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  • Santé mentale et imaginaire social à l'âge de l'inclusion sociale
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
    M@gm@ vol.4 n.4 Octobre-Décembre 2006

    IL SELF, LA VITA E IL LAVORO: L'ESPERIENZA DEI GRUPPI ISADORA DUNCAN


    Pietro Barbetta

    barbetta@mediacom.it
    Direttore della Scuola di Counselling del Centro Isadora Duncan - www.viamuratori.it - Professore di Psicologia Dinamica presso l’Università di Bergamo, Didatta di Psicoterapia presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Centro Siciliano di Terapia della Famiglia, European Institute of Systemic Therapies (Milano), Curso Intensivo de Terapia Familiar (Santiago di Compostella); Svolge attività di formazione, consulenza e supervisione clinica in Italia e all’estero (Argentina, Brasile, USA, Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera); E’ autore di numerosi saggi apparsi in lingua italiana, inglese, spagnola e portoghese.

    Nell’intervista Abecedario di Claire Parnet a Gilles Deleuze (Parnet, 2005), recentemente pubblicata su DVD, alla lettera b, l’intervistatrice chiede a Deleuze di parlare del bere. Deleuze, che aveva bevuto molto, sollecitato intorno alla questione del limite, dice: “Cos’è il limite è complicato, lasciami pensare … in altre parole l’alcolizzato è colui che non smette mai di smettere di bere.” In questa definizione vi è una straordinaria evocazione del pensiero di Bateson a proposito dell’alcolista. La sfida simmetrica con la bottiglia, di cui parla Bateson, viene così descritta da Deleuze: “Non smette mai di essere all’ultimo bicchiere. Cosa vuol dire … E’ un po’ come nella magica formula di Péguy: non è l’ultima ninfea che ripete la prima ma è la prima che ripete tutte le altre e l’ultima. Allora, il primo bicchiere ripete l’ultimo. L’ultimo è quello che conta. Allora, cosa vuol dire l’ultimo bicchiere per un alcolizzato. Mettiamo che si alzi la mattina, se è un alcolizzato della mattina - ce ne sono di tutti i tipi - ed è interamente proteso verso il momento in cui arriverà l’ultimo bicchiere. Non è il primo, il secondo, il terzo a interessarlo, è molto di più …” (Deleuze, in Parnet, 2005).

    Deleuze aggiunge qualcosa di interessante a queste considerazioni, qualcosa che, a mio avviso, spesso manca al clinico che si occupa di alcolismo. Secondo una lettera pubblicata da uno dei fondatori dell’Anonima Alcolisti, fu Jung il primo a sostenere l’incurabilità dell’alcolismo attraverso il trattamento psicoterapeutico. Jung aveva sostenuto che l’unico rimedio consisteva in una vera e propria conversione religiosa. In termini batesoniani, in un deutero-apprendimento. Come mai una persona si trova di fronte alla necessità di una conversione? “C’è tutto un aspetto sacrificale in questa disposizione al bere, alla droga. Si offre il proprio corpo in sacrificio per qualche motivo, forse perché c’è qualcosa di troppo forte, che non si potrebbe sopportare senza alcol. Non è questione di sopportare l’alcol è […] Sì, è la vita, è qualcosa di troppo forte nella vita. Non è solo qualcosa di terrificante, è qualcosa di troppo forte, di troppo potente nella vita.” (Deleuze, in Parnet, 2005)

    Pare che Forel fosse stato il primo psichiatra a domandarsi come mai lui non riuscisse a curare gli alcolisti in quanto psichiatra, e lo chiese a un calzolaio, che invece ci riusciva (Ellenberger, 1976, p. 335). Questi gli rispose che per curare gli alcolisti bisognava essere astemi. Deleuze dice qualcosa di diverso, egli descrive le ragioni interne per cui smettere di bere sembra dover consistere in una vera e propria conversione. La vita per colui che beve è “qualcosa di troppo forte”, se pensiamo alle grandiose descrizioni di Rudolf Otto (1966) a proposito del Sacro, ci accorgiamo che ciò che suscita il tremore, la soggezione, ciò che è tremendo e numinoso, il sacro appunto, altro non è che il rapporto tra le descrizioni di Deleuze e le prescrizioni di Jung. Ciò che è sacro, in questa prospettiva, è sempre un frammento, come il frammento del legno della croce di Cristo di Santiago di Compostella, come il numero corrispondente a una lettera dell’alfabeto ebraico nella Gematria cabbalistica.

    Il Self, in questo quadro, non è altro che un tentativo storico di organizzare un controllo laico sulla vita, ciò che Max Weber aveva magistralmente descritto nella formula ascesi mondana. Qual è allora questo ordine del Self? E qual è il rapporto tra la dipendenza, alcolica o da droghe, e la schizofrenia? Quale il nesso tra ciò che in inglese viene chiamato propriamente delirium, quello stato di alterazione percettiva indotto da sostanze, e ciò che viene definito delusional disorder, il delirio schizofrenico? Sembra trattarsi dell’idea che ci sia qualcosa, il Self appunto, che, come parte, tenga sotto controllo il tutto da una posizione trascendente. Uso qui prevalentemente il termine inglese Self (maiuscolo) perché vorrei sottolineare un aspetto storico-sociale decisivo nella costruzione della moderna cultura del Self che alcuni studiosi fanno risalire al Seicento, per più di una ragione. Foucault, per esempio, proprio in relazione alla storia della follia nell’età classica, osserva un punto chiave del pensiero di Cartesio che, come noto, aveva trasformato questa istanza in disciplina filosofica. Sebbene non sia esclusa dalle sue considerazioni filosofiche, la follia viene trascurata a vantaggio del sogno. La follia è un cattivo esempio di dubbio, il sogno invece è un buon esempio. Per un buon esercizio meditativo non devo confrontarmi con un termine esterno quale è il folle, devo ricordarmi del sognatore che io stesso sono stato e che sarò nuovamente. Come se Cartesio accettasse di confrontarsi con l’apollineo, ma tenesse assolutamente fuori dal proprio Discorso il dionisiaco. La follia è l’assolutamente altro, il sogno è forse una deformazione di qualcosa di reale.

