Narration et empowerment
          
          Federico Batini (sous la direction de)
        
      
M@gm@ vol.4 n.3 Juillet-Septembre 2006
LE STORIE DI VENDETTA COME RACCONTI DI FORMAZIONE NEL CINEMA AMERICANO POST 11 SETTEMBRE
      Silvia Ciarpaglini
silvia525@interfreee.it
        Laureata in Ermeneutica alla Facoltà 
                    di Filosofia di Firenze; membro dell’associazione Cineforum; 
                    attualmente è responsabile dell’organizzazione e gestione 
                    degli eventi culturali della Libreria Universitaria Leggere 
        di Arezzo.
Come 
                    un rompicapo prolifero e senza soluzione, la tragedia dell’11 
                    settembre, ha raccolto in un diffuso quanto audace discorso 
                    quotidiano i grandi temi della storia recente: il destino 
                    dell’Occidente, la definizione del Sé in relazione all’Altro, 
                    le derive autoritarie della democrazia, il ruolo del singolo 
                    in una cultura di massa. In un’epoca post-metafisica, la tentazione 
                    del 'maiuscolo' si è così riaccesa in una vastissima produzione 
                    letteraria e una pluralità di voci tale, da essere allo stesso 
                    tempo la prova dell’impossibilità affermativa di un’unica 
                    narrazione. “I grandi eroi, i grandi pericoli, in grandi peripli 
                    e i grandi fini”, secondo una bella espressione di Lyotard, 
                    che il sapere narrativo avrebbe perso come suoi “funtori” 
                    [Lyotard 1981: p. 5], hanno trovato comunque eco nel linguaggio 
                    convincente e popolare del cinema. Quest’ultimo, infatti, 
                    diversamente dalla scrittura, non discute esplicitamente argomenti, 
                    ma li racconta in ‘concetti-immagine’, vale a dire che l’idea 
                    non viene posta nel modo del contenuto, ma 'avviene' in forma 
                    implicita nella rappresentazione dell’immagine.
                    
                    Il cinema è di per sé un’esperienza diretta dal linguaggio 
                    fondante, un ‘colpo basso’ che, privo di una strutturale mediazione 
                    semantica, irretisce letteralmente lo spettatore in uno spazio 
                    concreto e aperto come la vita stessa. Di fatto la “maggior 
                    parte delle verità esposte cinematograficamente sono già state 
                    enunciate o scritte tramite altri mezzi, ma sicuramente chi 
                    vi entra in contatto per mezzo del cinema viene chiamato in 
                    causa da esse in modo completamente diverso” [Cabrera 2000: 
                    p. 22]. L’uomo, anche di fronte al film fantastico o surreale, 
                    è pur sempre uno spettatore di corpi, sentimenti, azioni, 
                    ed è proprio il conforme a stabilire naturalmente un’intimità 
                    esclusiva, comprensiva di mondi che non sono il nostro. Il 
                    cinema è l’habitat in cui tutto acquista evidenza, anche l’indicibile; 
                    il “paganesimo e il viscerale amoralismo del suo linguaggio” 
                    [Cabrera 2000: p. 26] offrono infinite possibilità di messa 
                    in scena di ciò che non viene e non può essere detto in un’esposizione 
                    scritta o in una normale conversazione. Nei film trovano posto 
                    “cose così vere che forse nessuna relazione faccia a faccia 
                    le potrebbe mai sostenere, e che nessuno forse potrebbe mai 
                    sostenere di sapere su se stesso o su un altro” [Jedlowski 
                    2000: p. 22]. Ed è proprio di queste 'cose così vere' che 
                    il cinema occidentale si è occupato dopo l’11 settembre, prendendo 
                    a motore di molte sue trame un archetipo come quello della 
                    vendetta, il tabù principale del testo e della conversazione 
                    corrente sull’attacco terroristico. Film come Era mio padre, 
                    Mystic River, Gangs of New york, La 25° ora, Kill Bill, Batman 
                    begin, V for vendetta, History of violence, Munich solo per 
                    citarne alcuni, sono fra i migliori, non solo dal punto di 
                    vista estetico ma anche narrativo, che hanno per soggetto 
                    un racconto di vendetta. Nonostante su questo esista una filmografia 
                    sterminata anche prima del 2001, soprattutto per quanto riguarda 
                    la grande produzione hollywoodiana, non si è mai verificato 
                    questa concentrazione in pochi anni di film d’autore simili 
                    fra loro nei presupposti concettuali.
                    
