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    M@gm@ vol.5 n.3 Juillet-Septembre 2007

    DALLA TEORIA ALLA PRATICA DEL PRATICAMENTE VERO SENZA IL DOMINIO DELLA CONTABILITÀ


    Augusto Debernardi

    augusto.debernardi@tiscali.it
    Laureato in Sociologia all'Università degli studi di Trento. Dal 1971: è stato componente dell’équipe del Prof. Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste; diplomato all’INSERM di Pargi in epidemiologia Psichiatrica; coordinatore dell’équipe sociopsicologica dell’Alloggio Popolare Gaspare Gozzi di Trieste; componente dell’équipe O.M.S. per la psichiatria; collaboratore Unità Operativa dell’istituto di Psicologia del CNR per la prevenzione malattie mentali ed autore di parecchie pubblicazioni; editor del Centro Studi per la salute Mentale, Collaborating Center W.H.O.; fondatore dell’U.O. per l’epidemiolgia psichiatrica ed autore di numerose ricerche e valutazioni; specializzato in statistica sanitaria e programmazione sanitaria; esperto nel settore della cooperazione nel campo della salute mentale nella Repubblica di Argentina e del Cile; Coordinatore Sevizi Sociale presso l’ASS Isontina; direttore servizi minori Comune di Trieste; Collaboratore dell’Associazione Oltre le Frontiere per le questioni dell’immigrazione; collaboratore della CARITAS della diocesi di Gorizia per la questione del manicomio di Nis (Serbia); Direttore di Area Provincia di Trieste; Presidente dell’ITIS (Istituto Triestino per Interventi Sociali); componete dello staff del direttore generale ASS Triestina; Presidente Co.Ri. (Consorzio per la riabilitazione); animatore dell’associazionismo in temi culturali e dell’integrazione europea. Fino al 1971: collabora con l'ARIP di Parigi (Association pour l’intervention psycho-sociologique); è assistente all’Istituto di Psicologia Sociale e di Psicologia del Lavoro dell’Università degli Studi di Torino; componente in qualità di sociologo al Segretariato per la Psichiatria della Provincia di Cuneo; consulente del Centro di Orientamento Scolastico e Professionale di Cuneo dove tra l’altro ha lavorato alla taratura degli strumenti testistici; consulente per la P.O.A. per l'Istituto Psico Medico Pedagogico di Latte di Ventimiglia.

    A Trieste circola un mensile di cultura che si chiama “Arte Cultura Trieste” grazie allo sforzo dell’editore Claudio Hammerle Martelli che è anche critico d’arte e poeta. E’ una rivista importante anche se non ha molte pagine per numero - di solito 30/34 su carta patinata ed apparentemente démodé - che dà notizie e permette a volte qualche riflessione. Nei tempi che corrono è cosa rara nel panorama culturale troppo condizionato dalla società dello spettacolo. Vi scrivono in forma volontaria diverse persone non perché, in quanto autori, siano di scarso rango, anzi, ma perché sanno ancora procedere nella donazione della loro produzione culturale. Questi autori attenti alla cultura ed all’arte forse hanno in comune la loro “disappartenenza” e la loro “diversità” dai circuiti dell’omologazione anche se le tentazioni sono dietro ogni angolo. Sull’ultimo numero del mese di ottobre Roberto Fabris, ottimo poeta, propone alcune riflessioni che hanno come titolo “la vita tra teoria e pratica”. Potremo anche intendere il suo intervento di apertura come una spinta alla necessità del bene, quello che si può fare direttamente quando si può e ci si imbatte nella relazione diretta ed il bene che si potrebbe fare indirettamente col potere, prendendolo magari, ricercandolo, bramandolo per poter fare più bene. Due diverse modalità. Apparentemente. E poiché sto riflettendo da un po’ su alcune figure sociali che hanno sullo sfondo il numerario che riesce ad infrangere valori e relazioni attraverso la meccanica della razionalizzazione esasperata ed esasperante che mira al “dominio”, mi viene immediato esporre queste prime considerazioni che propongo per una sociologia più sociale.

