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  • Approccio dal basso e interculturalità narrativa
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003

    IMMIGRAZIONE, INTEGRAZIONE, CITTADINANZA IN BELGIO Alcune considerazioni semantiche

    (traduzione Orazio Maria Valastro)

    Ivan Dechamps

    ivandechamps@altern.org
    Laureato in Servizi Sociali, Diritto e Sociologia; ha lavorato in qualità di ricercatore e assistente presso l'Università; ha pubblicato diversi studi di sociologia sulla religione, i servizi sociali, la povertà e l'esclusione sociale, l'immigrazione, il diritto degli stranieri e le scienze amministrative.

    Il dibattito politico sull'immigrazione in Belgio è molto spesso focalizzato attorno al binomio immigrazione-delinquenza e al successo o fallimento di quello che alcuni responsabili politici definiscono 'l'integrazione' delle popolazioni provenienti dall'immigrazione. Questo dibattito - è necessario dirlo? - stimola di consueto delle idee attinenti con le 'prenozioni', rappresentazioni formate dalla pratica e per la pratica, citando Durkheim [1], piuttosto che con i concetti, quella formula che precisa indiscutibilmente le caratteristiche delle realtà considerate. E' necessario dunque riflettere a quello che si dice quando si parla di migrazione. Intraprenderemo pertanto un piccolo e salutare esercizio semantico su alcuni termini quali 'straniero', 'immigrato', 'allogeno', 'esclusione', 'integrazione', 'assimilazione', 'minoranza etnica', 'discriminazione', 'cittadinanza', poiché queste parole veicolano dei significati diversi che non sono intercambiabili.

    A. Riflessioni su alcuni termini [*]

    Lo straniero

    Tutto ha inizio con la presenza dello straniero su di un dato territorio. Lo "straniero", nell'era degli Stati Nazione, è l'individuo che non possiede la nazionalità del paese in cui risiede. La nazionalità contraddistingue l'appartenenza di una persona alla popolazione specifica di un territorio e gli garantisce, in questo spazio, un diritto di cittadinanza; sanzionando la prossimità tra i membri del gruppo individuato dallo spazio in cui risiedono. E' una nozione giuridica. Il diritto interno allo Stato di residenza determina in questo modo chi è straniero nel suo territorio, non la razza, l'etnia o la cultura. Ma se il diritto definisce chi è straniero e chi non lo è, se dichiara inoltre, da questa distinzione, chi può avere accesso al territorio, soggiornarvi, stabilirvisi o esserne allontanato (e come può esserlo), di quali diritti può avvalersi lo straniero e a quali doveri deve sottostare, non enuncia il processo migratorio e le sue conseguenze che mettono in evidenza un altro genere di conoscenze, un'altra comprensione della migrazione.

    L'immigrato

    Nel territorio dello Stato che lo definisce, giuridicamente, come straniero, il migrante è un "immigrato" che vive in una collettività nazionale che non è la propria, una collettività che gli è estranea. A. Sayad parla di sé stesso come di uno straniero in soggiorno provvisorio, un forestiero nella nazione, colui a proposito del quale non si è mai pensato che potesse rimanere, come lui stesso non lo considerava alla stregua delle autorità poiché, nella storia delle migrazioni nell'Europa occidentale, era unicamente il lavoro che ne giustificava la presenza [2]. L'immigrato è, menzionando Simmel, lo straniero che, arrivato oggi, resterà domani, "[...] il viaggiatore potenziale in qualche modo: nonostante non abbia proseguito il suo cammino, egli non ha affatto rinunciato alla libertà di andare e venire" [3]. Gli immigrati al contrario sono cambiati, si sono installati nella società di accoglienza, i lavoratori sono diventati delle famiglie e le ondate d'immigrazione che il Belgio ha conosciuto già dalla seconda guerra mondiale sono adesso generazioni, la prima ha dato origine alla seconda, la seconda ad una terza, eccetera. Il transitorio è diventato duraturo ed anche definitivo, la forza lavoro è diventata forza demografica. Possiamo ancora parlare d' "immigrato", senza equivocare, se la riflessione non considera lo straniero che ha vissuto la migrazione? Certamente no, perché se l'immigrato è propriamente un sopravvenuto che introduce in un gruppo determinato territorialmente delle caratteristiche fino allora sconosciute, i suoi discendenti, nati in questo gruppo, non lo sono. Anche se non possiedono la nazionalità dello Stato nel quale nascono, anche se sono giuridicamente stranieri, sociologicamente, non sono dei sopravvenuti, degli "stranieri". Sono, progressivamente, degli "autoctoni" contraddistinti più dalla prossimità della loro presenza che non dalla distanza della loro ascendenza.