    Il problema non è in effetti che io mi sforzi di considerarmi un folle che si considera un re; e nemmeno che mi chieda se non sono un re (ovvero un capitano turingio) che crede di essere un filosofo rinchiuso a meditare. La differenza con la follia non è stata provata: è constatata. Non appena i temi della stravaganza sono evocati, ecco che la distinzione scoppia, come un grido: sed amentes sunt isti […] “Ma costoro sono dei folli” (terza persona del plurale, essi, gli altri, isti) (Foucault, 1972, p. 648). In altri termini Cartesio contrappone il dormiens, che sono io, al demens, che è l’altro. Il metodo del dubbio si esercita sul dormiens che sono io, e mi rende del tutto stupefatto, il mio stupor è quasi in grado di persuadermi, “sono nell’incertezza della mia propria veglia. Ed è in questa incertezza che io mi decido a proseguire la meditazione” (Foucault, 1972, p.646). Riguardo al demens non c’è alcun esercizio del dubbio metodico: “non sarei meno folle se mi regolassi sui loro esempi” (Descartes in Foucault, 1972, p. 646). Il movimento di Cartesio, nel togliere di mezzo qualsiasi possibilità di confronto con la follia e il delirio, mette al sicuro la propria meditazione e, con questa, il soggetto in quanto condizione di una certezza apodittica che si trova solo a patto di un rifiuto del confronto con l’altro. Di qui la possibilità di fondare una soggettività trascendente in grado di tenere sotto controllo i propri pensieri, di produrre certezze apodittiche e idee chiare e distinte, in grado di manipolare il mondo indefinitamente ai propri fini. Ciò che Heidegger chiamava il pensiero della tecnologia dispiegata: l’impossibilità di trattare l’argomento della follia se non in termini medici.

    Bateson affronta la questione della trascendenza del Self, non si confronta in modo diretto con Cartesio, né con la tradizione filosofica occidentale. Piuttosto osserva le conseguenze pratiche della mentalità occidentale applicata alla vita quotidiana. Tuttavia l’osservazione che: “[…] non è possibile che in un sistema che manifesti caratteristiche mentali una qualche parte possa esercitare un controllo unilaterale sopra il tutto”, non può non richiamare la critica foucaultiana a Cartesio. L’esempio di Bateson è noto: immaginiamo di tagliare un albero. L’uomo occidentale vede questa operazione come un’azione finalistica dell’io che taglia l’albero. L’io, unico centro di controllo dell’azione del taglio dell’albero, viene invece decostruito da Bateson nella seguente maniera: “Più correttamente si dovrebbe scomporre la questione come segue: (differenze nell’albero)-(differenze nella retina)-(differenze nel cervello)-(differenze nei muscoli)-(differenze nel movimento dell’ascia)-(differenze nell’albero), ecc. Ciò che viene trasmesso lungo il circuito sono trasformate di differenze … una differenza che produce una differenza è un’idea o unità d’informazione” (Bateson, 1972, p. 349).

    Secondo Bateson il Self è un espediente semplificatorio. Attraverso la postulazione di un io si postula un’entità trascendente al sistema, che lo controlla e agisce finalisticamente, in modo da ottenere dal sistema ciò che vuole. La vicinanza di queste considerazioni alle analisi svolte da Nietzsche a proposito del soggetto sono impressionanti. In più punti Nietzsche osserva come l’io o, come scrive in Aurora, “il cosiddetto ‘io’ ” (Nietzsche, 1981, p. 106) altro non sia che un’illusione della possibilità di controllare la vita, come se la vita possedesse, nel suo essere vissuta, una sorta di pilota, di nocchiero, di kybernetes che garantisce, da un piano di trascendenza, la possibilità di esercitare su di essa un potere e un controllo definitivi. La critica, esplicita oppure implicita, è ovviamente rivolta al cogito cartesiano e alla messa in sicurezza dell’esistenza attraverso la trascendenza del controllo. Nietzsche osserva: “La nostra opinione circa noi stessi, che abbiamo trovato per questa falsa strada, il cosiddetto ‘io’, lavora però, d’ora innanzi, sul nostro carattere e sul nostro destino”. Qual è dunque questa “falsa strada” di cui parla Nietzsche? Quella dell’ “io penso”, oppure quella dell’ “io voglio” (Nietzsche, 1977, pp. 39-40). Chi però è riuscito a usare la migliore metafora per descrivere il processo di costruzione sociale di questo Self è, a mio avviso, senz’altro lo stesso Foucault.