    1550: Carlo V convoca a Valladolid, capitale di Castiglia e Léon, (città dove andò a morire Ettore Fieramosca) una seduta straordinaria del Consiglio delle Indie - Consejo Real y Supremo de las Indias (che fu soppresso solo nel 1834) - per avere una risoluzione sulla disputa fra mons. Bartolomé de Las Casas e l’altro teologo ed umanista Juan Ginés Sepùlveda. Il primo era dalla parte degli Indios (semplifichiamo per ragioni di spazio editoriale) e l’altro no, niente affatto, perché detti Indios erano “barbari e sacrificavano bambini” e li definiva humuncoli. Per de Las Casas, frate domenicano, niente più “encomienda” (affidamento, incarico, ed oggi il dare titolo di commendatore) ovvero quell’istituto giuridico che comportava l’assegnazione degli amerindi come manodopera coatta (schiavi cioè) per le proprietà degli spagnoli. Un affidamento ai signori spagnoli insediati nelle terre di oltre mare con la finalità della loro conversione ed evangelizzazione. Ovvio. Ma encomienda è anche parola che è assai vicina ad “enmienda” che vuol dire correzione, cioè punizione contro i crimini divini come andava ragionando l’altro teologo ed umanista, in opposizione alla “riduzione del danno” e della “tolleranza” come si può dire oggi, dove “riduzione del danno” stava e sta nell’evitare i danni che provocano i sedicenti salvatori. Come si può intuire il Consiglio delle Indie era un organismo amministrativo creato per assistere il re ma anche per dirimere questioni che sorgevano fra i poteri temporali della chiesa e quelli degli apparati imperiali oltre che per le questioni complesse come la filibusteria.

    Cerchiamo di ricordare alcuni fatti storici che tutto sommato sono, secondo chi scrive, più attuali che mai.

    Il 2 giugno 1537 venne emanata dal papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, la bolla papale Veritas Ipsa (chiamata anche Sublimis Deus) nella quale con la sua apostolica autorità metteva fine alle numerose dispute che avevano come teatro le varie università europee per decidere se gli abitanti del Nuovo Mondo dovessero essere considerati animali superiori o uomini inferiori. Il Papa tenendo conto della dottrina teologica e della documentazione a lui pervenuta, volle porre fine alle dispute ed emanò il verdetto: "Indios veros homines esse". Le testimonianze di frati che arrivarono a Roma per informare il santo padre di ciò che accadeva in America agli Indios ed ovviamente all’insaputa dell’imperatore, ebbero sicura influenza nella decisione pontificia. Carlo V, che per gli Spagnoli era Carlo I e che per erudizione diciamo che se la doveva anche vedere con le 95 tesi di Lutero, emanò a sua volta le “leyes nuevas” dopo qualche anno, sette o giù di lì. Le leggi del re dei due mondi dove il sole mai tramontava e la bolla pontificia erano due dispositivi legali decisamente dalla parte degli amerindi e tenevano conto degli indirizzi di de Las Casas. Ma, come è facile intuire, ebbero facile decadimento, certa inapplicazione e la storia andò avanti con il suo angelo che guarda all’indietro, come più o meno sappiamo: genocidio. Non che fosse il primo nella storia del genere umano.

    Nel decadimento delle leggi reali, in questa non applicazione di principi e leggi quadro, nella diatriba fra i due servitori della chiesa e dei poteri reali e temporali c’era in gioco qualche cosa di grosso che ha a che fare col potere. In gioco c’era il diritto di intervenire, il relativismo morale e tante altre cose assi meno nobili ma sempre tendenti al “bene”. In breve: de iusto bello.

    Saltiamo ed arriviamo al 1948 e precisamente al 10 dicembre a Parigi, quando l’ONU innalzò a proprio cardine principale la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. Uscire dalle atrocità della seconda guerra mondiale fondando nel 1945 le tavole statutarie delle Nazioni Unite e dopo tre anni arrivando alla “dichiarazione” (anche fondamento dei principi del trattato costituzionale europeo del 2004) è un fatto degno di nota ed ammirevole, anche se di per sé non impegnava gli stati aderenti. Per avere un impegno un po’ più sostanzioso occorre attendere ancora una trentina di anni. Infatti, possiamo dire che tale Dichiarazione fu poi accettata nel 1975 a Helsinki anche dalle superpotenze e da quasi tutti gli stati importanti e meno (35 all’epoca) ed è il fondamento di quei principi inalienabili del diritto internazionale generale che gli esperti chiamano ius cogens. “Gli uomini nascono e muoiono uguali nei diritti“. A Helsinki ebbe origine un nuovo organismo che oggi conta 55 stati aderenti e che è l'OSCE, Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.

