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  • Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
    Marina Brancato (sous la direction de)

    M@gm@ vol.9 n.3 Septembre-Décembre 2011

    CASA DOLCE CASA


    Marco Pasini

    paso74@libero.it
    Laurea in Sociologia (Territorio e Ambiente), Università di Roma La Sapienza; Diploma di Master Teoria e Analisi Qualitativa. Storie di vita, biografie e focus group per la ricerca sociale, il lavoro e la memoria, Dipartimento di Sociologia e Comunicazione – Università di Roma La Sapienza.

    Impassibilità e immobilità delle ”pietre”

    Obbiettivo di questa proposta editoriale è esplorare un campo di ricerca - il domestico - non troppo frequentato dalle scienze sociali. Lo spazio domestico è uno spazio doppio: il suo perimetro recinge, circoscrive, trattiene; la sua estensione accoglie, ospita, contiene. Visto come vuota cavità può definirsi semplicemente come interno, in cui si può solo intuire la sua potenziale interiorità che fonda l’esperienza dell’abitare. Nello specifico gli oggetti domestici di cui ci circondiamo rappresentano quell’addomesticamento dello spazio caro alle scienze sociali, che ridefiniscono continuamente la dialettica natura vs cultura. Gli oggetti lambiscono lo spazio rappresentando la precisazione dei nebulosi contorni del desiderio: se ne impossessano e lo rilanciano in un progetto di vita. Osservarne le modalità di conservazione è penetrare nel cuore della casa, scandagliarne i confini estremi, individuarne i recessi, costruire una laboriosa stratificazione di cose, risorse, certezze, memorie. Attraverso essi l’abitante scava, fruga, colma, ripone e/o espone, nasconde, porta alla luce, in un incessante andirivieni tra il fondo e la superficie. Il tema della proposta editoriale è dunque la casa e la sua memoria. La declinazione che si intende dare alla proposta è: casa, memoria, oggetti.

    Oggetto sono le forme di memoria iscritte nei luoghi. La configurazione di memorie presente in un luogo può influenzare anche i modi in cui i soggetti fanno esperienza del luogo e contribuisca così a determinarne la sua eterogeneità, complessità e capacità di inclusione, aspetti centrali per la comprensione degli spazi. Guardare allo spazio come luogo vissuto, intreccio di narrazioni stratificatesi nel tempo. Lo spazio non è quindi visto come già-dato ma, simultaneamente, come prodotto e come processo. Si tratta cioè di considerare l'influenza reciproca tra lo spazio costruito attraverso le tracce materiali e immateriali (quali storie, memorie e immaginari) e i modi in cui questo è di volta in volta abitato e interpretato. Inoltre un luogo vissuto è sempre vissuto insieme ad altri: i modi in cui noi esperiamo e significhiamo il luogo sono interdipendenti da come gli altri lo usano e lo significano. La questione è tanto più interessante quanto più nel luogo “casalingo” si ospitano estranei, perché aumentano le possibilità di negoziazione e conflitto, intendendo quest'ultimo in una accezione neutra. I conflitti, infatti, strutturano e danno senso ai luoghi: da un lato possono assumere carattere dialettico e aprire il luogo a una pluralità di significati, storie, esperienze e modi di essere (e essere insieme agli altri), al polo opposto possono invece portare alla costruzione di confini impermeabili. L'approccio visuale consente di esplorare, varie sfere personali e vissute. Le immagini contribuiscono a costruire la realtà sociale, con ciò, anche lo spazio. Un concetto chiave nell'analisi dei luoghi è quello di atmosfera, il sentimento effuso nello spazio vissuto. È attraverso l'atmosfera che i soggetti inizialmente percepiscono i luoghi, si orientano in essi e si 'affezionano' ad essi. Nei luoghi domestici si alternano le atmosfere 'durature' con quelle 'situazionali'. Dalle analisi si può risalire al radicamento del soggetto nel mondo: se il soggetto lascia tracce di sé attraverso documenti fotografici è nel luogo che tali tracce possono sedimentarsi. Le tracce inscritte nello spazio contribuiscono a costruire la 'identità' del luogo.

