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  • Pratiques narratives pour la formation
    Francesca Pulvirenti (sous la direction de)
    M@gm@ vol.3 n.3 Juillet-Septembre 2005

    L'AUTOBIOGRAFIA: UNO STRUMENTO DI FORMAZIONE


    Franco Cambi

    cambi@unifi.it
    Professore ordinario di Pedagogia generale presso l'Università degli Studi di Firenze; Membro del Consiglio Direttivo dell’IRRSAE-Toscana dal 1997; Presidente dell'IRRE-Toscana; da più di dieci anni fa parte del Consiglio Direttivo del CIRSE; dirige l’UNELG-Toscana; dal 1998 dirige “Studi sulla formazione”; Direttore scientifico dell'Archivio della pedagogia italiana del Novecento; dirige collane editoriali presso varie case editrici, fra le quali “Le Lettere” di Firenze, “La Nuova Italia” di Milano, “Carocci” di Roma, “Unicopli” di Milano; si è occupato di pedagogia e storia della pedagogia, di letteratura per l'infanzia e di studi filosofici; tra le sue opere più recenti si ricordano (a cura di) "La progettazione curricolare nella scuola contemporanea" (Roma, Carocci, 2001), "L’autobiografia come metodo formativo" (Roma-Bari, Laterza, 2002), "Formare alla complessità" (con M. Callari Galli e M. Ceruti, Roma, Carocci, 2003).

    1. LE PROFESSIONI EDUCATIVE: RIFLESSIVITÀ E AUTOCOSCIENZA

    L’educare, al di là del suo significato tradizionale (ed etimologico) di attività rivolta al “trarre fuori” e al “nutrire” che significa al tutelare una crescita e orientarla, si definisce oggi piuttosto come un formare, anzi un partecipare attivamente ad un processo di autoformazione di cui è protagonista effettivo lo stesso soggetto in crescita. Educare è, allora, un “prendersi cura” e un “prendere in cura”, un’attività di sostegno e sollecitazione, di interpretazione e di affiancamento all’interno di quel processo complesso e carico di conflitti, come di “ristagni” e di accelerazioni, di svolte, di crisi, di incertezze che è appunto il processo di formazione. Stare in questo processo significa accompagnarlo, con vigilanza e sollecitudine, ma anche favorirne il suo sviluppo, nella direzione di una conquista piena (la più piena possibile) dell’umano e del sociale, ovvero di un modello di umanità il più possibile integrale e di un modello di socializzazione attiva e responsabile.

    L’obiettivo di questo processo - insieme autonomo e “guidato” - è il dar-forma alla soggettività del singolo, favorirne lo sviluppo personale, secondo un modello proprio e flessibile al tempo stesso. Poiché non si è mai completamente formati, ma ci si forma “per tutta la vita”. Prima saranno le figure degli educatori a sostenerci e orientarci, poi il soggetto stesso diverrà “maître de soi” e attiverà i propri processi di guida su se stesso. L’educatore sta, quindi, dentro un processo sempre in itinere e sempre incompiuto, che alla fine oltrepassa il proprio agire, lo revoca in dubbio, lo decostruisce e lo spiazza, ma che - purtuttavia e a lungo - di quell’azione di “cura e coltivazione” ha bisogno, e un bisogno strutturale, possiamo dire. E in quel processo ci sta con una vocazione ermeneutica: di interpretarlo, pre-figurarlo, dialetticamente integrarlo, orientarlo verso il suo akmé. La professionalità educativa (di genitori, maestri, “mentori”, etc.) si è fatta, così, più drammatica, più complicata, più “sottile” anche, e nel proprio agire e nell’autocoscienza che essa ha e deve avere di se stessa.

