla significatività di questi ricordi.

    L’ipotesi, la speranza degli autori è probabilmente che questa memoria collettiva, oggi già comunicata e recepita in vari ambiti (ormai, anche in ambito universitario), possa poi entrare a fare pienamente parte di una memoria sociale. E alcuni storici e sociologi hanno raccolto queste istanze, hanno cominciato a riflettere su questi accadimenti proprio a partire dal materiale autobiografico esistente. A volte, aiutando l’emergere di altre memorie. Giuristi sono intervenuti a sostegno delle richieste di riconoscimento degli IMI. Il loro lungo isolamento oggi non è più tale.

    Siamo di fronte, forse, a rischi diversi da quelli del passato: se fino agli anni ’70-’80 si poteva a ragione temere la cancellazione di certe memorie, la tendenza all’oblio, alla cancellazione di memorie scomode come queste, oggi invece, anche grazie alle nuove tecnologie, sembra più fattibile la conservazione di singole voci, di varie tracce. Ed è forse più da temere quella che alcuni definiscono una ipertrofia della memoria. In questa ottica saremmo di fronte a un tale eccesso di memorie comuni e collettive da rendere difficile la costruzione di memorie sociali condivise. Non solo: l’eccesso di memorie può portare, a sua volta, alla loro cancellazione, a partire dal loro appiattimento. In questo senso, credo non vada sottovalutato il ruolo sempre più dilagante dei media, e la loro scelta di memorie che meglio si prestano alla spettacolarizzazione. In questo senso, le memorie degli IMI, poco telegeniche, poco fruibili da parte di un pubblico distratto e sollecitato da più parti, rischiano certamente meno il fenomeno della ipertrofia della memoria. Al più, potrebbero ancora correre il rischio di una effettiva marginalizzazione: ma non si tratta di un materiale così pubblicizzato, proposto e riproposto, da creare assuefazione e rigetto. In questo senso, le memorie degli IMI sembrano oggi correre meno rischi di altri tipi di memorie.

    Esiste quindi, oggi, da un lato la volontà di testimoniare una pagina non ancora pienamente letta della nostra storia e, dall’altro, l’interesse di molti studiosi che considerano queste memorie un materiale prezioso: da inserire in una più vasta storia, con letture che comprendono l’attento vaglio delle fonti. Forse l’esito finale sarà, e c’è da augurarselo, la maturazione di una storia pubblica più completa, meno diseguale, meno coinvolta dal mercato e dalla politica. Una storica come Anna Bravo in un suo intervento sul quotidiano “La Repubblica” [11] così ha scritto:

    La seconda guerra mondiale ha ancora molto da dire, a cominciare da quel che si intende per contributo di un paese o di un gruppo alla lotta antinazista (e a qualsiasi lotta) . Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto, tanto più in tempi di guerre contro i civili, misurarlo anche sulla quantità di energie, di beni, soprattutto di vite strappate al nemico; sul sangue risparmiato non meno che sul sangue versato.

    Oggi la maturazione dei tempi permette la rivisitazione di fatti fino ad ora poco noti, dalle vicende degli IMI a quelle delle persone che hanno perso la vita sotto il regime di Tito, nelle foibe o in mare: vittime di regola innocenti di odi nati nel precedente periodo in cui il fascismo aveva cercato di cancellare la cultura locale, chiudendo la stampa e le scuole che non avessero adottato l’italiano, bruciando villaggi.

    Non c’è, si chiedono in molti, il rischio di memorie contrapposte? Di una indigestione commemorativa, in cui entrerebbe anche la Giornata del ricordo, prevista per il 10 di febbraio? Certo, è difficile negare l’esistenza, oggi, di un’ansia di durata, di sopravvivenza che si esplicita anche nella tendenza a lasciare segni nella memoria urbana, a lasciare memorie, testimonianze: l’illusione della continuità, della durata non è certo estranea a queste scelte.

    D’altronde è noto che la memoria del passato è, in vario modo, malleabile, trasformabile. Basti pensare a paesi in cui si sono avute contrapposizioni spurie, tardive ma non per questo meno letali di letture, memorie, interpretazioni, fino a giungere a detestazioni e guerre: come nello Sri Lanka, in Ruanda e in tanti altri luoghi. Sono, possono certamente essere rischiose, le memorie.

    Ma qui non si tratta di memorie manipolate, bensì di memorie di fatti realmente occorsi, che chiedono rispetto, attenzione. Confronti. E dai confronti, anche duri, anche difficili, non può che emergere un equilibrio più consapevole, più maturo: una via che si è sperimentata in Sudafrica.

