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  • Pratiques narratives pour la formation
    Francesca Pulvirenti (sous la direction de)
    M@gm@ vol.3 n.3 Juillet-Septembre 2005

    NARRAZIONI E AUTOBIOGRAFIE IN CARCERE: FORMAZIONE ED AUTOFORMAZIONE NEI LUOGHI DI DETENZIONE


    Caterina Benelli

    cbenelli@unifi.it
    Dottore di ricerca in “Metodologia della Ricerca Pedagogica” presso La Facoltà di Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Firenze; Esperta in metodologie autobiografiche, collabola con il prof. Duccio Demetrio ed è membro del comitato scientifico della Libera Università dell'autobiografia di Anghiari; si occupa di Pedagogia Sociale e in particolare di pedagogia della marginalità e della devianza, conduce ricerche e percorsi di formazione rivolti al mondo penitenziario e al disagio in generale; ha pubblicato vari articoli sull'adolescenza e sulle relazioni d'aiuto; nel gennaio 2006, con la casa editrice Unicopli di Milano, pubblica il testo "Philippe Lejeune: Una vita per l'autobiografia".

    "Mi son detto: poiché ho i mezzi per scrivere, perché non farlo? Ma cosa scrivere? Stretto tra quattro mura di pietra nuda e fredda, senza libertà per i miei passi, senza un orizzonte per gli occhi, intento a seguire meccanicamente, per tutto il giorno, come unica distrazione, il lento percorso del quadrato di luce biancastra che lo spioncino della porta ritaglia sul muro nero di fronte. (…) Cosa posso avere ancora da dire, io che non ho più nulla da fare in questo mondo? Nel mio cervello guasto e vuoto, cosa troverò che meriti di venire scritto?"
    (Victor Hugo)

    1. L’AUTOBIOGRAFIA IN CARCERE: TRA STRATEGIA DI SOPRAVVIVENZA E POSSIBILI PERCORSI EDUCATIVI

    Perché proponiamo il metodo autobiografico in carcere?

    Educatori, operatori sociali e ricercatori, negli ultimi anni, si avvalgono sempre più del metodo delle storie di vita poiché esse possono essere identificate come significative testimonianze capaci di lasciare indagare squarci di vita importanti, ma anche come possibilità di suscitare altre narrazioni e riflessioni dall’individuo stesso.

    Nel carcere si scrive. Si scrive per capirsi di più, per esprimere speranza e per assaporare un senso di libertà che, altrimenti, non è consentito. Si scrive lettere, diari, poesie e canzoni, come non era mai accaduto. La narrazione e la scrittura di sé nei luoghi di detenzione sembra essere una necessità per non permettere al tempo trascorso e rubato in carcere di divenire tempo vuoto, sala di attesa di non si sa cosa e quando. I detenuti - se hanno fortuna - trascorrono il tempo partecipando ad attività e molte volte, nella solitudine della loro cella, scrivono. La scrittura nei luoghi di reclusione è creatività che aiuta a sopravvivere e a ricercarsi uno spazio di libertà. Diventa un veicolo per la scoperta di nuovi mondi, nuove forme del pensiero e nuove capacità di espressione di sé, di altre opportunità raramente individuate e prese in esame in passato. Un luogo d’altrove che permette di migrare verso lidi migliori, di respirare aria pulita e odori buoni e familiari grazie alla potenza dei ricordi.

    La possibilità di esserci, di pensare, di immaginare e di ricordare fanno parte della propria individualità e sono potenzialità di ogni persona, di ogni cittadino, quindi, anche dei detenuti. Anche in carcere è - quindi - possibile creare un tempo ed uno spazio in cui “prendere la parola” e coscienza della propria esistenza.