    Il Panopticon di Bentham, nella descrizione di Foucault, è un progetto di carcere modello. A pianta circolare, con al centro una torre di controllo abitata da un sorvegliante che, attraverso le feritoie, vede, senza essere visto, la sagoma del carcerato che si trova in una della tante celle che si dislocano circolarmente lungo tutto l’arco del perimetro di ogni piano del carcere. Le finestre, in vetro opaco, permettono al sorvegliante di controllare continuamente la sagoma del carcerato. Il carcerato, che non vede il sorvegliante, non saprà mai, in alcun momento, se il sorvegliante lo sta o meno osservando, ma in qualunque momento lo può presupporre. L’idea di un carcere di questo tipo è un’idea pedagogica: l’interiorizzazione del sorvegliante. Chi è dunque questo sorvegliante di cui parla Foucault se non il cosiddetto “io” di Nietzsche, ovvero il Self, pensato come entità trascendente che tiene interamente sotto controllo il sistema, del quale parla Bateson? In effetti il carcerato si può considerare del tutto riabilitato quando ha interiorizzato pienamente il sorvegliante, quando cioè è diventato finalmente il portatore del Self-control. Non è un caso che questo progetto venga da un filosofo anglosassone, Jeremy Bentham, e segni il coronamento di un’epoca in cui il mondo puritano, sorto dalle correnti più rigorose e intransigenti del protestantesimo, pone con gran forza la questione del Self.

    Come hanno osservato Berchovitch (1975) e Paden (1998), il puritanesimo, fin dalle sue origini, e in particolare dal momento in cui si stabilisce come modo di pensare e sistema di vita nel New England, sente il forte bisogno di tenere sotto controllo il Self, che viene rappresentato quale fonte primaria del peccato e del tradimento. Perché ciò avvenga è necessario che il Self venga sostantivato, si trasformi cioè da un pronome che rappresenta una mera funzione sintattica indicante la riflessività impersonale, in una cosa che può essere nominata e accompagnata da un articolo e, perché no, da un pronome possessivo: il mio Self. E’interessante osservare però come nel mondo puritano il Self non fosse affatto considerato, per il solo fatto di esistere, come entità autonoma, qualcosa di positivo. Tutto al contrario, il Self era la fonte di ogni malvagità, o addirittura il demonio stesso. Proprio per questo motivo l’analisi del Self diventava fondamentale. Si trattava però di un’analisi profondamente critica, il controllo sul Self presupponeva una comunità di uomini retti, che fornisse i criteri di verità attraverso i quali il Self veniva imbrigliato e controllato rigorosamente. In primo luogo si trattava di bandire qualsiasi istanza immaginaria, una sorta di iconoclastia dell’animo umano. Ad esempio venivano banditi gli specchi che, riflettendo l’immagine di sé, potevano fornire lo spunto per un’illusione di autoaffermazione profondamente peccaminosa.

    Questo tipo di tecnologia del Self sembra avere agito sulla costruzione storico-sociale della trascendenza del soggetto che può controllare pienamente le proprie azioni, ben più in profondità della filosofia cartesiana del cogito. Questa può bensì avere dato un contributo al pensiero occidentale nella direzione di ritenere possibile il pieno controllo delle proprie azioni in conseguenza del metodo che, nel produrre la prima certezza apodittica, produce poi idee chiare e distinte, tuttavia la diffusione di pratiche sociali che miniaturizzano e scompongono i gesti della vita quotidiana rendendo produttiva ogni nostra azione hanno le loro origini e radici in una trasformazione profonda della mentalità. La microfisica del potere, così come la intende Foucault, è costituita precisamente dall’analisi e dalla descrizione di queste pratiche sociali quotidiane e del determinarsi e trasformarsi, attraverso tali pratiche, di tutti quei saperi che costituiscono il grande arazzo della modernità.

    Ma non è questo il modo in cui l’occidentale vede la sequenza degli eventi che caratterizzano l’abbattimento dell’albero; egli dice: “Io taglio l’albero”, e addirittura crede che esista un agente delimitato, l’ ‘io’, che ha compiuto un’azione ‘finalistica’ ben delimitata su un oggetto ben delimitato (Bateson, 1972, p.349). Quando Bateson scrive ciò, a proposito della sua descrizione dell’azione di abbattere un albero, ancora una volta si distacca nettamente dalla teoria sociologica dell’attore sociale che non può non presupporre qualcosa come un “io” che calcola, in modo strategico l’efficacia delle proprie azioni. Adesso forse appare più chiaro il perché della forte polemica con Haley [1], e in particolare della famosa frase batesoniana: “l’idea del potere corrompe sempre”. A mio avviso l’elemento corruttivo consiste precisamente nell’ipotesi di trascendenza del Self. L’io, quale elemento trascendente e capace di controllare l’intero sistema e l’intero processo si pensa come un manipolatore assoluto: “lavora però - come ha osservato Nietzsche -, d’ora innanzi, sul nostro carattere e sul nostro destino”. Quindi e innanzitutto non si tratta di un’idea sbagliata che non ha conseguenze. L’idea del potere è un’idea che corrompe, cioè che ha conseguenze nefaste sul nostro agire.