    Il rapporto con la memoria è situato anche nelle rappresentazioni sociali che “producono” il vissuto. È interessante mettere l’aspetto mnemonico in relazione alla categoria “spazio”. Prendendo in esame alcune ricerche, si possono avanzare delle ipotesi: quando la memoria ha come focus il luogo anziché lo spazio, il ricordo personale non rimanda al sé, piuttosto è il luogo a diventarne referente d’appartenenza. In tale contesto emerge una memoria “spazializzata” e legata ad un determinato luogo, che diventa costituente di identità. Le storie personali sono formate dai luoghi.

    Per dirla con il sociologo francese Maurice Halbwachs [1], lo spazio ha dei legami con la memoria collettiva. Il ricordo può dipendere anche dagli oggetti materiali con i quali siamo in contatto, che rimangono tali e quali e ci offrono stabilità ed ordine. Nell’ambiente di ogni persona, nella propria casa o stanza, è impresso il suo marchio, grazie al quale segnala la propria presenza in quel determinato luogo, che trasforma a sua immagine e somiglianza creando una propria cornice, in cui ogni dettaglio ha un senso solo per gli appartenenti ad essa dato che corrispondono ad aspetti conosciuti unicamente da loro. In tutto questo ha molta rilevanza l’impassibilità e l’immobilità delle “pietre” (edifici, strade, vie, vicoli, mercati, muri ecc. ecc.) nei confronti dei fatti esterni, perché la loro fissità dà identicità e l’impressione di non cambiare, come gli stessi oggetti.

    Nella cornice spaziale l’ambiente materiale acquista potenza. Osservava August Comte che l’equilibrio mentale deriva in gran parte dal fatto che gli oggetti materiali con i quali siamo in contatto tutti i giorni non cambino, o cambino poco e, ci offrano un’immagine di permanenza e di stabilità. È come una società immobile e silenziosa, estranea alla nostra agitazione e ai nostri cambiamenti di umore, che ci consegna un sentimento di ordine e di quiete. Molti disturbi psichici si accompagnano effettivamente con un’incapacità di riconoscere gli oggetti familiari, così che ci troviamo sperduti in un ambiente instabile e straniero, e ci viene a mancare ogni punto di appoggio. Quando ci trasferiamo in un ambiente materiale nuovo, prima di esserci adattati attraversiamo un periodo di incertezza, come se avessimo lasciato dietro di noi la nostra personalità tutta intera. Il nostro ambiente porta impresso insieme il nostro marchio e quello degli altri. La nostra casa, i nostri mobili e il modo in cui sono disposti, tutto il modo in cui sono arredate le stanze dove viviamo, ci ricordano la nostra famiglia e gli amici che vediamo spesso entro questa cornice.

    Quando si descrive una casa, uno studio già possiamo intuire a che categoria sociale appartengono gli uomini che ci vivono. Ogni oggetto incontrato e il posto che occupa nell’insieme, ci ricorda una maniera di essere comune a molti uomini. Di fatto, le forme degli oggetti che ci circondano hanno un significato familiare che sappiamo decifrare. Quando un gruppo (domestico) – famiglia – è inserito in una parte dello spazio, la trasforma a sua immagine e nello stesso tempo si piega e si adatta alle cose materiali che gli oppongono resistenza. Si chiude nella cornice che ha costruito. Si resta uniti attraverso il ricordo degli spazi condivisi. Le immagini spaziali giocano un ruolo importante nella memoria individuale e collettiva. Ogni aspetto, ogni dettaglio di una casa ha in se un senso che non è intellegibile che per i membri che ci hanno vissuto, poiché tutte le parti dello spazio che hanno occupato corrispondono ad altrettanti differenti aspetti della loro struttura e della vita della loro società, per ciò che essi hanno avuto di più stabile.

    Quando si lascia una casa di cui si è affezionati si prova dolore e disorientamento. Muri e design che fanno parte del proprio piccolo universo e per il quale tanti ricordi si legavano a immagini ormai scomparse: una parte di se è morta con quelle cose. A volte si creca di ritrovare il vecchio equilibrio nelle nuove condizioni.

    Non c’è memoria che non si dispieghi in un quadro spaziale. Lo spazio è una realtà che dura. È sullo spazio, il nostro spazio – quello che occupiamo, dove passiamo e ripassiamo, a cui abbiamo sempre accesso e che in caso la nostra immaginazione o il nostro pensiero potrebbero ricostruire in ogni momento - che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione: è su di esso che il nostro pensiero deve fissarsi perché questa o quella categoria di ricordi possa riapparire. Non c’è gruppo, ne tipo di attività collettiva che non abbia qualche relazione con un luogo, uno spazio.