    L'allogeno [4]

    Da qui il bisogno di un altro vocabolo per designare queste persone che non sono immigrate ma che sono gli eredi dell'immigrazione, un altro vocabolo per indicare questa ricomposizione della dialettica della distanza e della prossimità. Il termine "allogeno" assume sovente questa funzione in Belgio, essenzialmente fra i locutori di lingua olandese, influenzati dal discorso scientifico, politico e mediatico olandese. Questo termine, "allogeno", è sconosciuto, se non dalla lingua francese (è un termine tecnico della botanica e della zoologia e si adopera per indicare una specie di recente apparizione nella regione considerata), almeno dal pensiero sociale e dalla letteratura scientifica di lingua francese. Questo neologismo designa molto estesamente l'insieme delle persone che hanno un legame con l'immigrazione, o lo hanno avuto, e assume un suo significato rispetto al suo stesso contrario "autoctono" che in francese significa "colui che è nativo del territorio stesso in cui abita", chi non ha dei rapporti con l'immigrazione, chi è indigeno. Ma lo straniero (in senso giuridico) che è nato nella società di accoglienza e che vi risiede è, per definizione, indigeno non possedendo pur tuttavia la nazionalità del suo luogo di nascita; mantiene certi legami con l'immigrazione a causa della sua ascendenza ma si radica nel suolo in cui abita, egli è dunque autoctono e non allogeno.

    Il termine allogeno crea confusione ma presenta senza dubbio qualche utilità per gli ideologi nazionalisti: l'allogeno, qualunque cosa faccia, ovunque nasca, di qualunque nazionalità sia, è marchiato dall'estraneità. L'eventuale acquisizione della nazionalità dello Stato di residenza non ne farebbe mai completamente un membro di questa collettività nazionale, un "cittadino di nascita", la sua esistenza sarebbe sempre radicata altrove, sarà sempre al di fuori. All'origine dell'uso di questo termine che si colloca nell'ambito di una società che afferma con forza la sua identità nazionale o culturale, una società in definitiva insufficientemente o artificiosamente aperta [5], troviamo una concezione attinente all'essenzialismo, per la quale l'uomo è destinato nei confini di una cultura specifica. Poiché essa non può definire con un termine proprio questi uomini e queste donne venuti da altrove e i loro discendenti che popolano il territorio della società di accoglienza, il pensiero francofono utilizza delle perifrasi. Di queste popolazioni che sono a volte straniere nel senso giuridico ma che, col passare del tempo, sono sempre meno estranee per le loro usanze e le loro traiettorie, è opportuno affermare che sono "provenienti dall'immigrazione" o "originarie" o ancora "di ascendenza immigrata".

    L'esclusione

    In virtù di questo radicamento, non si capisce perché ci si ponga ancora la questione della loro "integrazione", e questo comporta che esse vivano, poiché popolazioni provenienti dall'immigrazione, una condizione di "esclusione sociale". Né la nozione di integrazione, né quella di esclusione sociale ci sembrano pertinenti per esprimere il sociale presente. Siamo sicuri che l'attuale questione sociale sia quella dell'esclusione, questione nata dallo studio del sotto proletariato francese della metà del secolo scorso? Che le società europee sono fratturate, sbriciolate, segregate, dislocate, sconnesse? Che i sotto proletari e le popolazioni provenienti dall'immigrazione siano al di fuori della società, delle strutture, del diritto? Che siano in un "non luogo"? [6] Se l'esclusione può, almeno in parte, caratterizzare la condizione di persone che vivono nella miseria nera dell'erranza o nella clandestinità, è indebito associare sistematicamente al sotto proletariato o ad una immigrazione regolare, le cui traiettorie e le identità sono differenti da quelle dei senza fissa dimora, i vagabondi o gli immigrati irregolari.

    L'identità

    L'identità ("noi" e "loro"), lo sappiamo, è una costruzione sociale, anche nella sua dimensione soggettiva, e non uno stato di natura. E' una manifestazione sociale variabile definita da ciò che le è esteriore. L'attitudine della società d'accoglienza statuisce l'identità della popolazione migrante in maggior misura che non questa stessa attitudine, considerata come espressione dell'identità dei migranti e dei loro discendenti [7], sia che ne scaturisce - la politica della minoranza etnica - , sia quando cerchi di contrastarla - la politica dell'assimilazione.