    La scrittura diventa una delle strategie di sopravvivenza tra le più utilizzate per “fare resistenza”: una “stanza tutta per sé” dove essere se stessi, dove recuperare energie e linfa vitale. Scrivere in carcere rappresenta per il detenuto narratore e scrittore autobiografo uno spazio per andare oltre, oltre le sbarre, oltre il cancello, oltre la rigidità di certe visioni di sé e degli altri. È un viaggio per rivisitare la propria vita, dare voce a momenti belli e brutti, riscoprire la molteplicità della propria individualità ed intravedere in tutto questo una prospettiva per il futuro. Il detenuto può riscoprire il senso della realtà solo partendo da se stesso, nutrendosi dell’intreccio dei propri ricordi, facendo affiorare da molto lontano parti di sé dimenticate o cancellate. A volte è sufficiente un profumo, un suono, un’immagine per riattivare e recuperare ricordi dimenticati o messi a tacere.

    2. L’ESPERIENZA TRIENNALE NEL CARCERE A CUSTODIA ATTENUTA DI FIRENZE MARIO GOZZINI

    2.1. Premessa

    La Pedagogia Contemporanea ha dovuto fare i conti - negli ultimi decenni - con tutti quei fenomeni che hanno portato un grosso cambiamento nella nostra società e che hanno fatto mettere in discussione i metodi educativi tradizionali. Il soggetto che abita questo periodo storico ha subito delle sostanziali trasformazioni rispetto al soggetto dei secoli precedenti; il soggetto-individuo-persona (Cambi, 2002) è un individuo precario, solo, frammentato, un individuo che ha perso i suoi più importanti orientatori di senso come la Ragione, lo Stato, la Religione ma si trova - nel Novecento - disorientato e con un bisogno forte di ri-progettarsi, di ri-costruirsi e di una “bussola orientatrice di senso”.

    Ecco che entra in gioco l’autobiografia come momento autoriflessivo, meditativo e autoformativo dove il soggetto, attraverso uno sguardo retrospettivo, dall’alto, aereo, riesce a distaccarsi dalla propria storia e vedersi con una luce nuova, diversa e, magari, a trovare un punto di vista che non aveva mai valutato. E’ proprio attraverso lo “spiazzamento cognitivo” che la scrittura di sé (come una tecnologia, per dirla come Foucault) provoca momento di forte impatto educativo che implica un cambiamento e un ripatteggiamento con il passato.

    L’ ”io tessitore”(Demetrio, 1996) racconta o scrive operando scelte, andando avanti e indietro nel passato, riflettendo sul presente e sul futuro, compone una trama della propria esistenza carica di senso e di consapevolezza. Quindi l’autobiografia è il metodo autoformativo per eccellenza, ma non è strutturato solo sulla scrittura, ma comprende anche l’oralità (il colloquio narrativo) e altre forme del racconto di sé, tutte caratterizzate da alcuni momenti che producono effetti pedagogici:
    - momento metacognitivo e autoriflessivo (scoprire come ha funzionato la nostra mente in momenti diversi);
    - momento formativo (percorso della traiettoria dell’esistenza attraverso passato, presente e futuro per la ricostruzione di sé);
    momento trasformativo (attraverso lo spiazzamento, l’insight) (Formenti, 1998).

    2.2. Il laboratorio autobiografico: costruire insieme “pezzetti di storie”

    Il laboratorio è soprattutto un luogo di analisi e costruzione delle identità personali degli individui partecipanti. E’ implicita la necessità di partire dalle storie dei soggetti e dai vissuti personali. Parlare di laboratorio implica “costruire insieme qualcosa”, quindi la presenza di un gruppo: è indispensabile un numero discreto di partecipanti, massimo venti, in modo che il lavoro possa essere condiviso, scambiato e i ricordi e le rievocazioni dell’uno servire da stimolo agli altri, diventando un’importante risorsa. L’incontro con l’altro, l’ascolto di parti di storie, rappresenta la differenza e lo spiazzamento più radicale. Comprendere il compagno come persona e non solo come qualcuno da strumentalizzare ed usare, significa poter gestire, in misura maggiore, conflitti e incomprensioni, numerosi nel caso della convivenza lunga e “forzata”del carcere. Il gruppo autobiografico è mirato alla persona, a far emergere, attraverso il ricordo, parti di sé dimenticate, memorie belle e meno belle della propria storia: in ogni caso la rievocazione è sempre attivata in un contesto prevalentemente ludico e non terapeutico, piacevole e stimolante.