    Un esempio calzante può essere quello delle religioni, “la casa del Signore”; esse sono solidamente installate sul terreno, perché una società di fedeli è portata a distribuire nelle diverse parti dello spazio il maggior numero possibile delle immagini e delle idee che occupano il loro pensiero. Esistono luoghi consacrati, ce ne sono altri che evocano ricordi religiosi, ci sono dei luoghi profani, certi che sono popolati dai nemici del Signore, certi altri sui quali pesa una maledizione. I ricordi di un gruppo religioso sono stimolati dalla vista di certi luoghi, edifici, disposizioni degli oggetti. La separazione essenziale tra mondo sacro e profano si realizza materialmente nello spazio. Quando entra in un luogo sacro il fedele sa di ritrovarvi uno stato dello spirito, di cui ha già fatto esperienza, e che insieme ad altri fedeli ricostruirà, oltre che una comunità visibile, un pensiero e dei ricordi comuni.

    Un gruppo religioso, più di qualunque altro gruppo, ha bisogno di appoggiarsi ad un oggetto, a qualche pezzo di realtà che duri e che rievochi le cerimonie assistite. La chiesa non è soltanto il luogo dove si raduna l’assemblea dei fedeli e il recinto entro il quale non penetrano gli influssi degli ambienti profani. Innanzitutto, con il suo aspetto interiore, essa si distingue da qualunque altro luogo di riunione, da qualunque altra sede di vita collettiva. Ogni religione ha la sua storia, c’è una memoria religiosa fatta di tradizioni che risalgono ad avvenimenti spesso molto lontani nel passato e che si sono verificati in luoghi determinati. Sarebbe molto difficile evocare l’avvenimento se non si pensasse al luogo.

    La società religiosa si vuole persuadere di non essere cambiata, mentre tutto attorno a lei si trasforma. Non vi riesce che alla condizione di ritrovare i luoghi, o di ricostruire attorno a se un’immagine almeno simbolica dei luoghi nei quali si è costituita originariamente. I luoghi infatti partecipano alla stabilità delle cose materiali ed è fissandosi su di loro, chiudendosi nei limiti da loro tracciati, piegando i propri atteggiamenti alle loro disposizioni, che il pensiero collettivo del gruppo dei credenti ha le maggiori possibilità di immobilizzarsi e di durare: tale è la condizione della memoria.

    La maggior parte dei gruppi, non solo quelli che risultano dalla vicinanza permanente dei loro membri, dentro una città, una casa, un appartamento, ma anche molti altri, in qualche modo disegnano sul terreno la propria forma, ritrovando i propri ricordi collettivi nel quadro spaziale così definito. In altri termini, esistono tanti modi di rappresentarsi lo spazio quanti sono i gruppi, in modo da costruire uno schema fisso entro cui rinchiudere e ritrovare i propri ricordi.

    Solo l’immagine dello spazio, in ragione della sua stabilità, dà l’illusione di non cambiare attraverso il tempo e di ritrovare il passato nel presente. Le nostre emozioni dipendono anche dai luoghi dai luoghi in cui passiamo il nostro tempo.

    Paesaggi della memoria

    Le periferie brutte e ostili alla vita dell’uomo riflettono la cattiva città sociale che le ha prodotte. Ma esse sono anche strutture molto giovani e, come tali, conservano una potenzialità grazie alla quale sono destinate a migliorare. Col trascorrere del tempo verranno sottoposte a correzioni continue, con un passaggio da forma approssimativa, propria di una cultura di fondazione, a una nuova forma consolidata di stratificazione. Avremo così città continuamente corrette. Le nuove trasformazioni proposte si sovrappongono al lavoro già compiuto.

    La città comunica attraverso la suggestione e la memoria dei suoi spazi. Accompagna dentro la narrazione della storia, diviene collettiva. Questa è la forza e la potenza degli spazi che, in virtù del loro linguaggio, comunicano. Lo spazio è un elemento evocativo, capace di offrire emozioni.

    Esistono dei valori simbolici – che formano l’identità - che sono più forti di quelli fisici. Le costruzioni che si aggregano attorno a uno spazio collettivo creano la città che rappresenta la forma più avanzata di vita organizzata, delle sue relazioni sociali e delle possibilità che l’uomo ha di incontrare l’altro suo simile. Il vero senso della città non sta dunque nel costruito, ma negli spazi di relazione (strade, piazze, giardini [2], slarghi).