    L’osservazione necessita di un dispositivo e il dispositivo costituisce la texture dell’osservazione, comprese le pratiche sociali che intervengono su quanto viene osservato. La schizofrenia della psichiatria tedesca dell’Ottocento passava attraverso l’analisi al microscopio dei tessuti cerebrali dei pazienti deceduti, quella della prima metà del Novecento attraverso le pratiche dell’universo concentrazionario manicomiale: terapie elettroconvulsivanti, sedativi, letti di contenzione, quella del secondo dopoguerra attraverso la psichiatria territoriale, le psicoterapie di comunità, ma anche le teorie dei neurotrasmettitori e la somministrazione dei neurolettici. L’osservazione contemporanea della schizofrenia è guidata dai farmaci antipsicotici atipici di nuova generazione: clozapina, olanzapina, ecc. Farmaci che riducono al minimo gli effetti collaterali e che agiscono sui cosiddetti sintomi positivi del disturbo. Lo schizofrenico contemporaneo, sotto l’effetto dei nuovi farmaci non delira, non ha allucinazioni, o poco, si alza la mattina per andare a lavorare e va a letto presto. Non esce mai per desiderio, non lo desidera. Uno splendido puritano del New England, uno splendido lombardo. Il bevitore invece cerca di curarsi con un pharmakon alternativo, così il tossicomane. Un fai da te per procurarsi il delirio, ma anche per avere la forza di lavorare. Imperativo puritano irraggiungibile. Potere e, direbbe Deleuze, lavoro: “Si ritiene quasi che bere, drogarsi, ecc. renda possibile qualcosa di troppo forte, anche se c’è un prezzo da pagare, è chiaro, ma in ogni caso è legato a lavorare, lavorare. E poi quando tutto si rovescia, quando bere impedisce di lavorare, quando la droga diventa un modo di non lavorare, è il pericolo assoluto, perde qualsiasi interesse. E ci si accorge sempre più che si credeva l’alcol o la droga necessaria, e invece non lo è affatto. Forse bisogna esserci passati per accorgersi che tutto quello che si credeva di poter fare grazie alla droga o all’alcol, si poteva fare anche senza. […] Io ho avuto l’impressione che mi aiutasse a produrre dei concetti. E’ strano … a fare dei concetti filosofici” (Deleuze, in Parnet, 2005).

    Dunque il potere, ma anche il lavoro. O, come direbbe Foucault, il potere in quanto esercizio di tutte quelle pratiche che servono a tenere in vita, a rendere corpi docili: la riproduzione sociale. Di fronte a ciò si affacciano sia l’alcolismo - e la dipendenza da droghe - che la schizofrenia, ma in due modi differenti. La dipendenza è un modo, maledetto, per procurarsi quel delirio che, senza la sostanza, non viene. Da una parte si pensa che ci darà la forza di lavorare, di produrre. Cioè di eseguire l’imperativo della modernità. Dall’altra ci darà il coraggio di affrontarla, questa modernità puritana e inesorabile che ti costringe a pratiche ripetitive e irriflessive, non solo in quanto operaio metalmeccanico della catena di montaggio, come nei film di Chaplin e di Lang, ma anche come ingegnere, architetto, medico. Oggi persino i cosiddetti “creativi” altro non sono che scimmie ripetitive e monotone di un’epoca in cui ancora D’Annunzio, Modigliani e Toulouse-Lautrec inventavano pubblicità.

    E la psicoterapia? Quanto la psicoterapia sia diventata, in gran parte del lavoro nei servizi, uno strumento di controllo sociale rigido, quanto le idee degli psicoterapeuti appaiano oggi, nel loro complesso, vecchie e ripetitive, incapaci di confrontarsi con le trasformazioni che investono in primo luogo la famiglia è misurabile dalla maggiore influenza avuta dai modelli strategici e comportamentisti. In questi mesi in Francia si assiste a una battaglia portata avanti dagli psicoanalisti e dagli psicoterapeuti sistemici contro l’offensiva delle TCC, come chiamano loro le terapie cognitivo-comportamentali, che presentano modelli d’intervento terapeutico improntati a rigidi protocolli di valutazione, simili ai protocolli medici. In Italia, gruppi e associazioni corporative si scagliano in modo aggressivo contro nuove forme di intervento, come il counselling, mostrando una verve inquisitoria che non potrà che sfociare nella definizione di un mansionario rigido. Nelle università italiane la psicologia, anziché venire considerata tra le scienze umanistiche e sociali, viene aggregata sempre più all’intelligenza artificiale e alle neuroscienze. Le metafore biologiche e ingegneristiche la stanno facendo da padrone e la mente diventa sempre più un campo di battaglia, un terreno di conquista.

    A chi, anche tra coloro che devono curare gli alcolisti, non verrebbe voglia di bere nel pensare che anche noi siamo sottoposti allo stesso meccanismo di riproduzione sociale che induce gli alcolisti a bere e i tossicomani a prendere droghe? Insomma, il bere e il drogarsi sono modi artificiali per cercare di uscire dal meccanismo puritano così bene descritto da Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Si tratta di un paradossale tentativo di sottrazione, che ha come risultato una parodia: invece di non smettere mai di smettere di lavorare, non si smette mai di smettere di bere. Se l’alcolista è un Self ripudiato, ma che nel suo riprodurre continuamente il suo stato di delirium fa tragicamente il verso al capitalismo, lo schizofrenico al Self non accede neppure, non ha bisogno di farsi ripudiare, non ha bisogno di indurre il delirio attraverso l’uso di sostanze. Su questo punto il mio pensiero su Gregory Bateson non può fare a meno di richiamarsi alla tradizione ermetica, analogica e metaforica che declina nel Seicento, questa dottrina delle analogie e delle connessioni nascoste cui è stata sostituita, come ha osservato Foucault (1967) un’epistemologia delle idee chiare e distinte. Se l’io trascendente che Bateson descrive come errore epistemologico dell’occidentale medio ha qualcosa a che vedere con la metafora foucaultiana del Panottico di Bentahm, allora l’ipotesi che entrambe queste figure di controllo derivino, almeno in parte, da una tradizione di pensiero che pretende di cancellare l’immaginario può orientare un’ipotesi di ricerca critica su un aspetto della modernità.