    “Il lavoro autobiografico, pur attraversando regioni e oggetti che appartengono alle zone profonde della psiche del narratore, risvegliandole, agisce soltanto su ciò che appartiene alla consapevolezza e alla preconsapevolezza”(Demetrio, 1999). Il gruppo attivato con il laboratorio produce effetti positivi per quanto riguarda l’immagine di sé: essa, infatti, può essere ridefinita in positivo non solo attraverso un rapporto empatico all’interno di una relazione educativa (con l’educatore, con lo psicologo, con l’assistente sociale, con il volontario), “ma anche strutturando una qualche reciprocità, un possibile elemento di rispecchiamento nei rapporti tra pari” (Galanti, 2001).

    La coralità dei vissuti, il feedback, il rispecchiarsi, in misura più o meno intensa nella storia del compagno, conoscere se stessi e gli altri in modo diverso, tutto ciò produce un’importante ricaduta sia sul piano personale che interpersonale, fra i detenuti. I temi esistenziali trattati nel laboratorio autobiografico, proprio per loro natura, accomunano le diverse fasce d’età e le differenze psicologiche, sociologiche, etniche e culturali esistenti nella popolazione carceraria. Riconoscersi negli altri attraverso esperienze comuni, rassicura e rafforza colui che ha paura dei propri sentimenti, rendendolo consapevole che essi non sono poi così strani, diventa possibile manifestarli e condividerli.

    All’interno dei laboratori autobiografici è importante lo svolgimento di una serie di esperienze individuali che poi verranno - quasi sempre - condivise con il gruppo. L’attività di laboratorio porta a sviluppare un’attenzione alle differenze individuali e alle storie di vita degli altri. I laboratori autobiografici si avvalgono dell’utilizzo dell’oralità e della scrittura di sé: binomio inscindibile e valorizzano la metodologia autobiografica.

    2.3. Fare autobiografia in carcere

    La storia del deviante, spesso, è raccontata solo dalle parole e dalla relazione dello psicologo, dell’educatore, dell’assistente sociale, dall’avvocato: grazie al racconto di sé, orale o scritto, il soggetto marginale reclama, con parole sue, la propria presenza nel mondo (Freire, 2002). Chi sono io? Io sono la mia storia. Molti detenuti, nella propria vita, non hanno mai avuto un reale diritto di parola, non hanno mai potuto esprimere veramente se stessi, i propri stati d’animo, le proprie rabbie, le proprie emozioni e riflessioni. Avere qualcuno che ascolta con rispetto e senza giudizio, è un privilegio per pochi (non solo in carcere!). Accogliere la biografia aiuta il detenuto/narratore a sentirsi accolto e questo facilita il processo di accettazione di sé. È lui il protagonista attivo nel corso del viaggio autobiografico, è lui il co-costruttore del percorso, l’operatore è solo colui che fornisce gli stimoli, chiarisce le regole del gioco e restituisce il lavoro prodotto.

    Il narratore, in tal modo, diventa attore e personaggio, interprete in prima linea sulla scena della sua esistenza (Cambi, 2002). Essere protagonista e parte attiva in un contesto che depersonalizza e rende passivi, è un risultato rilevante: il detenuto svolge un lavoro autoformativo per se stesso e su se stesso, al quale è disabituato e che inizialmente disorienta non poco. È lui che sceglie, tra i tanti termini linguistici, quello che sente più autentico per descrivere i propri vissuti, è lui in prima persona che gestisce cosa dire e quanto andare in profondità con l’autobiografia, evitando il rischio di essere invaso dalle parole talvolta inopportune dell’operatore. Attraverso il laboratorio autobiografico, il detenuto non è solo un trasgressore e un deviante, ma una persona con una propria storia. Come sottolineavo nel secondo capitolo, è molto difficile riconoscere nel recluso una persona, sganciata dai suoi atti delinquenziali.