    Riconoscere l’identità entro la quale siamo cresciuti è un primo segno per reagire allo smarrimento creato dalle trasformazioni. È un modo per riconoscere un denominatore comune attraverso il quale agire. D’altronde l’architettura è specchio del suo tempo; tenta di dare una forma alla storia. Il luogo come traccia tangibile per preservare il ricordo. Un contesto cognitivo che diventa emotivo, in cui conta il contenuto e la funzione più che la struttura. La memoria è fatta anche di materiali.

    Le città ci parlano. Camminiamo tra le case e ascoltiamo le voci della memoria. Nelle case nascevano generazioni di figli, i quali rischiavano di abitarvi per tutta la vita. Anni addietro, le case erano disagevoli, piene di povertà, ricche di niente; c’era, forse, l’essenziale, ma erano solari e accoglienti; vi risuonavano allegre voci infantili. Grappoli di case che quasi s dovessero tenere compagnia.

    Per i nostri nonni la casa era un bene immutabile negli anni, anzi il rimanere in quella di famiglia era un valore aggiunto mentre andarsene era negativo: si tagliavano le radici, colpendo l’identità. Adesso non è più così, condividiamo un valore diverso, più legato alla mobilità, alle esigenze professionali. La stessa casa muta continuamente, in maniera cosmetica ma anche nel senso percettivo dello spazio.

    Si può definire bella, una costruzione dove gli spazi sono organizzati in modo da rispondere alle esigenze dell’uomo e all’equilibrio dell’ambiente. L’uomo non vive in maniera astratta, ma dentro un contesto e in un preciso tempo storico, per cui l’idea della casa deve portare con se questi riferimenti. La storia dell’uomo è anche lo specchio della sua abitazione. Da quando esiste l’uomo è presente la necessità di avere un rifugio, una protezione, una casa. A voler ben guardare la storia della casa interpreta la storia dell’umanità.

    L’identità con il luogo è un punto di partenza. Nelle società più povere e primitive, abitare era anche un modo per vivere i miti e i riti della collettività; era un modo per relazionarsi alla storia. Ancora oggi, quando siamo stanchi e provati da una giornata di lavoro sentiamo il bisogno di rifugiarci a casa per recuperare le energie e ripartire. Questo perché tra le pareti domestiche ritroviamo – prima ancora che gli aspetti tecnici e funzionali – la memoria e l’identità delle nostre stesse radici.

    La casa è un nesso che ci ricollega al passato. In un tempo in cui la casa si vende e si compra a metri quadrati, esiste la casa di lusso, di città, quella di montagna o al mare, la casa di rappresentanza, la vera dimora non la troviamo in queste interpretazioni. La casa ancora oggi deve rispondere a un bisogno fondamentale dell’uomo che, inconsciamente, ogni giorno si ricollega alla memoria del territorio in cui si situa.

    Forse nel mondo della globalizzazione, in un’epoca in cui tutto apparentemente diventa accessibile, la casa mantiene un significato legato a una cultura locale profondissima. Nella storia dell’uomo, la casa è elemento di riferimento del trascorrere del ciclo solare, una costante che stabilisce un legame fra l’uomo e il mondo esterno; è elemento che caratterizza un luogo fisico, una componente geografica, ma soprattutto una condizione di storia, quindi di cultura. Si relaziona con il vivere della collettività. Walter Benjamin parlava della casa come della nozione di patria, insistendo molto proprio sul valore collettivo.

    L’idea stessa del risiedere, per sua natura, porta inevitabilmente il significato di relazionarsi all’intorno, trasformandosi in una ricchissima idea dell’abitare. Oltre la casa è possibile vivere il cortile, la piazza, che sono aspetti evidentemente collettivi; è un modo per sentirsi parte dell’intera comunità. Tali spazi di transizione e comunicazione, veri e propri prolungamenti dell’aspetto privato, creano rapporti con la condizione pubblica.

    L’abitare porta con se la storia dell’uomo e il riconoscimento di una condizione etica propria dello spazio che è lo specchio del nostro tempo. Casa, città, spazi collettivi, sono entità che dobbiamo costruire nell’agire di ogni giorno.