                    Un regista quando è autore, e non mero esecutore, rielaborando 
                    un materiale così abusato, ma allo stesso tempo 'originario' 
                    e universalmente diffuso in letteratura come quello della 
                    vendetta, rende intelligibili senza alcuna sovrastruttura 
                    intellettualistica dei meccanismi narrativi primigeni e il 
                    pensiero che li sottende.
                    
                    Il termine 'vendetta' apre uno spazio linguistico e culturale 
                    immenso, per cui al di là di una filiazione continua di significato, 
                    ogni definizione segue un percorso tanto storico quanto geografico. 
                    La rappresentazione del cinema occidentale difatti è profondamente 
                    diversa da quella messa in scena dal regista sud coreano Park 
                    Chan- wook con la sua trilogia della vendetta, e ancora, all’interno 
                    dell’Occidente stesso, il passato dell’Europa non è quello 
                    dell’America, e se il primo ha come testimoni i poemi della 
                    nemesi storica, l’altro si confronta con una radicata letteratura 
                    di palingenesi. History of violence di Cronenberg, è sì una 
                    dura riflessione sulla violenza dissimulata della natura umana 
                    e quella bene evidente degli Stati Uniti, ma come regista 
                    canadese molto vicino alla sensibilità europea, sublima la 
                    vendetta nella grande ansia del passato che ritorna e chiede 
                    conto di ciò che siamo. Gangs of new york di Scorzese, che 
                    ugualmente muove da una storia privata di vendetta per osservare 
                    allo stesso tempo la deriva brutale di un paese, l’America 
                    agli albori, ancora senza Stato, sposta al contrario l’attenzione 
                    sul valore morfogenetico della violenza, quale principio originario 
                    d’individuazione sia personale che sociale, che non va estinto 
                    quanto istituzionalizzato.
                    
                    Inoltre, la “derivazione degli scarti di senso a partire dal 
                    non-detto implicito” [Ricoeur 2005: p. 10] in una delle definizioni 
                    di un termine è già di per sé una riflessione concettuale 
                    che consente a livello dell’immagine più dispositivi narrativi: 
                    intorno all’idea di vendetta come 'ritorsione' si svilupperà 
                    un racconto completamente diverso da quello che ha per presupposto 
                    il significato di 'rivendicazione', e il concetto sottinteso 
                    di violenza che affiora inevitabilmente nel narrato, da una 
                    parte vorrà dire 'aggressione' e dall’altra semplicemente 
                    'forza'. Va dunque ora individuato e circoscritto lo spazio 
                    entro il quale si muove il racconto di vendetta come narrazione 
                    che si occupa dello sviluppo del se’.
                    
                    La sacralità dell’individuo, dei suoi diritti ma ancor di 
                    più dei suoi doveri è un lascito imprescindibile della cultura 
                    americana, e l’11 settembre deve aver ricordato a molti cos’è 
                    la libertà in relazione alla responsabilità individuale. Nessuna 
                    forma di coercizione può essere tollerata come necessaria, 
                    e il potere, nella veste esplicita del governo o in quella 
                    silenziosa delle masse ammansite dalla paura, non deve indurre 
                    al conformismo. Il destino a cui l’America crede di essere 
                    chiamata è in realtà una tensione culturale continua che, 
                    nonostante le molte contraddizioni, passa prima di tutto per 
                    la realizzazione individuale. In una naturale quanto impensabile, 
                    per l’Europa cattolica, commistione tra teoria e prassi, politica 
                    e religione, la felicità in terra è la promessa che significa 
                    patto, ma ancor prima impegno personale.
                    
                    Se l’etimologia di vendetta è 'vindicta', ovvero la verga 
                    con cui si affrancava lo schiavo, e ancora oggi se ne scorge 
                    l’eco nei significati di rivalsa, rivincita o il più persuasivo 
                    rivendicazione (tant’è che nella lingua anglosassone uno dei 
                    termini usati per dire vendetta, 'revenge', conserva il prefisso 
                    di reiterazione e ritorno), allora un racconto guidato da 
                    questa distinta area semantica avrà come contenuto un percorso 
                    specifico di liberazione, una storia d’indipendenza tutta 
                    personale, un Esodo su piccola scala secondo l’immaginario 
                    originario degli Stati Uniti.
                    