    La rottura rispetto al passato è forte. Non l’autorità, non l’esemplarità, non l’intreccio di “cura e controllo” sono più al centro dell’agire educativo. Sono sì - ancora - suoi momenti, ma non ne delineano più l’identità. Al centro sta, invece, l’interpretare e il sostenere, che sono attività di aiuto al soggetto e non di “legiferazione” del suo iter di sviluppo. Essere genitore, essere “maestro”, essere “mentore” (che è un maestro interiorizzato), etc., significa capire e/o comprendere il soggetto-in-crescita, disporsi in condizione di aiuto, leggere i segni della sua individualità, fissare (dall’interno di quel processo individuale) traguardi e obiettivi, lavorare con un’ottica di “diagnosi” e di “terapia”, un’ottica clinica.

    In questo modo, però, l’idea di professionalità educativa e le competenze che la contrassegnano vengono radicalmente a mutare. Tale professionalità si costituisce al crocevia di un fascio di saperi dell’uomo (dalla psicologia alla psicoanalisi, dalla sociologia alla microsociologia, dalle teorie della comunicazione alle teorie della formazione) che si saldano in un’ottica critica, da un lato, e si legano a un “caso”, dall’altro. Anzi, critico-ermeneutica, che pone al centro il dispositivo (cognitivo, etico, antropologico) della interpretazione. Quanto alle competenze esse sono di tipo comunicativo e relazionale, in primis, poi competenze di riflessività, sia sull’iter formativo del soggetto, sia rispetto all’agire educativo medesimo. Infine competenze di formazione in senso stretto, cioè di agire con/per e nel soggetto, ma al servizio di un suo percorso, avendo la capacità di interagire con quel processo e partecipandovi e giudicandolo al tempo stesso; il che reclama una disposizione psichica di grana fine, di Grande Educatore (si pensi a Socrate, a Pestalozzi, anche al Pavolini “educatore”), che rende l’educatore un/il fattore chiave di quel processo. Disposizione che nasce dalla “cura di sé” dell’educatore, dall’aver studiato in sé l’umanità dell’uomo, l’aver preso coscienza del dinamismo drammatico del “farsi uomo” di ogni soggetto.

    Si tratta di un fascio di competenze diverse e articolate che ben distinguono l’educatore dall’insegnante, anche se spesso le due identità si sovrammettono. Sono, inoltre, competenze mai acquisite una volta per tutte, ma costantemente rinnovate, integrate, “messe alla prova”, riconquistate in un libero e sottile processo interiore. E che reclamano soprattutto una forte coscienza individuale da parte dell’educatore, allenato all’ermeneutica-di-sé, alla rilettura del proprio processo di formazione e professionale e umana, per cogliersi e/o costituirsi in quella sua dimensione di educatore-come-formatore.

    La letteratura pedagogica contemporanea ha ben riconosciuto questa svolta nell’educatore, quel suo riqualificarsi come formativo, mettendo al centro la relazione educativa e classificandola come relazione-d’-aiuto, tipica non solo nel trattamento del disagio o della devianza, ma - come ci ha ricordato Bettelheim - di ogni rapporto educativo, a cominciare da quello primario: quello genitoriale. Si pensi agli studi sugli stili della relazione educativa, si pensi alla “clinica della formazione”, si pensi alla decostruzione/ricostruzione (storico-sociale) del “rapporto educativo”, si pensi alle ricerche sulla comunicazione educativa (con valorizzazione degli affetti e/o della conversazione, etc.): sono tutte indagini in corso che hanno cambiato volto all’agire educativo e alla stessa professionalità educativa. Come ha fatto anche la riflessione intorno all’autobiografia. Fare-autobiografia è formarsi; anzi, è formarsi due volte. E’ rileggere la propria formazione e mettere in moto un altro processo di formazione. Tale pratica, inoltre, appare centrale, irrinunciabile nella formazione dei formatori.