    Rispetto solo a mezzo secolo fa, la casa è più sola. Nella casa dei nonni c’era sempre qualcuno, c’erano dappertutto frotte di bambini, i muri trasudavano vita. I quartieri romani del primo Novecento, i quadrilateri delle case operaie che prevedevano tutto, dal cortile ai servizi igienici, dalle botteghe artigiane agli asili, pulsavano di giorno e di notte, erano sempre in movimento con la staffetta dei turnisti, il panettiere che tornava quando altri uscivano per la fabbrica o il l’ufficio, i bambini che a gruppi sciamavano verso la scuola. Tutto questo oggi è rarefatto da schemi meccanici omologanti: paesi da cui si parte insieme quasi scattasse una sorta di appuntamento di massa, tutti di corsa al volante per puntare sulle città sempre più presto o più tardi per evitare gli ingorghi; quartieri in cui si esce tutti nello stesso momento e si rientra tutti insieme, perché gli orari sono sostanzialmente simili, soprattutto nel terziario avanzato. Fra l’ondata di uscita e di rientro c’è silenzio, queste case sono abbandonate a se stesse.

    La casa oggi ha valore grande, perché ci passiamo un tempo più qualitativo, si valorizza, si vive e si gode di più lo spazio. Cinquanta metri in più per la camera, oltre al letto, verranno vissuti e goduti giorno e notte. Lo scrittore svizzero Alain de Botton ha scritto che una brutta stanza può condensare i sospetti che nutriamo sull’incompletezza della vita, mentre una stanza illuminata dal sole e ben piastrellata può rafforzare la speranza che ci portiamo dentro.

    Sociologia visuale di riferimento

    La casa, come luogo di interazione e decoro, è un’area di indagine della ricerca visuale. Ovvero una sociologia dell’abitazione, l’analisi della casa intesa come forma di comunicazione complessa, al contempo luogo di esibizione dello status ed espressione del gusto, delle aspirazioni e della personalità di chi vi abita.

    Altra rappresentazione “casalinga” è la celebrazione del proprio cibo; di solito le persone idealizzano le loro pietanze e le portate si presentano come elementi con estese informazioni contestuali. La ricerca sul significato sociale del cibo, sulla sua vita sociale - trasformandola in immagini – diviene una sfida accattivante per comprenderne la cultura famigliare a tracciarne un percorso mnemonico.

    La fotografia diviene il referente visuale di un rituale nella vita domestica e risulta essere utile a ritrarre relazioni e processi sociali.

    “Una ricerca sull’abitazione che non ha semplicemente studiato come gli italiani arredino le case, ma ha sperimentato la ricerca visuale in altri campi. Riteniamo infatti che lo studio dell’arredamento ci consenta di ottenere indicatori interessanti dal punto di vista degli stili di vita, del ruolo che l’abitazione ha oggi nella cultura e nella società post-industriale”.

    Così il Professor F. Mattioli “giustifica” la ricerca visuale, socioantropologica e urbanistica – effettuata in collaborazione con la Facoltà di architettura “L. Quaroni” - sugli stili abitativi effettuati in particolare sul quartiere di Roma La Romanina.

    Anche il Laboratorio di sociologia visuale del Dipartimento di Sociologia di Bologna fece una ricerca che si concentrava sulla casa; specificatamente sulla negoziazione dello spazio domestico analizzando le porte delle stanze dei figlie come indicatori.

    La sociologia visuale si utilizza in ambiti simili quando si vuole studiare il cambiamento (in genere in ambito urbano, ma anche in rapporto a dinamiche e rituali sociali di vario genere) adottando un’analisi di tipo before and after. In molti casi si tratta di un’analisi dei processi di interazione, oppure di una descrizione di ambienti e spazi sociali.

    Confronto fotografico tra lo spazio verde disponibile in un’abitazione di un quartiere residenziale (a sinistra) e quello disponibile in una villetta di periferia ( a destra). Fonte: Mattioli F., Introduzione al metodo visuale, in Itinerari Visuali, Rubrica Tematica Diretta da M. Pasini e G. Maggi, vol. 7, n. 2, maggio/agosto 2009

    Douglas Harper (Duquesne University, Pittsburgh, PA), fra i “padri fondatori” della visual sociology e sociologo visuale statunitense, in occasione dell’annuale Meeting dell’International Visual Sociology Association (20-22 luglio 2010, Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna), ha presentato il suo ultimo lavoro - splendidamente visual - in collaborazione con la Professoressa P. Faccioli, The Italian Way. Food & Social Life. Gli autori hanno analizzato un aspetto affascinante della cultura alimentare italiana:

    “All'estero l’Italia ed il suo cibo sembrano essere sostanzialmente sinonimi, come chiarisce il volume, esiste infatti, un complicato intreccio nella società italiana, fatto di preparazione, consumo e relazioni che passano tutte attraverso la tavola” [3].