                    Davanti ad uno scenario come Ground Zero Spike Lee ha raccontato 
                    la faticosa e tardiva redenzione di uno spacciatore. L’ultimo 
                    giorno di libertà prima di finire in galera, Monty Brogan 
                    vuole trovare la spia che l’ha denunciato e vendicarsi. Il 
                    titolo del film, la 25°ora, è il tempo supplementare concesso, 
                    ma non vivibile, che il protagonista guadagnerà al termine 
                    del giorno, rinunciando alla vendetta e assuntasi la responsabilità 
                    delle sue azioni. Il sogno finale sulla seconda occasione 
                    e su una vita diversa da quella condotta fino a quel momento 
                    sono il sintomo di una salvezza più sostanziale che effettiva; 
                    l’antieroe è pronto a percorrere la via più difficile per 
                    riappropriarsi, se non di un futuro, almeno di se stesso.
                    
                    Un simile processo di responsabilizzazione avviene anche nel 
                    film di Steven Spielberg Munich, ispirato al libro-testimonianza 
                    di George Jonas, Vengeance. La storia, vera, racconta la parabola 
                    esistenziale dell’agente segreto del Mossad Avner, a cui è 
                    stata affidata dal primo ministro israeliano una missione 
                    senza precedenti: vendicarsi dei mandanti della strage delle 
                    Olimpiadi di Monaco del 1972 compiuta da un commando palestinese. 
                    In giro per il mondo, delitto per delitto, il senso di appartenenza 
                    di Avner al suo popolo e alla sua terra inizierà a vacillare, 
                    fino a compiere la scelta estrema di diventare esule; il concetto 
                    di casa, quindi di radici e intimità, che viene spesso affrontato 
                    nel film, dirotterà il protagonista verso una terra straniera 
                    dove nessuno può più decidere per lui. Sullo sfondo della 
                    scena in cui si compie la scelta definitiva e l’addio alla 
                    vecchia identità, si stagliano simbolicamente le Twin Towers 
                    ancora intatte.
                    
                    Film di questo tipo si configurano dal punto di vista narrativo 
                    come racconti 'sulla' vendetta, nel senso che si presentano 
                    come riflessioni esplicite su questo tema e fanno sì che il 
                    protagonista, di fronte a strade diverse, sia costretto continuamente 
                    a decidere, inducendo a problematizzare lo stesso spettatore, 
                    cosa ritiene giusto e cosa sbagliato, cosa lo renderà consapevole 
                    e migliore e cosa lo farà sprofondare in un cammino senza 
                    ritorno.
                    
                    Al contrario film come Kill Bill di Quentin Tarantino, Batman 
                    Begin di Christopher Nolan e V for vendetta dei fratelli Wachoski, 
                    che pur hanno come soggetto un percorso di formazione e autodeterminazione, 
                    sono strutturati come film 'di' vendetta, ovvero la vendetta 
                    è il contenuto che si fa forma, la 'fabula' è la logica dell’'intreccio'. 
                    Il racconto, infatti, non è una riflessione di tipo morale 
                    sulla vendetta tout court, ma una storia veicolata dalla metafora 
                    narrativa che questa rappresenta. La narrazione di ordine 
                    mitico presenta e fa sì che questa venga recepita spontaneamente 
                    come congegno romanzesco che giustifica e sviluppa la sequenza 
                    di avventure. Inoltre, la narrazione irrealistica attuata 
                    per mezzo di trasposizioni cinematografiche di fumetti, permette 
                    di spostare il piano della riflessione dalle questioni etiche 
                    sulla legittimità della vendetta al percorso formativo del 
                    protagonista, senza che avvenga nessun compromesso di tipo 
                    morale nello spettatore.
                    
                    Nel racconto dei fumetti, infatti, la vendetta è già ratificata, 
                    avallata dall’immaginario collettivo dell’eroe 'giustiziere' 
                    che è tale solo nella misur a in cui agisce così. Intorno 
                    alla vendetta come 'tropo' si è come costituito un nuovo genere 
                    cinematografico. La definizione di genere, in questo caso, 
                    ricalca l’impostazione metodologica che usò Cavell per definire 
                    la “commedia del rimatrimonio”, ovvero quelle commedie post 
                    Depressione che tematizzavano l’emancipazione femminile e 
                    la conseguente educazione reciproca all’interno di un ritrovato 
                    amore coniugale. “L’idea è che i membri di uno stesso genere 
                    condividano l’eredità di determinate condizioni, procedure, 
                    temi e scopi della composizione” [Cavell 1999: p.XLVIII].
                    