    L'assimilazione

    Il processo sociologico per il quale le persone che sopraggiungono in una collettività qualunque ne adottano progressivamente i suoi usi e costumi, l' "assimilazione", è un fatto noto. Col tempo i sopravvenuti diventano simili ai membri installatisi nella collettività di accoglienza. L'assimilazione sopprime le differenze culturali, conducendo all'adattamento del sopravvenuto e dei suoi discendenti al loro (nuovo) ambiente, generazione dopo generazione, tanto è vero che le nazioni moderne producono, in gran parte, gli individui che li compongono fino a includere quello che Mauss chiamava, in un testo premonitore, le "tecniche del corpo" [8]. In questo senso, la società moderna è un crogiolo dove si fonda una identità comune da identità particolari. Una politica di assimilazione, al contrario, riposa sull'idea che la sopravvenienza di elementi stranieri induce il pericolo dell'anomia, della disorganizzazione morale della società di accoglienza. La coesione non può essere ritrovata, di conseguenza, che nella soppressione dell'alterità, e il ritorno alla purezza originale attraverso il mantenimento della differenza (la relegazione in spazi delimitati) o l'espulsione (il ritorno forzato, l'allontanamento o quello che si definisce la "doppia pena"). Questa politica spontanea non concepisce che la ferita dello sradicamento si cura, nell'immigrato, attraverso il rapporto mantenuto con la terra d'origine (sicuramente in parte fantasticato - il mito del ritorno si fonda sul passato e non sul presente della società di origine - ), e, per i suoi discendenti, attraverso il tempo che scorre, l'incorporazione delle disposizioni soggettive dominanti della società di accoglienza, la loro integrazione.

    L'integrazione

    L' "integrazione" è il termine generico con il quale si definisce, tra le altre cose, l'adattamento alla società di accoglienza dello straniero che può installarvisi durevolmente. E' un processo di acculturazione. Questa nozione significa inoltre, secondo Durkheim, la solidarietà di elementi dissimili che formano, nonostante la loro assenza di similitudine, un tutto organico [9]. L'integrazione, in questo senso, è la composizione di differenze attorno ad un denominatore comune. L'interdipendenza tra i membri di una qualunque collettività arrivati di recente e gli altri installatisi da qualche tempo, la loro oggettiva cooperazione. L'integrazione è sempre indicata come il collante dei rapporti sociali. Si riconoscerà che la nozione è ambigua e che dissimula l'ideale dell'organicismo: al di là della cooperazione, una società integrata è una società senza conflitti, senza spaccature, senza alterità se non passeggere. Una politica d'integrazione interessa dunque, in senso stretto, delle persone sopravvenenti, degli immigrati, e non i loro discendenti che si adattano, questi ultimi, poco a poco, alla società di accoglienza mostrandone le caratteristiche comuni. Gli uni e gli altri non formano una minoranza etnica dai contorni identificabili in seno ad un tutto culturale e sociale compiuto [10].

    La minoranza etnica

    La "minoranza etnica" è un gruppo umano meno numeroso definito da una identità culturale propria che condivide un dato territorio con un altro gruppo umano più numeroso definito da un'altra identità culturale. La nozione implica la similitudine in seno ai gruppi e l'inferiorità di un gruppo rispetto ad un altro. Questa non concerne, in se stessa, un significato cooperativo, ma segna la minoranza nella sua differenza. L'implementazione di una politica di migrazione, in base alla logica della minoranza etnica, implica che i gruppi umani presenti sul territorio siano definiti e trattati dalle autorità pubbliche in funzione della loro propria identità culturale; sono accomunabili. Così la nozione di minoranza etnica contribuisce a rendere permanente le differenze dei gruppi umani. La diversità è elevata al rango di natura e fonda l'azione pubblica: le minoranze etniche essendo composte d' "allogeni", la nozione è perfettamente compatibile con la residenza permanente ma non lo è con la cittadinanza effettiva, né con la sensibilità delle culture, né con le caratteristiche individuali. E' una concezione dell'essenzialismo che può sfociare nella negazione dell'individuo (definito unicamente per la sua appartenenza comunitaria, la sua origine, la sua estraneità) così come nell'arroccamento dei riferimenti culturali e dei rapporti sociali dei gruppi di popolazione interessate.