    2. LA PRATICA AUTOBIOGRAFICA OGGI

    La narrazione autobiografica gode oggi di grande attenzione, e a molti livelli o secondo molti aspetti. Nell’ambito del romanzo, ma anche delle più semplici e comuni “storie di vita”. Nell’ambito della psicologia, come tecnica della “cura di sé” e pratica diffusa di autoanalisi. Nell’ambito della sociologia come modo di far parlare i soggetti per classi, etnie, appartenenze di qualsiasi genere e per interpretare, “dal basso”, quel nesso individuo/società che sta al centro della sociologia attuale, sì attenta ai sistemi, ma sensibile a quel “microsociologico” di cui fanno parte stili-di-vita, mentalità, culture settoriali, etc. Nell’ambito della stessa antropologia, come approccio-confessione alle culture e lettura partecipata, vissuta dei loro modelli, delle loro credenze, delle loro pratiche di socializzazione, etc. Anche nella storia l’autobiografia si è proposta come documento centrale, se pure esposto ai rischi della “messa in posa” di sé e ai soggettivismi di una rilettura degli eventi storici. Anche in pedagogia l’autobiografia sta occupando uno spazio sempre più centrale, pratico e teorico. Come strumento di formazione (personale, professionale, etc.) e come elemento-chiave per dar corpo ad una vera e matura pedagogia del soggetto, intorno alla quale si va disponendo sempre con più forza la costruzione pedagogica contemporanea.

    Tutto ciò è dovuto ad una serie di ragioni - storiche da un lato, anzi storico-sociali, e metodologiche dall’altro - che hanno condotto a questo rilievo che la cultura assegna, oggi, alla narrazione autobiografica. Tra le ragioni storico-sociali vanno ricordate, almeno, la crescita della “società degli individui” (Elias) e lo statuto dinamico e incerto al tempo stesso che in essa è assegnato al soggetto; l’entrata in quel processo di Secolarizzazione e di Disincanto che libera sì i soggetti-individui, ma anche li isola, li rende più irrelati, li annoda alla loro (fragile) individualità; il processo di diffusione del narcisismo che attraversa le società industriali avanzate, in cui l’individuo è sì un singolo, ma un singolo inquieto, alla continua ricerca-di-sé e, pertanto coinvolto in percorsi, sempre reiterati, di auscultazione e di interpretazione. Va ricordata anche l’entrata in quel post-moderno che frantuma le società, relativizza i valori, problematicizza i soggetti, e li apre a un’avventura sempre aperta della “ricerca di sé”. Sono tutte ragioni che, da un lato, liberano e innovano, ma che, dall’altro, producono soggettivismo esasperato, narcisismo patologico, e con ciò irrisoluzione, incertezza, debolezza che diviene fragilità e inconcludenza: perdizione di sé, piuttosto che ri-conquista.

    L’autobiografia come pratica narrativa è, insieme, il segnale e il sintomo di questa trasformazione storica. Ma è anche un’occasione - e non minimale, tutt’altro - di “cura di sé”, che è la via forse aurea per restituire al soggetto - oggi - densità e pregnanza, identità e forza. E siamo al secondo aspetto: quello metodologico. L’autobiografia si è manifestata come un metodo efficace, culturalmente, soggettivamente, formativamente efficace. E’ metodo che arricchisce tutti i fronti della cultura, li affina, li ricompone su frontiere più vissute e più sottili. Si pensi al romanzo e a come l’autobiografia, nelle sue varie forme, lo abbia reso più informale, più decostruttivo, più interpretativo, più ricco e maturo. Si pensi a Proust e a Joyce, tanto per cominciare, guardando “in alto”, molto in alto. Si pensi all’antropologia culturale o socio-antropologia e a come l’autobiografia si collochi, qui, su una frontiera complessa e inedita di indagine: su quella frontiera che collega cultura e vissuto, ma fa del vissuto stesso la spia più significativa di una cultura, del suo diffondersi, del suo valere, del suo agire sui/nei soggetti, piuttosto che del suo “sistema” astratto e formale. Che c’è ma c’è per esser vissuto e in quanto vissuto.