    Bercovitch (1975) sottolinea come all’eliminazione degli specchi dalla cultura puritana del New England corrispondesse, nel Rinascimento italiano, una vera e propria diffusione dello specchio, concepito come strumento in cui l’uomo rimira se stesso quale massimo capolavoro del creato, immagine e somiglianza di Dio. Gli studi di Yates mostrano come, proprio negli ambienti accademici inglesi, il dibattito sull’arte della memoria avesse assunto il tono di una vera e propria battaglia ideologica legata al ridimensionamento, se non addirittura all’eliminazione, dell’elemento immaginario dalle tecniche rimemorative. Ciò aveva contrapposto, al volgere del secolo XVI, la filosofia di Giordano Bruno, e del suo allievo scozzese Alexander Dicson, agli accademici di Oxford che, anche in conseguenza delle posizioni sulla grazia divina emerse dalla Riforma protestante - in particolare in merito alla dottrina del libero arbitrio - intendevano far avanzare una vera e propria riforma del pensiero che partisse da una revisione radicale dell’arte della memoria. Si trattava di una nuova tecnologia basata sul metodo step by step, ispirata alla dottrina logica di Pietro Ramo: “Ramo accantona immagini e immaginazione e irrobustisce la memoria con l’ordine astratto. Bruno fa di immagini e immaginazione la chiave di un’organizzazione significante della memoria” (Yates, 1972, p.223). Si tratta dunque di un conflitto delle interpretazioni intorno a che cosa significa pensare. Con le applicazioni del metodo di Pietro Ramo al pensiero si assiste a una vera e propria riforma della memoria, e più in generale della mentalità. Riforma che viene descritta in modo efficace da Paolo Rossi: “Alla metà del Cinquecento, Pietro Ramo distacca la memoria dalla retorica (alla quale apparteneva per tradizione antichissima) e la trasforma in una delle parti o elementi costitutivi della dialettica o nuova logica. Il metodo esercita una funzione classificatoria. La logica è una topica universale. Il problema del metodo si identifica con quello della memoria” (Rossi, 1991, p. 51).

    In Inghilterra si assiste a una duplice manifestazione culturale, a una sorta di scontro tra modi di pensare. Da un lato l’influenza di autori come Bruno e John Dee, l’esperienza del teatro elisabettiano, l’opera di Shakespeare riprendono gli elementi più salienti della cultura immaginativa rinascimentale: il sogno, il delirio, la follia, ben rappresentati nell’opera shakespeaeriana - si pensi all’Amleto, al Re Lear, alla Tempesta -; dall’altro l’influenza calvinista e puritana, ispirate a un rigorismo morale estremo che deve necessariamente trasformarsi anche in un rigorismo culturale e intellettuale. Appare plausibile che una concezione della memoria e del pensiero di tipo logico-razionale abbia avuto conseguenze funzionali alle nuove concezioni teologiche e della religiosità quotidiana emergenti dalla Riforma e fosse particolarmente adatta a una dottrina dell’esame di coscienza che partisse dalla disamina degli inganni impliciti nel Self, cioè nell’idea di un essere umano che ha bisogno di mettere sotto controllo il Self, di renderlo asservito alla necessità divina e umana attraverso una rigorosa pratica di autocontrollo. Là il mondo dell’analogia, qui il mondo della distinzione rigorosa.

    Nell’opera Le parole e le cose, Foucault (1967) descriverà questa svolta epistemologica, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, precisamente come il passaggio da una dottrina delle analogie a una dottrina delle distinzioni. Quali erano dunque gli elementi salienti di questo pensiero analogico e immaginativo? La tradizione ermetica - che aveva ispirato gran parte dei sistemi di pensiero del Rinascimento italiano a partire dalla traduzione del Corpo ermetico da parte di Marsilio Ficino - poneva la questione del pensiero nei termini di un’interrogazione intorno al mistero. Il Discorso di Ermete Trimegisto: Poimandres, per esempio, esordisce così: “Un giorno, in cui riflettevo sugli esseri e il mio pensiero si era innalzato a grandi altezze, mentre i miei sensi corporei erano tenuti a freno, come accade a coloro che cadono nel sonno, dopo essersi abbondantemente saziati di cibo o dopo aver sopportato una fatica fisica, mi sembrò che una figura di smisurate dimensioni mi apparisse dinanzi e mi chiamasse per nome e mi dicesse: “Che cosa vuoi udire e vedere, che cosa apprendere e conoscere con il tuo intelletto?” (Corpo ermetico, 1997, p. 13)

    Possiamo osservare da questo passo come, già fin dall’inizio, la questione del significato del pensiero sia posta in maniera radicalmente differente da come viene posta in Cartesio. Il pensiero ermetico si presenta, a partire da quello che allora veniva considerato il corpus originario del sapere, come un’interrogazione. Ma non solo, la dimensione onirica, al contrario di quanto avvenga in Cartesio, non viene affatto considerata come un punto di passaggio del dubbio metodico, destinato a essere superato, bensì come una dimensione della rivelazione: “Ed ecco mi appare uno spettacolo infinito: tutte le cose divennero luce, visione serena e gioiosa, di cui mi innamorai dopo averla vista”. L’infinito non è una deduzione necessaria del pensiero che esercita il dubbio metodico, bensì una visione immediata, di cui ci si innamora. Qui siamo sotto la soglia delle scissioni mente/corpo, sogno/vita desta, io/altro. Il sonno - e il sogno - il corpo e le emozioni entrano nella trama del pensiero ermetico come in una texture dalla quale non possono essere scotomizzate. L’io presente nel Corpo ermetico, quando c’è, è un’io narrante, costitutivamente coinvolto nella trama della conversazione con l’altro, immanente a questa trama, incapace di qualsiasi trascendenza, è un io che ha delle visioni, che ascolta delle voci, che si confonde con queste visioni e con queste voci, un equilibrio temporaneo tra l’apollineo e il dionisiaco. L’immaginativo è l’elemento costituivo principale di questo modo di pensare così come lo è, nell’esposizione, l’elemento dialogico. Il Corpo ermetico si presenta come un dialogo continuo, così come l’opera bruniana, gran parte dell’opera ermetica e dell’opera ermeneutica. Non è un caso che i due termini abbiano il medesimo riferimento al dio Hermes che, come ha sostenuto Kermode (1993), è il dio dei ladri, degli imbroglioni e degli araldi.