    B. Quali nozioni utilizzare?

    Bisogna concepire altrimenti la presenza delle popolazioni legate all'immigrazione sul territorio di accoglienza: allontanare con altrettanta forza la soppressione delle differenze nella società integrata così come la loro sovrapposizione nella società multiculturale. Uscire dalla concezione dell'essenzialismo a sostegno di un pensiero dialettico.

    L'inclusione

    Se vogliamo infine considerare come l'inclusione riuscita delle popolazioni migranti o provenienti dall'immigrazione nella società di accoglienza accosta paradossalmente il rispetto dei principi fondamentali della società di accoglienza, il rispetto della diversità culturale così come la volontà di far partecipare quelle popolazioni agli obiettivi dei poteri pubblici, avremmo fatto un grande passo in avanti nella comprensione dell'immigrazione e delle sue conseguenze. L'integrazione è, in questo caso, l'accettazione reciproca della società di accoglienza e delle popolazioni sopravvenute in questa società. Essa si concretizza attraverso la partecipazione delle popolazioni provenienti dall'immigrazione regolare ai movimenti della società di accoglienza e non tramite la loro assimilazione forzata alla cultura del luogo di accoglienza. Essa è anche l'accettazione del crogiolo nel quale la diversità ne è la risultante e, inversamente, la comunanza risiede nella singolarità. Vogliamo allora pensare l'integrazione come un doppio registro: sociologico, essa è effettiva quando i comportamenti delle popolazioni provenienti dall'immigrazione convergono verso quelli delle popolazioni originarie a condizione sociale uguale e quando gli elementi significativi di queste popolazioni conoscono una mobilità sociale ascendente; politica, essa è un concreta quando gli orientamenti dello sviluppo sociale sono l'oggetto del dibattito e dell'azione delle quali queste popolazioni sono partecipi. La partecipazione, quando la si consideri secondo uno di questi punti di vista, si rappresenta più adeguatamente con il termine "inclusione" piuttosto che con quello d' "integrazione".

    La nozione d' "inclusione" è certamente discutibile. Per gli uni, insiste insufficientemente sulla solidarietà degli elementi dissimili, sulla loro interdipendenza, e impedisce l'elaborazione di un progetto di società comune (peggio, nasconderebbe una logica di minoranze?) [11] quando invece per gli altri, ai quali non apparteniamo, realizza, lontano da qualsiasi organicismo e differenziazione, l'alchimia dell'unicità e della comunanza. Situata tra la volontà di assimilazione e la logica della minoranza etnica, questa nozione permette, ci sembra, di pensare sia alla differenza, sia alla similitudine e alla vita in comune. Una politica d'inclusione delle popolazioni provenienti dall'immigrazione ricerca il bene comune per e nella mutua accettazione delle differenze e della condivisione dei progetti. Favorisce la partecipazione politica, sociale, economica e culturale utilizzando la diversità come veicolo di similitudine e, inoltre, non collega la partecipazione dello straniero nella collettività nazionale alla sorte riservata al connazionale all'estero: fondata sull'eguaglianza esercitata qui e ora e non sulla reciprocità, l'inclusione è la dialettica della similitudine e della differenza. Ne consegue la coesistenza pacifica in quanto ciò che isola, nella similitudine, è respinto e ciò che distingue, nella differenza, è rispettato senza impedire la cooperazione.

    L'(in-)eguaglianza e la (non-)discriminazione


    L'inclusione è fondata sul principio dell'eguaglianza che la società di accoglienza mette in opera, per scelta, senza preoccuparsi di sapere se altri Stati procedono ugualmente, se esiste reciprocità. L'eguaglianza si comprende in queste due accezioni. E' innanzitutto un rapporto tra persone. Significa che gli individui piazzati in una identica situazione devono essere trattati in modo equivalente. L'ideale democratico esige che la legge sia la stessa per tutti e che i privilegi siano aboliti. L'eguaglianza tra le persone è posta dal diritto. Essa è funzionale e la sua difesa passa attraverso la lotta contro le discriminazioni. Noi, ormai, non siamo più in una politica dell'integrazione ma in una fase ulteriore poiché la lotta anti-discriminatoria coinvolge, per definizione, delle persone dotate dei medesimi diritti e dei medesimi doveri che tuttavia, senza una giustificazione ragionevole, non sono trattate ugualmente mentre la politica d'integrazione riguarda delle persone che non sono, per definizione, nella stessa condizione delle popolazioni originarie poiché queste sopravvengono nella società di accoglienza. La discriminazione può derivare, intensa in questo modo, dalla regola o dal comportamento intenzionale, essa è ben definita o visibile. Può dipendere da disposizioni, criteri o trattamenti apparentemente neutri ma che hanno, per la loro applicazione, degli effetti nefasti per alcuni gruppi o per alcune persone in ragione della loro appartenenza a questi gruppi; in questo caso, essa è indiretta o dissimulata. Può rilevare anche da pregiudizi o da comportamenti che hanno come effetto quello di mettere in una situazione di svantaggio dei gruppi o delle persone in ragione della loro appartenenza a questi gruppi, ma la responsabilità del danno causato non è attribuibile a chiunque; essa è allora strutturale.