    Con l’autobiografia è dunque protagonista la sfera soggettiva, in uno spazio e in un tempo in cui si rende necessario tutelare la dimensione individuale, difendendola da un’eccessiva invasione della realtà, qual’è quella carceraria. “È a partire da questi momenti di raccoglimento e di rifugio dalla pressione degli eventi che si rende possibile la cura”(Demetrio, 1999): ciò non è evasione dalla realtà, bensì accoglimento di essa, in quanto introiettata, pur con difficoltà, nell’esperienza soggettiva. Il detenuto può ristabilire un contatto con la propria interiorità, scoprire il piacere di ricordarsi ed ascoltarsi, riallacciando in tal modo i rapporti con il proprio sé. Parlare e scrivere di sé non è un ripiegamento intimistico: andando avanti con l’autobiografia, il narratore fa rivivere i personaggi che ha incontrato lungo il suo cammino, sperimenta, nella reminiscenza, gli incontri importanti e meno importanti, gioiosi e dolorosi, riporta alla luce persone ed esperienze. La presa di parola, attraverso il ricordo e la memoria di sé, è la possibilità di dare senso all’esperienza vissuta.

    L'utilizzo del metodo autobiografico in un laboratorio all'interno di un carcere a custodia attenuata, nasce dal bisogno di sviluppare in un Istituto Penitenziario delle occasioni educative per "andare oltre" le sbarre, oltre gli ostacoli al cambiamento e per rispondere più adeguatamente ai nuovi bisogni emergenti che anche (e soprattutto) nei luoghi di detenzione gli operatori penitenziari si sono trovati ad affrontare. La proposta del laboratorio autobiografico in situazioni di marginalità e di devianza come, ad esempio, nel carcere, si inserisce in una concezione di disagio visto come momento di vuoto, di mancanza, di coercizione, ma anche - visto da un’altra posizione - una condizione dove lo spiazzamento può diventare un’occasione di cambiamento, l’unico modo per fermarsi; il disagio, visto da questa prospettiva, può diventare una risorsa preziosa, una paradossale possibilità per il soggetto di fermarsi e di percepirsi persona in grado di esistere e di riprogettarsi.

    Dal 2001 abbiamo sperimentato percorsi di laboratori autobiografici con detenuti dei carceri fiorentini e da laboratorio sperimentale è divenuto un’attività educativa permanente e continuativa; strumento pedagogico in quanto lavoro di riflessione e di co-costruzione che implica il costruire insieme “pezzetti di storie” favorendo così la possibilità di rivisitare la propria vicenda esistenziale, di pensarsi e riprogettarsi e di uscire dagli stereotipi che abitano anche i luoghi di detenzione. I percorsi laboratoriali effettuati all'’interno dell’istituto penitenziario M. Gozzini sono stati considerate dagli operatori e dai detenuti un’opportunità ideale per riflettere sulla propria storia di vita, uno strumento utile per ripensare e ripensare il proprio percorso di vita ed è stato ritenuto un progetto innovativo da inserire tra le attività educative all'’interno dell’istituto penitenziario come attività permanente.

    La finalità del progetto è quella di favorire uno sguardo nuovo verso la propria storia di vita attraverso un processo di autoriflessività.
    Gli obiettivi specifici:
    - creare uno spazio di riflessione;
    - rafforzare l’identità e l’autostima;
    - cura di sé;
    - o cura dell’intelligenza;
    - per riprogettarsi “oltre le sbarre”;
    - momento formativo/trasformativi;
    - riflessione sulle tematiche della tossicodipendenza, del divenire adulti, delle emozioni;
    - possibile scrittura della propria autobiografia.

    3. LE PISTE DI RIFLESSIONE

    Dopo un’esperienza che si avvia al quarto anno, possiamo asserire che emergono delle piste di riflessione da percorrere per chi intende operare con il metodo autobiografico in carcere. Le piste di riflessione qui sotto elencate rappresentano parole-chiave, tracce sulle quali muoversi e proposte operative da sviluppare.