    Gregory Bateson e il suo modo di pensare intricato, a tratti contorto, esprimono la presenza di un dibattito interiore che non si dà pace e che ha in comune con la tradizione ermetica un pensiero nello sfondo della dimensione del sacro. Potremmo dire, usando il gergo heideggeriano, che si tratta di un pensiero che interroga l’Essere. Si tratta certamente di un pensiero in cui l’immaginario assume connotazioni salienti a partire da un’idea della forma come “struttura che connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me”. Così descrive la sua esperienza di insegnamento a un gruppo di studenti di arte: “Era una vera fortuna che insegnassi a persone che non erano scienziati e che anzi avevano un’inclinazione mentale antiscientifica […] essi non erano come Peter Bell, il personaggio di cui Wordsworth cantava;
    A primerose by the river’s brim
    A yellow primerose was to him
    And it was nothing more
    (Una primula sulla proda del fiume/era per lui una primula gialla/ null’altro era) (Bateson, 1979, p.22).

    Anche Foucault, in gioventù e negli ultimi anni della vita, si era posto numerose questioni critiche in merito all’immaginario. Il suo modo di parlarne era connesso all’uso di termini quali visione e sguardo. Negli anni giovanili, nel saggio sul sogno già menzionato nei precedenti capitoli, avanza una critica decisiva al metodo interpretativo freudiano proprio sulla base dell’esigenza di una rivalutazione dell’immaginario, quando ancora il suo punto di riferimento teorico principale era Husserl, Foucault scriveva: “Una cosa merita di trattenere per il momento la nostra attenzione. Nel suo insieme questa analisi fenomenologica che abbiamo abbozzato sulla base di Husserl propone per il fatto simbolico tutt’altra scansione della psicoanalisi. Essa stabilisce in effetti una distinzione d’essenza tra la struttura dell’indicazione oggettiva e quella degli atti significativi; o, forzando un po’ i termini, essa instaura più distanza possibile tra ciò che rientra nel campo di una sintomatologia e ciò che rientra nel campo di una semantica. La psicoanalisi al contrario ha sempre confuso le due strutture; essa definisce il senso mediante la verifica dei segni oggettivi e le coincidenze della decifrazione. Di conseguenza, tra il senso e l’espressione, l’analisi freudiana non poteva riconoscere che un legame artificioso: la natura allucinatoria della soddisfazione del desiderio. Dal lato opposto, la fenomenologia permette di riafferrare il significato del contesto dell’atto espressivo che lo fonda; in questa misura una descrizione fenomenologica sa rendere manifesta la presenza del senso a un contenuto immaginario.

    Questa critica alla Deutung freudiana non è molto differente dalle considerazioni jungiane intorno all’analisi dei sogni, forse non è casuale che sia stata fatta nell’introduzione al volume di Binswanger, che aveva lavorato con Jung a Zurigo. Il bisogno di Freud, e di molti freudiani, di tenersi lontano dalla mistica e il timore che rivestiva per lui un confronto privo di presupposti con il mistero e con il sacro, lo avevano portato a un modello interpretativo del sogno che non poteva che fondarsi su un’ermeneutica del sospetto: il sogno è la cifra della sintomatologia neurotica sottostante. Con ciò l’immaginario viene immediatamente appiattito sul segno significante, senza che tra le due dimensioni venga posta alcuna differenza. La fatticità del sogno e la possibilità evocata dall’immagine onirica vengono immediatamente ricondotte l’una all’altra per diventare l’oggetto di un’interpretazione normativa che ci indica una patologia possibile. L’analisi delle sfumature e delle trasformazioni nelle rinarrazioni non modifica affatto questo impianto, non è la sfumatura in sé a ripararci dal paradigma indiziario, al contrario. Si tratta della patografia, che prima ancora che essere un metodo di analisi letteraria è il metodo di interpretazione del racconto onirico. L’immaginario, condizione eminentemente fluttuante ed evanescente, si trasforma in immagine statica, in icona. Si fissa diventando l’indice della nevrosi. Questo significa anche che la cura di sé si trasforma in una specifica tecnologia del sé: “laddove era l’es, ora è l’io”. La tecnologia dell’analisi consiste nel rafforzamento dell’io.

    Il confronto, svolto da Foucault alcuni anni dopo, tra Freud e Cartesio (1972) assume un senso in relazione al rapporto tra l’immaginario e la costruzione sociale dell’identità, è un’analisi che ci indica la cesura tra il pensiero occidentale e la sua critica. Freud, come Cartesio, sebbene attraverso una metodologia in parte, ma solo in parte, differente lavora in direzione di una messa in sicurezza dell’io. La critica al modo di pensare dominante in occidente sta da un’altra parte. All’epoca di Bateson e Foucault, chiedere loro di esercitare una tale critica sul versante delle pratiche sociali era forse chiedere troppo. Foucault ci ha provato attraverso l’analisi di alcune delle forme storiche della cura di sé. Bateson attraverso la sperimentazione di una forma di scrittura metalogica, in un dialogo quasi-immaginario con la figlia, ha tentato di rendere attuale la sua conversazione interiore. Entrambi hanno tematizzato l’osservazione come differenza: la mappa non è il territorio, lo sguardo e l’enunciato sono e rimangono irriducibili l’uno all’altro. Esiste sempre un’irriducibilità del linguaggio all’osservazione, della mappa al territorio, del Self all’altro, del pensiero alla creatura. Ciò rende Gregory Bateson e Michel Foucault così tremendamente incompatibili con l’epoca che stiamo attraversando, così inattuali.