    La discriminazione è dunque una differenza di trattamento la cui illegittimità è posta dal diritto che la reprime ma ogni distinzione o differenza di trattamento non è, in se, illegittima o deplorabile. La discriminazione strutturale riceve la sua illegittimità, per quello che le concerne, dalla morale pubblica o dalla riflessione etica che sfocia qualche volta sull'elaborazione di politiche dette di "discriminazione positiva", nozione paradossale che mira a ristabilire l'eguaglianza attraverso l'ineguaglianza di trattamento. Una differenza di trattamento che nuoce allo straniero può dunque essere stabilita dal legislatore senza derivare, ciononostante, dalla discriminazione o dal razzismo. Questa differenza di trattamento stabilita a detrimento dello straniero, per non essere discriminatoria, deve riposare su un criterio oggettivo ed essere ragionevolmente giustificata; la giustificazione si valuta tenendo conto del rapporto tra lo scopo perseguito e la disposizione legale e in funzione della natura dei principi in causa. Il principio di uguaglianza è violato quando non esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli scopi perseguiti. L'uguaglianza dei diritti, l'eguaglianza formale, stabilisce ciò nondimeno una misura comune tra individui distinti (il godimento di diritti) ma non tiene conto delle ineguaglianze esistenti nella ripartizione dei benefici della vita in società tra i soggetti di diritto, non si preoccupa delle condizioni di esercizio dei diritti dichiarati dai testi in vigore.

    Giacché l'eguaglianza è anche un rapporto tra gruppi sociali. L'eguaglianza sociale richiede che i gruppi collocati nella stessa condizione siano trattati in modo equivalente, e che solo il merito li divida: è ancora il fondamento di una politica dell' "eguaglianza delle possibilità". Ma l'ideale egalitario può ancora auspicare che i gruppi formanti una collettività siano dotati, nonostante le loro differenze, degli stessi benefici della vita in società. L'eguaglianza è allora politica, sociale ed economica. In questo caso si definisce "reale". Le nostre società non conoscono questa eguaglianza. E', e resta, un ideale. Ci situiamo qui agli antipodi della politica della minoranza etnica o della politica dell'assimilazione, cioè a dire di una politica della segregazione nell'alterità o di una politica della negazione dell'alterità che procedono entrambe, al di là della loro contraddizione apparente, da uno stesso rapporto sociale di dominazione per il quale le popolazioni maggioritarie negano alle popolazioni minoritarie un uguale diritto di vivere nel territorio di residenza: essere paradossalmente di in altro luogo per sopravvenienza o per eredità e beneficiare dei vantaggi offerti dalla società di accoglienza, essere anche di questo luogo.

    La cittadinanza

    L'eguaglianza si coniuga con civile e politico: la cittadinanza civile delle popolazioni provenienti dall'immigrazione è la concessione a queste ultime dei diritti e dei doveri civili, sociali, culturali e economici che caratterizzano abitualmente il legame di diritto stabilito tra il titolare della nazionalità e lo Stato da cui dipende. Si noterà che il principio di reciprocità non è utile a questo proposito e può essere contro produttivo tanto è vero che la possibilità di beneficiare dei vantaggi che offre normalmente l'esistenza nella società moderna inserisce l'individuo in questa società e così non ha senso far dipendere una politica auspicabile d'inclusione dalla condotta degli Stati stranieri. Una cittadinanza attiva (civile e politica) per queste popolazioni fonderà la società di accoglienza sul legame politico e non sull'immagine mitica del "popolo" (Volk) o della comunità culturale residente perennemente su di un dato territorio a rischio d'ibridazione, di anomia, sotto la funesta influenza dello straniero. Piuttosto che inibirsi in inutili considerazioni sul rapporto tra immigrazione e criminalità o domandarsi se l'integrazione è un fallimento o un successo (di cosa parliamo?), non converrebbe che il pensiero sociopolitico eviti la duplice trappola dell'essenzialismo e dell'organicismo, il fascino del pensiero etnico, e si inserisca radicalmente in una filosofia politica del riconoscimento dell'altro, quello che implica, e conduce alla reciprocità del riconoscimento? Ci sembra di si: questo riconoscimento reciproco che sfocia concretamente nell'eguaglianza dei diritti e dei doveri civili e politici risponde alla duplice questione di sapere come il bene generale può fare diritto al bene particolare e come restare se senza scartare il comune.