                    I film sopraccitati, che meglio esemplificano il genere, hanno 
                    così affrontato le medesime tematiche secondo una narrazione 
                    modulare di questo tipo: un momento prettamente educativo 
                    in cui il protagonista si confronta/scontra con un maestro, 
                    una serialità spazio-temporale attraverso la quale porta a 
                    termine la vendetta e infine un episodio di catarsi in cui 
                    sconfigge la propria paura.
                    
                    La serialità, intesa come il susseguirsi episodico di vendette 
                    minori per arrivare al grande duello finale, è la cifra costitutiva 
                    di gran parte dei fumetti, ma in questo contesto acquista 
                    la valenza simbolica del riconoscimento, alla maniera in cui 
                    Ricoeur spiega il ritorno ad Itaca di Ulisse e la messa in 
                    gioco della sua presunta identità. “Le scene di riconoscimento 
                    scandiscono e accompagnano la riconquista della propria casa 
                    da parte di un padrone inflessibile a spese di usurpatori 
                    elevatosi al rango di pretendenti al possesso della sposa 
                    legittima. Questo contesto di violenza fa sì che una storia 
                    di riconoscimento si trovi inestricabilmente mescolata alla 
                    storia di una vendetta. Ed è il ritmo di questa seconda storia 
                    ad imporsi anche sul ritmo del riconoscimento stesso, al punto 
                    che i gradi del riconoscimento risultano essere altrettante 
                    tappe sul cammino di una vendetta” [Ricoeur 2005: p. 90].
                    
                    Non è un caso che i film presi in considerazione parlino esplicitamente 
                    di usurpatori alla maniera dei Proci. L’uomo dispotico che 
                    si sostituisce alla donna madre in Kill Bill; il dittatore 
                    che s’impadronisce dello spazio privato del cittadino in V 
                    for vendetta; i dirigenti imbroglioni dell’azienda di famiglia 
                    che prendono il posto del legittimo proprietario in Batman 
                    Begin. Black Mamba, una spietata killer professionista, quando 
                    scopre di essere incinta decide di abbandonare il suo incarico. 
                    Il tentativo di rifarsi una vita le sarà impedito nel giorno 
                    delle nozze da sicari al soldo dell’ex boss e amante Bill, 
                    nonché padre della bambina che porta in grembo. Al risveglio 
                    dal coma la sposa mancata avrà un solo obiettivo, vendicarsi. 
                    I nomi numerati dei colpevoli scritti nel block notes saranno 
                    depennati uno dopo l’altro.
                    
                    Hattori Hanzo, il più grande costruttore di spade al mondo, 
                    ha promesso a se stesso di non fabbricare mai più strumenti 
                    di morte, ma quando lei arriverà a chiedergli l’arma per combattere 
                    il più grande 'parassita' che esista, il maestro convinto 
                    dalla determinazione ma anche dalla legittimità della causa 
                    forgerà per lei una spada speciale, con cui si può trapassare 
                    anche Dio, come dirà consegnandogliela. 'Trapassare Dio' è 
                    un espressione quasi nietzscheana, che ricorda molto il frainteso 
                    superomismo individualista, che tuttavia non significa altro 
                    che la volontà di essere ciò che si vuole essere, senza imposizioni 
                    dall’alto, o subdole costrizioni sociali. Il Dio morto di 
                    Tarantino è il machismo di fine secolo, la seduzione mistificante 
                    che induce alla sottomissione. L’eroina del suo film è la 
                    donna che muove guerra non per i diritti ma per le possibilità: 
                    la maternità è scelta e desiderata, e questo basta. Non ci 
                    sono '-ismi' di ritorno; alla parità è preferibile la differenza. 
                    Per arrivare a Bill, la vendetta passa essenzialmente per 
                    le donne che lavorano per lui: la buona madre di famiglia, 
                    la potente leader della mafia giapponese, la bella megera 
                    avida.
                    