    Gilles Deleuze, coetaneo di Foucault, è sopravvissuto a entrambi di oltre 10 anni. Ha attraversato un periodo storico assolutamente nuovo, giungendo fino alle soglie di internet e dello zapping. Epoca del definitivo declino televisivo, a vantaggio di nuove forme di resistenza schizofrenica: la possibilità di avere rapporti sessuali, amorosi e persino sentimentali attraverso internet, la possibilità di passeggiare per le strade parlando a voce alta con una voce che mi sta nell’orecchio, grazie all’auricolare di un cellulare, ma anche a vantaggio di nuove forme di resistenza alla schizofrenia, rendendo del tutto remissivo e razionale un paziente potenzialmente altrettanto schizofrenico di Louis Wolfson o di Daniel Schreber, attraverso il risperidone o l’olanzapina. Tanto da permettere a un ministro italiano della sanità di estrema destra - e certamente inconsapevole del significato della schizofrenia, non in quanto di estrema destra, ma in quanto politicante - di affermare che dalla legge Basaglia non si torna indietro.

    L’esperienza di lavoro che da alcuni anni stiamo conducendo io e i miei colleghi presso il Centro Isadora Duncan è un tentativo di affrontare, in tutta la loro complessità, le tematiche relative alla post-modernità. Siamo contrari a un post-modernismo semplicista e disimpegnato, un post-modernismo senza preparazione culturale, da everything goes. Sentiamo il bisogno di fare riemergere il pensiero congiuntivo nelle pratiche sociali, cliniche e di consulenza. Il bisogno di pratiche sociali critiche. Per questo il nostro intervento di formazione degli operatori - a partire dalla nostra scuola di counselling, fino alla formazione supervisione che svolgiamo nei servizi - si presenta immediatamente come un approccio non disciplinare, bensì di connessione tra l’antropologia e il teatro, la psicologia clinica e la filosofia ermeneutica, la mediazione culturale e la letteratura, la medicina e la bioetica. La formazione, in questo senso, viene pensata come una Bildung goethiana, piuttosto che come un addestramento comportamentista, come un dialogo socratico, piuttosto che come una lezione cattedratica, come un’interrogazione intorno a domande legittime, di cui nessuno conosce ancora la risposta, piuttosto che la presentazione già confezionata di modelli e di tecniche d’intervento. L’idea è quella dell’atelier, del laboratorio, piuttosto che quella dell’istruzione. Chiunque dei nostri allievi può avere idee nuove e interessanti, purché si crei un ambiente formativo che se ne accorga e le colga. Ugualmente il nostro intervento con le persone e le famiglie che si rivolgono a noi. Per questo abbiamo pensato a forme di consulenza nuove, come i Gruppi Isadora Duncan, in cui il teatro diventa una parte della terapia o del counselling.

    I Gruppi Duncan consistono nel lavoro di un terapeuta, o di un counsellor, a seconda delle circostanze richieste, che lavora con un gruppo di persone che raccontano qualcosa che le riguardi. Il racconto si trasforma, grazie alla presenza di un gruppo di attori professionisti, in una narrazione scenica che viene agita dagli attori in un momento successivo come se fosse una prova di teatro. Questa modalità di lavoro con i gruppi e con i gruppi di famiglie consiste in un’evoluzione delle domande circolari come metodo di conduzione terapeutica, elaborata negli anni Settanta dal Centro Milanese di Terapia della Famiglia, e del reflecting team, inventato da Tom Andersen. Le domande circolari creano un contesto conversazionale in cui a un componente della famiglia viene richiesto di descrivere che cosa succede quando altri componenti fanno qualcosa, ad esempio: “Quando sua sorella litiga con suo padre, la mamma cosa fa?”. In questo caso si crea una messa a distanza ironica. La famiglia si vede descritta come in un racconto, da uno dei suoi membri. Nel reflecting team la messa distanza ironica è ancora maggiore, in questo caso è un gruppo di terapeuti che conversano tra loro di fronte alla famiglia, con la famiglia che li ascolta, dopo che uno dei terapeuti ha intervistato la famiglia. I terapeuti raccontano il loro punto di vista sulla conversazione con la famiglia e sulla famiglia a partire dalla conversazione che si è appena svolta, creano uno spazio narrativo nel quale la famiglia si rispecchia. Nella mia esperienza questa tecnica è tanto più interessante ed evocativa quanto più il gruppo dei terapeuti si rispecchia, a sua volta, nel gruppo familiare. Per esempio, se il terapeuta conversa con una coppia eterosessuale, avere una coppia di terapeuti eterosessuali con cui fare il reflecting team produce uno strano rispecchiamento, le gelosie sentimentali del marito verso la moglie potrebbero rispecchiarsi nelle gelosie professionali del terapeuta uomo verso la terapeuta, o viceversa e creare una strana sovrapposizione che costruisce uno scambio di empatie multiple.