    Posto questo ruolo-chiave che l’autobiografia si è conquistata nella cultura/società attuale, risulta quasi consequenziale che molte istituzioni oggi lavorino su questa frontiera, la organizzino, la indaghino, la custodiscano in tutti i sensi: favorendo “giacimenti” di scritture autobiografiche e promuovendo studi, ricerche, riflessioni intorno al ruolo (sociale e non) di tali strutture. L’esempio italiano più significativo in tal senso è l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, che nasce con finalità storico-sociali (di raccogliere testimonianze di vita come frammenti di una storia vista dal basso, dalla gente comune), ma che, via via, sviluppa in sé anche il côté di valorizzazione delle scritture autobiografiche come via di affermazione dei soggetti e di riconoscimento della loro - oggi - costitutiva problematicità. Così l’Archivio si è fatto sempre più promotore di studi sull’autobiografia e di affiancatore di una diffusione della pratica autobiografica attraverso cicli di corsi, di lezioni, di seminari e anche di seminari critici su questa pratica di scrittura e di pensiero, oltre che di “cura di sé”.

    Ma l’aspetto che qui più ci interessa è, invece, e in particolare, l’innesto pedagogico che tale pratica ha prodotto, proprio attraverso quel dispositivo della “cura di sé” che Foucault riconosce come centrale nelle filosofie stoiche, ma che proprio la nostra attualità (legata a un individuo più fragile, più problematico in sé, più alla ricerca di se stesso) viene a riproporre come centrale. E’ stata proprio l’educazione degli adulti a riaffermare, con la “cura di sé” il valore dell’autobiografia come metodo formativo, assegnandole un ruolo-cardine nella costituzione di ogni “adultità” personale (si è soggetti-persone se ci si fa consapevoli di sé, quindi della propria storia vissuta, quindi del proprio percorso biografico, che deve essere però ripensato auto-biograficamente) e, insieme, nella formazione dei formatori, di quei soggetti che, per professione, devono “prendersi cura” di altri soggetti, esercitando su di essi un “potere”, attraverso il “sapere” e l’agire, i quali devono essere, per stare nella cura della libertà degli altri, liberati il più possibile (e per quanto possibile) da pregiudizi, condizionamenti, etc. che vengono dal proprio vissuto e che, spesso, troppo spesso, operano come degli “impensati” (dogmi, certezze, norme) nella coscienza dei formatori. La loro origine è spesso biografica. L’autobiografia può spezzare il cerchio magico di una coazione a ripetere e di portare luce (o, almeno, più luce) là dove stili, modelli, principi operano in modo quasi inconscio e condizionano l’agire formativo, riportandolo tutto nell’orizzonte del formatore piuttosto che disporre questo a risvegliare “cura di sé” nel soggetto in formazione.

    La pedagogia ha trovato nella pratica autobiografica tanto una nuova metodologia di approccio all’educazione degli adulti capace di mettere al centro i soggetti e non lo statuto e i ruoli sociali del soggetto stesso, quanto un metodo per affinare (e in profondità) quelle professionalità educative che oggi hanno perduto ogni identità autoritaria, conformistica e trasmissiva, per assumere la ben più complessa e problematica identità legata alla loro specifica funzione formativa, al loro essere-per-agire-per-la-libertà-dell’-altro.


    BIBLIOGRAFIA

    F. Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Roma-Bari, Laterza, 2002.
    F. Cambi et alii, Le professionalità educative, Roma, Carocci, 2003.
    D. Demetrio, Raccontarsi, Milano, Cortina, 1995.
    D. Demetrio, L’educatore auto(bio)grafico, Milano, Unicopli, 2000.
    A.Erbetta, Il paradigma della forma, Roma, Anicia, 1992.
    M. Foucault, La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1985.
    I. Gamelli (a cura di), Il prisma autobiografico, Milano, Unicopli, 2003.
    G. Gusdorf, Auto-bio-graphie, Paris, Jacob, 1991.
    M. Knowles, La formazione degli adulti come autobiografia, Milano, Cortina, 1996.
    P. Jedlowski, Storie comuni, Milano, Bruno Mondadori.


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