    Da questi fondamenti deriva che il bene degli altri avrebbe potuto essere imposto col potere di intervento quando lo stato “ospite” (o barbaro) non rispettava tali dritti. Balcani, Iraq (quasi), Africa ed altre parti del mondo divennero teatri delle costruzioni di pace e di prosperità con le guerre, le armi. I nostri eserciti intervennero. I nostri stessi governanti pur allevati dai sani principi di rifiuto della guerra (ma della violenza chissà?), ebbero modo di dare il via libera ai bombardamenti su Belgrado e dintorni. Ma è bene ricordare che le stesse ONG che operavano sul campo spinsero i loro rispettivi governanti a tali interventi come nel Kosovo. ”Le droit d’ingérence” fu ben delineato da Bernard Kouchner (credo nel 2004) che fu anche collaboratore in Biafra nel 1971 dell’organizzazione Secours Médical Français che, anche grazie al suo contributo, fu trasformata in Médecins sans Frontières nel 1979. Nel 1980 Kouchner con altri medici lasciò questa organizzazione e fondò Médecins du Monde che fu molto attiva nel portare aiuto ai “Boat People” provenienti dal Vietnam nel mare del sud della Cina e ne fu il primo presidente fino al 1982. Oggi è il capo della diplomazia del Quai d’Orsay, ovvero il ministro degli esteri francese. Sono tappe importanti di un nuovo uomo politico/umanitario non prive di significato, se non altro perché ci fanno pensare a qualche cosa di ancor più complicato. Ovvero. “Se poi i paesi e i popoli che intervengono sono a loro volta colpevoli di atti barbarici direttamente o per gravi omissioni (Srebrenica, dice qualche cosa?) come la mettiamo?” Certo, avremo sempre qualche nostra magistratura di varia ampiezza nazionale od internazionale a consolarci (o quasi) con il suo aprioristico ed esaustivo intervento che stabilisce il colpevole, ma non sempre se non mai la colpevolezza e la stessa colpa.

    Dal tempo di Aristotele si ragiona sulla guerra giusta. Egli affermava che essa è tale solo se è in vista di pace. Emanuele Severino rispondendo ad uno studente - non ricordo in quale occasione e luogo - diceva che la guerra è sempre ingiusta e poneva però la questione della giustizia intesa come l’adeguamento dell’uomo all’ordinamento del mondo ritenuto vero. E’ importante questa affermazione perché ci dice immediatamente che è la pace la condizione per vivere questo ordinamento. E dunque essa è autenticità per l’uomo stesso. Ma se viene meno la verità dell’ordinamento, se è sensato solo l’adattamento-a-come-stanno-le-cose (quelle derivate, quelle determinate dalla realtà delle superpotenze) allora abbiamo la crisi e l’adattamento che ne consegue è solo alla “forza” espressa da chi ne detiene il monopolio che, come affermava Weber, è lo stato. Ma ci si adegua anche alla forza del danaro che non è cosa convenzionale ma forzosa, imposta. Ed a questo punto chiunque può porsi la domanda, parafrasando il Vangelo, “può uno stato lasciare tutto e darlo ai poveri?” Questo è il pensiero che più mi è rimasto impresso attraverso le parole di Emanuele Severino.

    Alcuni documenti dei centri che si adoperano per la pace affermano che nel sistema giuridico europeo una guerra è ritenuta giusta se integrante una prassi conforme al diritto positivo. Per questa ragione, se si ricorda, Norberto Bobbio pensò giusta la guerra condotta contro l’invasione del Kuwait ad opera del rais iracheno. I valori universali stanno poco nel diritto positivo, anche se abbiamo la Dichiarazione, perché sembrano stare di più nel diritto naturale. Ma non tutti sono d’accordo su tale affermazione specie chi è più orientato dalle dottrine materialistiche.

    Insomma: siamo al punto che la politica contemporanea non è un birignao né una boutique e che spesso le decisioni sono prese in altri altrove ed in tempi assai veloci.