    Siamo di fronte, oggi, a memorie plurali che rispecchiano la complessità dei tempi. E’ quindi importante che le memorie degli IMI emergano, che siano conosciute, comunicate, interpretate dagli storici e più in generale dagli scienziati sociali con disponibilità e attenzione, con rigore: con confronti tra diverse voci, tra diverse fonti, senza strumentalizzazioni politiche o di altro genere. E, insieme, senza ossessioni commemorative, senza abusi. Siamo oggi, con riguardo alle memorie degli IMI, in una fase di rilettura, di comunicazione. Che risponde, insieme, al senso del dovere sentito dai protagonisti, alle legittime attese, al diritto di sapere da parte dei discendenti ma anche degli studiosi: storici, sociologi, antropologi, pedagogisti, psicologi. Temo che queste memorie non avranno, di per sé, valore preventivo, come auspicato da alcuni. Ma potranno avere certamente un valore formativo, con riguardo all’integrità degli individui, come suggerito ad es. da E Kattan ne Il dovere della memoria [12].

    Se questo processo non sarà costretto al ripiegamento, alla cancellazione e se, d’altro canto, si eviteranno i rischi della sovra-valutazione delle memorie, l’obiettivo, la prospettiva potrebbe essere quella della –lenta, difficile- costruzione di una memoria pacificata. Al cui interno potrebbero trovare una fuoruscita i singoli ricordi di coloro che troppo a lungo sono stati dei “prigionieri invisibili” [13].

    È stato con questi intenti conoscitivi che il trimestrale «La Critica Sociologica» ha raccolto racconti di protagonisti e di figli di protagonisti, voci diverse che hanno ricordato un periodo di sofferenza che ha riguardato molti. Con diversi timbri narrativi, con capacità comunicative diverse: Mariella Eboli ad esempio ha intessuto la narrazione dei suoi ricordi di figlia con brani di poesie paterne, di cui alcune riguardanti la prigionia, come IMI [14]: e durante la presentazione del n. 170 della rivista, ha raccontato che anche suo padre non aveva raccontato ai figli tutta la sua esperienza: solo dopo la sua morte Mariella aveva potuto conoscere due suoi scritti autografi, pieni di dolore e di rabbia per il trattamento subito: ‘A prigionia e Hitler è muort’.

    E durante la serata è stato letto ‘A prigionia. In più tempi, data la lunghezza: eppure nessuno ha perso la concentrazione, tutti ne hanno seguito, concentrati, la lettura, fatta in dialetto cilentano da Bice Foà Chiaromonte mentre dietro ai relatori scorrevano le corrispondenti parole italiane: chi ha poi scritto qualcosa in merito alla serata si è soffermato sull’emozione profonda data da questa lettura, da alcuni passaggi tra cui i versi finali, riguardanti un pezzo di bandiera bianca rimasto tra le povere cose di Mario Eboli:

    Me l’avevano data i generali
    Che s’erano spartute ‘u verde e ‘u rosso.
    S’aizaie int’all’aria sta pezzolla
    Stette nu poco ferma e appena ‘u viento
    N’alliccaie na ferza, me parette
    Priata ‘i sbendulià, ca me dicesse
    “A nuttata è passata e mo’ currite”.

    Anche un’altra figlia, Enrica Tedeschi, ha detto di essere stata convinta di aver saputo tutto dell’esperienza del padre Gianrico, noto attore teatrale che nei campi ha scoperto questa sua vocazione, fino a che ha letto una intervista che gli avevo fatto, intervista durata due lunghe giornate estive, in cui il tema era stato lasciato e ripreso, con lunghe pause dedicate a passeggiate sul bordo di un lago, a caffè e gelati, a scambi più formali, indifferenti: momenti soprattutto intesi a permettere a chi parlava di superare il momento della troppo forte emozione, di riprendere l’usuale timbro della voce. Enrica ha detto di avere conosciuto meglio il padre, attraverso queste pagine.

    Alla presentazione era presente Franco Ferrarotti, il direttore della rivista: che ha ricordato la situazione di sbandamento dell’esercito, abbandonato senza direttive dal re sabaudo, fuggito precipitosamente a Taranto, precipitosamente imbarcatosi: una fine ingloriosa per una antica dinastia di tutt’altre tradizioni. Era presente lo storico Luciano Zani, autore di un interessante articolo presente in questo numero, autore di vari studi in tema: è giusto, ha detto, che la storia degli IMI sia oggetto di interesse da parte degli storici, dei sociologi, degli scienziati sociali: sono stati uomini che hanno vissuto, sofferto, che hanno fatto scelte difficili. Alcuni, un numero contenuto, hanno scelto di combattere a fianco dei tedeschi, dei fascisti (186.000 al marzo ’44). Altri hanno fatto scelte opposte, a partire da varie, diverse motivazioni.