    Le parole di commento di Howard S. Becker (2010) sui contenuti del testo sono state le seguenti:

    “Una profonda e complessa analisi delle pratiche di consumo alimentare e delle loro ripercussioni sulla vita quotidiana, fatta attraverso un'analisi ricca di informazioni e con un'esposizione descrittiva elegantemente informale. La fotografia è parte integrante del volume, non come mera illustrazione ma come puro argomento di riflessione. Durante la lettura si comprende la complicata natura di un autentico pasto italiano, analizzando tra le altre cose quali devono essere gli ingredienti, come deve essere servito, e quali possono essere le variazioni accettabili. Raramente ho letto un testo sociologico che mi ha fatto capire quante cose non sapevo”.

    Questa ricerca sulla vita sociale del cibo italiano, è presentata dagli autori come un’etnografia con una particolare enfasi sulla fotografia.

    “Nella ricerca sul significato sociale del cibo l’esperienza di cenare con circa ventotto famiglie italiane (con alcune delle quali più volte), fu un’esperienza di lavoro sul campo che ha costituito la base di un’etnografia. Abbiamo fatto interviste sul campo e condotto successive interviste con le famiglie, spesso con le foto fatte nel corso delle cene. La sfida era di comprendere la cultura italiana del cibo per trasformarla in immagini, per visualizzare concetti che avrebbero raccontato una storia teorica sulla cultura, in questo caso la cultura italiana del cibo” [4].

    L’intento è quello di focalizzare ciò che le persone facevano nel loro spazio domestico, mostrando come il cibo fosse un elemento nella rappresentazione sociale della famiglia italiana [5].

    Tortelloni fatti a mano ripieni di fagiano tritato. Fonte: Harper D., La vita sociale del cibo italiano: la sfida di un’etnografia visuale, in Confronti visuali: per una ricerca interdisciplinare, (a cura di) F. La Rocca e M. Pasini, vol. 5, Collana “I Quaderni di M@gm@” Aracne Editrice, 2011, pp. 97-108








    Note

    1] M. Halbwachs, La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano 1987.
    2] Il giardino porta il mondo della natura dentro una dimensione domestica. Nel giardino riconosciamo l’intero mondo esterno ed esso rappresenta in miniatura un territorio selezionato dove poter effettuare delle scelte che rimandano ai sogni.
    3] D. Harper, 2010.
    4] D. Harper, La vita sociale del cibo italiano: la sfida di un’etnografia visuale, in M. Pasini, F. Larocca (a cura di), Confronti visuali. Una ricerca interdisciplinare, vol. 5, Collana “I Quaderni di M@gm@” Osservatorio Processi Comunicativi, Aracne Editrice, 2011, p. 93.
    5] La rappresentazione teatrale - ultima entrata nella restituzione delle tematiche sociali – tocca argomentazioni culinarie per non cadere nell’oblio. La nuova produzione del Teatret Om “I maltagliati”, ha il suo punto focale in una donna anziana in piedi nella sua cucina che prepara un piatto di pasta per un ospite. Attraverso la cucina e l’arredamento della sua casa essa rivive la propria vita. Rif. www.teatretom.dk.

    Bibliografia

    AA. VV., Visual Studies, Vol. 25, N. 2-3 (September / December 2010).
    Crepet P., Dove abitano le emozioni. La felicità e i luoghi in cui viviamo, Einaudi, Torino 2007.
    Faccioli P. e Losacco G., Nuovo manuale di sociologia visuale. Dall’analogico al digitale, Franco Angeli, Milano 2010.
    Faccioli P. e Harper D., The Italian Way. Food & Social Life, University of Chicago Press, Chicago 2011.
    Halbwachs M., La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano 1987.
    Mattioli F., La sociologia visuale: che cosa è, come si fa, Bonanno Editore, Roma 2007.



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