    1. L’inizio: il momento iniziale del laboratorio è un tempo utilizzato per creare un clima di fiducia e di benessere in un luogo dove queste situazioni esistono raramente. Il laboratorio autobiografico quindi come “pretesto” per ri-creare relazione con se stessi e fra di loro, e fra di loro e chi conduce.

    2. La persona: attraverso il racconto di sé emerge la soggettività del detenuto, egli non è più il deviante, il tossicodipendente, l’auto-lesionista, ecc, ma una persona con la sua storia: ciò è di fondamentale importanza per i compagni - e non solo - i quali hanno la possibilità di vedere la persona in modo diverso, mai o raramente valutato precedentemente.

    3. Il rispetto e l’attenzione: essenziali risultano essere il rispetto e l’attenzione nei confronti della storia di vita dei soggetti e, in particolare, nelle situazioni di disagio e sofferenza, dove prevale un senso di disprezzo nei confronti dell’esistenza. La cornice relazionale è di primaria importanza, solo così è possibile avviare un percorso autobiografico nei luoghi di reclusione. È attraverso la cura, l’ascolto e l’attenzione che l’educatore esprime nei confronti del detenuto che quest’ultimo ha, a sua volta, la possibilità di ri-percorrere e valorizzare la propria storia di vita.

    4. Il ritmo: considerando la centralità della relazione- prima di tutto con se stessi e poi con gli altri, è necessario non somministrare troppi input autobiografici, in modo che il detenuto abbia tutto il tempo e la calma necessaria per ritornare indietro nel tempo e riflettere su di sé. Il laboratorio, quindi, necessita di un ritmo lento, in modo da consentire la regressione nel tempo e la connessione delle varie fasi della vita, progettualità compresa. È grazie a questo ritmo che l’operatore può cogliere più facilmente eventuali argomenti da affrontare e approfondire insieme, al di là del precorso pre-stabilito.

    5. La progettualità: un obiettivo che compare come comune denominatore nei luoghi di reclusione è quello relativo alla progettualità; cosa farò/sarò fuori dal carcere una volta che la pena volge a termine? Ripercorrere i luoghi d’infanzia, le persone importante, le passioni di ieri per arrivare a riflettere sul futuro e le possibilità del domani, in modo da ri-trovare la capacità di pensarsi fuori dal carcere e recuperare speranza.

    6. Spazi di benessere: dai laboratori autobiografici emergono storie di vita legate a luoghi, spesso si tratta di spazi naturali: campagna, boschi, mare, dove compaiono affetti e persone care, quali nonni, parenti e madri. Sono spazi di benessere e di familiarità; la carcerazione e la tossicodipendenza diventano eventi secondari, sullo sfondo, che non prendono il sopravvento rispetto ad altre parti dell’esistenza. Il laboratorio autobiografico in carcere, al fine di allentare le difese e predisporre il detenuto al racconto di sé, nasce con la prerogativa di essere “ludico”, nel senso di attivare principalmente ricordi piacevoli e momenti di benessere. Il detenuto aderisce pienamente a questa modalità, forse perché nei confronti del gruppo è più difficile esporre le parti di sé difficili e dolorose, o forse semplicemente perché il detenuto stesso ha bisogno di recuperare stralci soddisfacenti della propria vita e momenti in cui si è sentito persona.

    7. Tra dentro e fuori: un’ultima pista di lavoro che intendiamo approfondire attraverso il metodo autobiografico è l’esplorazione di una zona particolare della detenzione ancora poco esplorata che si colloca tra “il dentro” e “il fuori”, ovvero la zona del fine pena. Il percorso che intendiamo attivare con i detenuti che si avvicinano all’uscita dal carcere è un lavoro di orientamento per riprogettare il futuro prossimo percorrendo la tematica del “mito del fuori” e la solitudine che spesso li accompagna in questo momento di passaggio.


    BIBLIOGRAFIA

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    Galanti M.A., Affetti ed empatia nella relazione educativa, Liguori, Napoli, 2001.
    Gonin D., Il corpo incarcerato, Gruppo Abele, Torino, 1994.
    Lyotard L. F:, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
    Oliveiro A., L’arte di ricordare, Bur Saggi, Milano, 2000.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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