    Ma ritorniamo al nostro desiderio modesto - si fa per dire - di fare il bene. Con l’ingerenza per far del bene, cioè con l’utilizzo del potere si dimentica troppo spesso la semplice (e complicatissima) proprietà delle cose umane, quella che ha - invece - bisogno di tanta umiltà per essere controllata e cioè la “autopoiesi e/o autoreferenzialità”. Sta lì, secondo me, la grossa difficoltà, proprio nella autopoiesi in primis, piuttosto che nella seduzione del denaro che pure c’è ed è sostanziale specie od anche se meno si conta. Sono cose che ho appreso frequentando nel Cile dove ancora imperava Pinochet ed in Argentina, appena discesi dalla scranna i generali, alcuni intellettuali di alta risonanza mondiale come Humberto Maturana, Manfred Max-Neef, Bencho Ruben Ferro ed alcune persone torturate dalle burocrazie dei regimi dittatoriali del potere militare. Fra queste persone/amici ne ricordo i nomi, come Eduardo, Enrica, Rosa, Carlos, Juan … Le loro storie erano terribili, irraccontabili; basti pensare che ad uno di essi che faceva il sociologo domandai cosa gli era successo. Egli mi rispose “non molto, sono passati due anni e non riesco ancora dormire in nessuna maniera”. Era il 1988. Persone e parole che sempre mi fanno riflettere. Sentiamo sempre dire con ironia e supponenza da questo e da quel personaggio della politica di ogni livello che questo o quello sono autorefereneziali. Lo dicono per “screditare” l’altro, come bastasse lanciare un’accusa. Il fatto greve è che invece, senza saperlo appieno, si cita una proprietà, non un semplice difetto che appartiene solo all’altro in quanto nemico od avversario. Lì sta la complessità infinita che richiede duro lavoro. Altrimenti … sarebbe così facile sopprimere gli enti inutili! Il Consiglio delle Indie di cui dicevo all’inizio è durato 300 anni!! Vorrà ben dire qualche cosa.

    Simone Weil, morta a 33 anni nella sua ricerca, nel suo servire la Resistenza e la Verità, scrisse “… tutto ciò che sfugge agli interessi dei singoli è lasciato alle passioni collettive, le quali vengono sistematicamente incoraggiate. Un partito politico è una macchina per fabbricare passioni collettive. Il primo scopo e l’ultimo dei partiti politici è (però) il loro potenziamento dimenticando così gli ideali che li mossero”.

    In breve, si può davvero pensare che il bene si possa fare col potere da solo senza passioni? Probabilmente se riuscissimo a costruire brandelli di comunità capaci di suscitare passioni, far circolare l’affettività per davvero, tutto ciò significherebbe aver messo in campo quella cosa strana ed ignota che è la sussidiarietà come si dice oggi (e ieri). Ma battere l’autopoiesi è difficile e duro, specie quando questa è proprietà di cose forti, gagliarde come quelle statali o pubbliche come si dice. Per non dire dei super-stati. Specie se, inoltre, siamo schiavi, come lo siamo, del “PIL” che fa sì che una carezza donata non conti niente. Ma quando una cosa non è contabilizzata può permettere le condizioni che a loro volta permisero ad un parigino che riconobbe il persiano ospite del loro ambiente sebbene fosse vestito all’occidentale (per essere meno stigmatizzato) di porgergli la domanda “… ma come si fa ad essere persiani?” (Lettres Persanes del barone di Montesquieu, 1721, che hanno come modello l’antecedente romanzo epistolare dell’italiano Giovanni Paolo Marana “L’esploratore turco” che i francesi tradussero spesso se non sempre con “spione”). Stupore e ingenuità, assurdità ed egotismo, stupidità e intelligenza, filia e carità, bontà e benevolenza e tantissime altre cose belle, bellissime come l’amore che fanno della vita una o la dignità della stessa, vivono perché non sono contabilizzate, come quelle azioni del volontariato sociale, culturale, sportivo ... Ma è difficile per chi osserva, per chi vuole redimere, per chi è “già contabilizzato” e contabilizzante percepire il diverso e la diversità che “è”, che “sono”. Esse rompono il quadro, il potere stesso che non c’è senza scambio contabile senza numerario. Difficile dare a Cesare quel che è suo … per non dire a Dio.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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