    Nel caso dei Gruppi Isadora Duncan la messa a distanza è teatrale e produce uno stato di contemplazione lirica, tanto maggiore quanto maggiore è l’abilità degli attori che mettono in scena immediatamente la narrazione della persona che partecipa al gruppo. La persona si vede come a teatro. Accade che, mentre il consulente e la persona che partecipa al gruppo ancora conversano, già gli attori incominciano a muoversi, a prepararsi. Poi accade che i riflettori si accendano e l’attenzione si sposti dalla conversazione con il consulente verso l’azione teatrale, è in quel momento che gli attori diventano un reflecting team drammaturgico. Il narratore vede se stesso raccontato a teatro e, come nella descrizione di Aristotele, si assiste alla catarsi delle emozioni. Il potere evocativo di questa azione è estremamente interessante. A volte si assiste a una sorta di principio di sincronicità perché il narratore scopre nella scena teatrale aspetti che ricorda come realmente vissuti. E’ come se gli attori, in un certo senso, divinassero. In un caso, per esempio, una donna raccontava che dopo oltre 15 anni di convivenza con il fratello, finalmente questi aveva deciso di sposarsi e di andare a vivere in un’altra città. Finalmente lei era libera e poteva godersi la casa, tuttavia, in questa nuova condizione di libertà, provava una certa nostalgia per le abitudini consolidate in 15 anni di convivenza. La messa in scena di questo racconto vede due attori che a lungo si abbracciano prima del distacco, con segni di ritorno e, mentre uno dei due se ne sta andando, l’altro gli grida di lontano: “Hai lasciato qui il cappotto!”. Al termine della scena la donna dice: “Ma come sapete che mio fratello ha lasciato a casa mia il suo cappotto?”.

    Nello stesso tempo i Gruppi Duncan sono un serio tentativo di uscire da un orizzonte logocentrico che ha a lungo caratterizzato la psicoterapia in occidente senza per questo abbandonare, come in esperienze più semplicistiche, la complessa interazione tra il corpo e la parola, la ragione e le emozioni, le pratiche e la teoresi antropo-filosofica. Ancora non abbiamo avuto l’occasione di sperimentare il lavoro dei Gruppi Duncan con pazienti psichiatrizzati, oppure in comunità terapeutiche per le dipendenze. Nel primo caso si tratterebbe, in un certo senso, di aiutare i pazienti a delirare, questa almeno potrebbe essere la descrizione di Gilles Deleuze riguardo a una simile attività (Deleuze, 1998). Cioè a fare un’esperienza narrativa e teatrale insolita che possa ricollocare il loro delirio nella dimensione artistica. E’ ormai convinzione comune a molti colleghi con cui mi è capitato di conversare in questi anni, in Italia e all’estero, in ambito di terapia familiare sistemica come in ambito psicoanalitico, che l’esperienza artistica e letteraria rappresenta un’importante occasione di cura di sé anche nelle psicosi più estreme. Gli esempi non mancano. Nel caso delle dipendenze invece si tratta di trovare un modo diverso per procurarsi il delirio. Non più grazie a una sostanza che ha effetto chimico, bensì grazie a un’esperienza evocativa e corporea, sebbene indiretta.

    I Gruppi Duncan si differenziano dallo psicodramma classico per molteplici aspetti. In primo luogo non richiedono un coinvolgimento diretto del paziente nel lavoro di drammatizzazione teatrale, la messa in scena spetta ad attori professionisti e i pazienti assistono come spettatori alla scena. Questo perché noi crediamo profondamente nelle potenzialità terapeutiche della messa a distanza ironica. Il coinvolgimento, parte inevitabile della terapia come di alcune forme di consulenza, non può sussistere senza il distacco e il distacco richiede una cura altrettanto intensa del coinvolgimento. L’idea dei Gruppi Duncan è emersa in una discussione del nostro centro a seguito della lettura, da parte di alcuni di noi, degli studi sui neuroni mirror (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Secondo alcuni interessanti esperimenti si è evidenziato come nell’osservare un’azione siano interessati gli stessi circuiti neurali di chi svolge le medesima azione, in una sorta di rispecchiamento empatico. Attraverso i Gruppi Isadora Duncan abbiamo cercato di agire la metafora dei neuroni mirror come strumento di psicoterapia e di counselling.

    In secondo luogo i Gruppi Duncan non sono necessariemnete autobiografici, anzi, sebbene si riferiscano alla vita del paziente che racconta, essi ne propongono una decostruzione gestuale. Il gesto ridiventa qui frammento, come un insieme di organi senza corpo. E’ interessante che nella nostra scuola di counselling, come nelle piccola scuola di teatro condotta da Agnese Bocchi e Silvia Briozzo, i partecipanti - operatori sociali in formazione nel primo caso, persone interessate alle connessioni tra teatro e vita quotidiana, nel secondo - si chieda ai partecipanti di concentrare le proprie azioni sul gesto. “Quando vi incontrate, scambiatevi uno schiaffo. Non un buffetto, uno schiaffo. Concentratevi sul gesto, voi siete lo schiaffo.” Dunque se lo psicodramma conserva legittimamente una dimensione biografica, un life script, una self narrative, chi si forma alla pratica dei Gruppi Duncan impara a ritornare al teatro della frammentazione per creare, ma solo successivamente, nuove connessioni dai frammenti gestuali così presentatisi. Come un viaggio di regressione nella fase che Melanie Klein ha definito schizoide, come una messa in scena della decostruzione del Self operata da Gregory Bateson quando ridescrive “Io taglio l’albero” come un gruppo di differenze nel sistema “differenze nei muscoli-differenze nei colpi d’ascia-differenze nell’albero, ecc.” Dalla narrativa emergono dunque, anzitutto, gli elementi di frammentazione, le linee spezzate. Né mai il lavoro ha come obiettivo un malinteso “rafforzamento dell’io”, che non può, soprattutto nelle dimensioni delle psicosi e delle dipendenze, che essere vissuto come un’imposizione normativa. Ciò che emerge da questo lavoro, direbbe Wittgenstein, “si mostra”.


    NOTE

    1] Sulla polemica con Haley mi sono soffermato a lungo in Barbetta (2003, 2004), si vedano anche le considerazioni di Zoletto (2003).


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