                    Ogni combattimento è un responso dello specchio, ci sarà immedesimazione, 
                    rispetto, invidia, fino al confronto con l’uomo che quello 
                    specchio le ha rifiutato. Il capitolo finale di Kill Bill 
                    è sorprendente per originalità e fermezza di pensiero. I due 
                    ex amanti, infatti, al termine del lungo cammino di reciproca 
                    e inaudita violenza, non intraprendono un duello all’ultimo 
                    sangue, ma un dialogo serrato. Beatrix, nome che per tutto 
                    il film viene sovrastato, quando pronunciato, da un 'bip' 
                    più che mai simbolico, ha abbandonato definitivamente la pelle 
                    del 'serpente' (solo dopo un percorso di riconoscimento l’appellativo 
                    viene eliminato a beneficio del nome proprio del personaggio). 
                    Quando Bill le sparerà un colpo, non per ucciderla, ma per 
                    iniettarle una sorta di siero della verità, sarà finalmente 
                    libera: adesso può parlare e rivendicare le sue scelte. La 
                    morte di Bill è irrevocabile, ma il colpo segreto della pressione 
                    delle dita sul cuore con cui si compie la vendetta finale 
                    apre, di fatto, all’ambiguità della relazione vittima-carnefice.
                    
                    Il gesto di simbolica intimità con cui Beatrix uccide il suo 
                    ex compagno, l’uomo oppressore e castrante, è la spia di una 
                    latente complicità. La rivendicazione non dimentica i suoi 
                    limiti, e il potere è qualcosa, che se non si ha, invita pericolosamente 
                    all’assuefatta collusione.
                    
                    Una riflessione di questo tipo è ben evidente in V for Vendetta. 
                    In un'Inghilterra scampata alla guerra nucleare e oppressa 
                    da una dittatura mediatica e poliziesca, una giovane donna, 
                    Evey viene salvata da un uomo dal volto coperto dalla maschera 
                    di Guy Fawkes, l’attentatore cattolico che nel 1605 aveva 
                    tentato senza successo di far esplodere il Parlamento inglese. 
                    Il suo nome è V. e vuole vendicarsi di coloro che l'hanno 
                    internato in un campo di concentramento, in quanto 'diverso', 
                    e sottoposto a crudeli esperimenti; inizia così la sua rivolta 
                    contro il potere normalizzante e invasivo, cercando di guidare 
                    i suoi concittadini, ma sopratutto la stessa Every, contro 
                    la tirannia.
                    
                    Il riconoscimento seriale in V for vendetta è propriamente 
                    un’agnizione, nel senso che l’identità delle vittime (tutte 
                    carnefici di un ex campo di concentramento) determina, sul 
                    piano investigativo, una rivelazione sull’identità del vendicatore 
                    (un detenuto scampato all’incendio del campo); la conoscenza 
                    avviene per un semplice richiamo della memoria e del rimosso 
                    di quella terribile esperienza. La resa dei conti è un percorso 
                    di disvelamento dove la maschera che cade reclama innanzi 
                    tutto il volto negato.
                    
                    In Batman Begin, invece, il riconoscimento ha il significato 
                    di attribuzione di valore, perchè i vari antagonisti, che 
                    non sempre sono stati incontrati in un momento anteriore a 
                    quello della lotta, sono, nella maggior parte dei casi, il 
                    mezzo attraverso il quale l’eroe mette a punto le potenzialità 
                    della sua maschera e costringe i protagonisti del crimine 
                    a fare i conti con la sua esistenza. Va ricordato inoltre 
                    che il travestimento da pipistrello gigante è un alter-ego 
                    in piena continuità con l’io originario di Bruce Wayne. Questi 
                    infatti da bambino, cadendo in un pozzo infestato da pipistrelli, 
                    sviluppa la fobia che sarà poi la causa indiretta della morte 
                    dei suoi genitori per mano di un ladro. Il senso di colpa 
                    e la volontà di vendicare i suoi familiari lo costringeranno 
                    ad affrontare la paura, e a trasformarla da limite in risorsa.
                    
                    Il ritorno a Gotham City, dopo aver appreso in un lungo viaggio 
                    per le montagne d’Oriente l’arte del combattimento ninja, 
                    implica una rivisitazione della propria infanzia, ma sancisce 
                    allo stesso tempo l’inizio di una nuova maturità. Lo stereotipo 
                    dell’educazione orientale al coraggio e alla disciplina si 
                    trova anche in Kill Bill nella figura di Pai Mei, il venerabile 
                    maestro di kung-fu che insegna a Black Mamba le tecniche mortali 
                    e di sopravvivenza.
                    