    Un’altra forma di Resistenza? Secondo Zani, parlare in questi termini può essere fuorviante, può far perdere di vista la specificità, la peculiarità della situazione degli IMI: schiavi di Hitler, i soldati semplici, costretti a lavorare per il nemico, eppure determinati a non combattere per lui, con lui. Costretti all’inedia, gli ufficiali. Che pure cercano di mantenere l’ordine nei campi, di dare un senso alle giornate, di aiutare se stessi e gli altri che a loro si rivolgono per trarne esempio di comportamenti, fiducia in una possibile risoluzione.

    Una storia che si comincia oggi a scrivere, che si basa quasi esclusivamente su ricordi di tipo autobiografico. Non necessariamente una storia ripetitiva, monocorde: per tanti che hanno resistito, altri, in numero certo inferiore, hanno firmato. Anche qui, con diverse motivazioni: la salute malferma, la nostalgia, l’idea che il vero tradimento era stato fatto con l’armistizio, con l’abbandono degli alleati tedeschi che pure erano più volte accorsi in aiuto degli italiani: in Africa, in Grecia [15].

    Proprio il fatto che le scelte si sono differenziate, che ci sono stati dei Sì e dei No rende così preziose e interessanti queste memorie: per comprendere meglio i no, dicevo durante la presentazione, dovremmo conoscere meglio anche i sì. E non lasciare che un fatto sociale così inesplorato e complesso resti appannaggio dei soli storici: mai come in questo caso la collaborazione tra discipline può essere proficua, come hanno mostrato questo numero monografico, questa presentazione. Come potranno mostrare nuovi materiali che è augurabile possano emergere nei prossimi tempi.

    Note

    1] Due le principali associazioni che si occupano di IMI: l’Anei (Associazione Nazionale Ex Internati), presente nella figura di Stefano Caccialupi, e l’Anrp (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione e loro familiari), presente con più voci nel n. 170 de «La Critica Sociologica».
    2] Cfr. di Olindo Orlandi, “La vicenda degli IMI sarà accolta nella storia?”, in Rassegna. Mensile socio-culturale della a.n.r.p., Dicembre 2004.
    3] Se i padri sembrano raccontare le loro esperienze, i figli scopriranno poi di aver saputo ben poco dalla loro bocca. Molto è stato taciuto per non ferirli, per preservarli. Forse anche per salvare il rispetto dei figli nei confronti dei padri.
    4] Vi muovono soprattutto emigrati italiani, per la maggior parte provenienti dal Molise.
    5] Lo ha raccontato Carlotta Guareschi, figlia dello scrittore, in un incontro del 6.5. 2005 alla sala S. Macuto in Roma.
    6] La pubblicazione è un estratto ( p. 143) dal volume, curato da Claudio Sommaruga e Olindo Orlandi, Il Dovere della memoria, edito dalla ANRP a Roma nel 2004: una raccolta di memorie e documentazione in cui si parla dei campi, dello choc del reduce, della depressione in agguato, dei ritorni accompagnati da mutismo, autocompatimento, incertezza del futuro, complesso della fame. Da rimozione.
    7] Vorrei ricordare in particolare l’opera di Claude Lanzmann, Shoah: un lungo film corredato da un libro; un’opera che fa vedere, sentire voci, luoghi, particolari di una tragedia che colpisce singoli individui ma diviene storia corale.
    8] Nota la capillare opera della Shoà Foundation.
    9] Recente, di Paolo Finzi, il DVD A forza di essere vento, sullo sterminio nazista degli zingari.
    10] La testimonianza di Michele Montagano è ripresa da una pubblicazione curata da Renato Sicurezza, uscita grazie alla ANRP. Il titolo è I Prigionieri e gli Internati Militari Italiani nella Seconda Guerra Mondiale e si richiama a un convegno precedente. La testimonianza è anche riportata in una pubblicazione curata da Nicolino de Rubertis dal titolo Testimonianze di tre deportati molisani nei campi di sterminio nazisti, uscita grazie all’Assessorato alla Cultura della Regione Molise a Campobasso, presso la tipografia “Grafica isernina”, nel gennaio del 2005.
    11] Cfr. La Repubblica del 26 aprile 2005, in apertura del Settore Cultura.
    12] E. Kattan, Il dovere della memoria, Ipermedium, Napoli, 2004.
    13] Cfr. di Simonetta Fiori, I prigionieri invisibili, La Repubblica, 2 dicembre 2004.
    14] Mario Eboli, E mo’currite, il Filo, Roma, 2008.
    15] È la posizione di Ugo Costa, espressa nel libro 8 settembre ’43 ho giurato, Memori, Roma, 2005.


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