    BIBLIOGRAFIA

    Castel, R., Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard, 1995.
    Chambon, L., "Le multiculturalisme néerlandais: être tolérant malgré soi", Quaderni, n.4, 2001 - articolo diffuso su internet < https://laurent.babozor.net/quaderni.html >.
    Dechamps, I., "Quelques réflexions critiques à propos du couple intégration/exclusion", Contradictions, n.73, 1993, pp.119-137.
    - Droit, pauvreté et exclusion, Bruxelles, Fondation Roi Baudouin, 1998.
    Durkheim, E., Les règles de la méthode sociologique, Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1981.
    - De la division du travail social, Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1991.
    Haut Conseil à l'Intégration, L'intégration à la française, Paris, UGE, 1993.
    Lapeyronnie, D., "De l'altérité à la différence. L'identité: facteur d'intégration ou de repli?", in: Dewitte, Ph. (éd.), Immigration et intégration; L'état des savoirs, Paris, La Découverte, 1999, pp.252 et successive.
    Mauss, M., "Les techniques du corps", in: Sociologie et anthropologie, Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1993, pp.363 e successive.
    Paugam, S. L'exclusion. L'état des savoirs, Paris, La Découverte, 1996.
    Sayad, A., "Vieillir... dans l'immigration", Migrations Santé, n.99-100, 1999, pp.7 e successive.
    Simmel, G., "Digressions sur l'étranger", in: (Coll.), L'Ecole de Chigaco. Naissance de l'écologie urbaine, Paris, Ed. du Champ Urbain, 1979, pp.53-59.


    NOTE

    [*] Il presente contributo, realizzato per la rivista elettronica m @ g m @, è una rielaborazione di un articolo intitolato "De l'immigration à la citoyenneté", pubblicato nella rivista belga Pensée plurielle, n.3, 2001, pp.9-22.
    [1] E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique (1895), Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1981, pp.15 e successive.
    [2] A. Sayad, "Vieillir... dans l'immigration", Migrations Santé, n.99-100, 1999, pp.7 e successive.
    [3] G. Simmel, "Digressions sur l'étranger", in: (Coll.), L'Ecole de Chicago. Naissance de l'écologie urbaine, Paris, Ed. du Champ Urbain, 1979, pp.53-59.
    [4] Nota del traduttore: il termine belga di allogeno è allochtone.
    [5] L. Chambon, "Le multiculturalisme néerlandais: être tolérant malgré soi", Quaderni, n.4, 2001, articolo diffuso su internet < https://laurent.babozor.net/quaderni.html >.
    [6] Per ulteriori approfondimenti consultare: R. Castel, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard, 1995; S. Paugam (éd.), L'exclusion. L'état des savoirs, Paris, La Découverte, 1996; I. Dechamps (éd.), Droit, pauvreté et exclusion, Bruxelles, Fondation Roi Baudouin, 1998.
    [7] D. Lapeyronnie, "De l'altérité à la différence. L'identité: facteur d'intégration ou de repli?", in: Ph. Dewitte (éd.), Immigration et intégration. L'état des savoirs, Paris, La Découverte, 1999, pp.252 e successive.
    [8] M. Mauss, "Les techniques du corps", in: Sociologie et anthropologie, Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1993, pp.363 e successive.
    [9] E. Durkheim, De la division du travail social (1893), Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1991.
    [10] I. Dechamps, "Quelques réflexions critiques à propos du couple intégration/exclusion", Contradictions, n.73, 1993, pp.119-137.
    [11] Haut Conseil à l'Intégration, L'intégration à la française, Paris, UGE, 1993, p.8.


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