                    Questa convenzione narrativa tuttavia ha una funzione assai 
                    specifica nel percorso di formazione del protagonista. L’allontanamento 
                    spazio-culturale facilita, non tanto il cambiamento, quanto 
                    l’ampliamento delle potenzialità: lo sviluppo sensoriale, 
                    il livello d’attenzione, il rinvigorimento del corpo. Non 
                    si tratta però di mera forza fisica perchè l’eroe diventa 
                    tale nella misura in cui impara ad accrescere e prendere a 
                    cuore ciò che ha in 'nuce'. L’educazione è posta seriamente 
                    come quel processo che conduce fuori il piccolo, il nascosto, 
                    o in questo caso più correttamente il sopito. Il danno subito, 
                    infatti, ha come ostruito una strada e spetta alla vendetta 
                    riaprire il cammino.
                    
                    La relazione educativa paradigmatica tuttavia è quella fra 
                    V. ed Every. Il moschettiere mascherato insegnerà alla sua 
                    ospite un intero mondo alternativo e ancora possibile. La 
                    casa-castello, colma d’oggetti d’arte e pervasa dalla musica 
                    proibita dal regime, è il luogo dove ciò che è giusto e bello 
                    manifesta il suo monito. Il recupero di Every passa attraverso 
                    il recupero di una cultura sconfessata, quindi dimenticata, 
                    e l’acquisita consapevolezza troverà il suo completamento 
                    solo nell’azione. Every deve imparare a non farsi paralizzare 
                    dalla paura. V. inscenerà una finta prigionia e finti carcerieri 
                    per obbligarla, di fronte alla richiesta di delazione, alla 
                    scelta più grande, quella tra la vita e la sua dignità. Nell’isolamento 
                    della cella, la ragazza scoprirà finalmente quel ‘centimetro’ 
                    inalienabile di libertà e dignità che ognuno possiede dentro 
                    di sé, quello spazio in cui non può entrare nessun tiranno 
                    o governo, e alla rinuncia di questa conquista preferirà la 
                    morte.
                    
                    Questa sorta di viaggio ctonio, per cui sondata la profondità 
                    dell’animo umano segue una vera e propria rinascita, è un 
                    altro denominatore comune dei tre film presi in esame, ed 
                    è legato essenzialmente al concetto di superamento della paura. 
                    Nella caverna scoperta sotto casa Bruce Wayne diventerà per 
                    la prima volta Batman, e per la prima volta fronteggerà la 
                    sua fobia dei pipistrelli. Nel momento in cui Beatrix viene 
                    sepolta viva dal fratello di Bill non si farà prendere dal 
                    panico, e coglierà invece l’occasione per mettere a frutto 
                    l’insegnamento di Pai Mei e fare così a pezzi la bara che 
                    la imprigiona. Riemersa da molti metri di profondità, l’eroina 
                    è più forte e determinata che mai.
                    
                    L’abuso d’informazioni ansiogene nei sistemi democratici, 
                    al fine di controllare l’emotività dei cittadini e d’impedirne 
                    comportamenti critici, ha evidenziato l’importanza di un sentimento 
                    quale la paura nell’educazione umana. Le storie di riscatto 
                    ed emancipazione che il cinema ha raccontato negli ultimi 
                    anni si sono fatte carico di questo limite imposto svelandone 
                    il tranello e mostrando allo spettatore protagonisti consapevoli, 
                    liberi dalla paura, tesi alla salvaguardia della propria autonomia 
                    e possibilità di scelta, piuttosto che alla rigida difesa 
                    di una presunta identità.
                    
                    La lettura di questi film come novelli romanzi di formazione 
                    ha messo in luce alcuni luoghi comuni della narrazione, ma 
                    allo stesso tempo ha così segnato l’attualità, in tempi di 
                    guerra globale, del problema di uno sviluppo più cosciente 
                    del sé.
                    
                    
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                    Unito/Olanda, 2002).
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                    Wars: Episode III – Revenge of the Sith), George Lucas (Usa, 
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                    Kill Bill: vol. 1, Quentin Tarantino (Usa, 2003).
                    Kill Bill: vol. 2, Quentin Tarantino (Usa, 2004).
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