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Thrinakìa quinta edizione: premio internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.21 N.1 2023

Anime graffiate

Letizia Bertino

magma@analisiqualitativa.com

Catania, 1957.

Abstract

Un estratto dall'autobiografia Anime graffiate (Archivio della Memoria e dell’Immaginario Siciliano AMIS - Le Stelle in Tasca ODV Catania), terza opera classificata nella sezione autobiografie del premio internazionale di scritture autobiografiche Thrinakìa.

 

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Thrinakìa journal de voyage - Véronique Béné
Deuxième œuvre primée Section Journaux de voyage

Una nuova tappa nel gioco della vita

La mia anima è inquieta, subisco le metamorfosi del tempo e come lui mi adeguo al ritmo triste delle nuvole che percorrono le vie del cielo, visibilmente senza meta precisa, come per allontanarsi verso l’infinito. Mi sento parte del tutto e del niente chiedendomi - come tutti gli esseri prima e dopo di me - chi sono? Dove vado? Qual è lo scopo della vita e del suo trascorrere lento e costante verso la meta ultima?

La carezza del vento mi avvolge con il suo abbraccio dolce, sensuale e riemerge il ricordo dell’abbandono mistico al fuoco… Sono tutt’uno, particella del macrocosmo, con l’intima consapevolezza di essere importante, come tutti gli esseri che lo compongono. Partecipe di un disegno vitale che si ricompone e scompone fra le mani dell’artista, in questa immutabile e variegata vita che ci circonda della sua meravigliosa essenza.

Era l’età della primavera, delle emozioni sconfinate, della ricerca dentro e fuori dell’essere, delle scoperte, della gioia e dei dolori improvvisi che sconvolgono spirito e corpo.

Nell’estate del 1975 andavo con un gruppo di amici in spiaggia, di notte, per un tuffo nelle profondità del mare nero e misterioso: tutto ciò richiamava l’idea dell’ignoto futuro che ci attendeva dopo la fine dell’anno scolastico. In tasca, il successo di un diploma ottenuto con il massimo dei voti e l’incertezza di cosa è scritto per te sul libro della vita. Si aprivano infinite strade all’immaginazione, ma non volevo né riuscivo a fantasticare.

In quella culla d’acqua scura e tenebrosa, trovavo la natura della mia esistenza, del mio dibattermi continuamente fra il bene e il male, tristezza ed esaltazione, paure e sicurezze.

Il fuoco, sulla spiaggia buia, permetteva di ricevere un po’ di calore e di luce. Qualcuno intonava, al leggero ritmo della chitarra, le note delle mitiche e immortali canzoni di Battisti e di Baglioni.

L’aria umida e calda si diffondeva intorno e l’odore della brezza marina era carico di profumi riemersi dalle profondità del mare che, ribaltato dalle correnti e dalle piccole onde, si infrangeva con garbo sulla spiaggia. Il crepitio della legna secca, posta ad ardere sul fuoco, allentava tensioni e favoriva l’abbandono, avvolgendoti in un caldo senso di benessere.

Con orgoglio ci sentivamo figli del ‘68 alla ricerca di una vita libera e nuova, di una società più giusta, svincolata dalle ipocrisie politico-sociali e dalle imposizioni dei “matusa”, che volevano trasformarci in burattini da addestrare ed educare secondo i canoni del tornaconto, dell’arrivismo, della produttività e del capitalismo.

La cultura hippie era arrivata anche in Sicilia e aveva trovato la “Giovane Trinacria” pronta ad accoglierla. Si era diffusa ovunque e veniva nettamente rifiutata dagli adulti e ritenuta scandalosa da loro che, avendo impostato la vita sociale sui modelli “borghesi”, avevano il solo obbiettivo di raggiungere il maggior benessere a tutti i costi.

I “figli dei fiori” non erano come “loro” volevano far pensare: brutti, sporchi e cattivi; ma eravamo noi, i giovani, che lottavano per liberarsi dal formalismo, dai valori retorici e farisaici, appartenenti a una società falsa e borghese, per riappropriarci della gioia di vivere e di una nuova identità. Lo slogan “Pace, amore e libertà” veniva allora scandito con forza nelle piccole lotte familiari e sociali, con atteggiamenti originali: il modo di vestire, la quotidiana sfida alle mormorazioni, gli occhi bassi e la buona dose di punizioni che spesso diventavano, da parte dei genitori, reazioni incontrollate al crollo di un sistema educativo, messo in crisi dal conflitto generazionale. Autenticità, semplicità e ricerca del sé era allora l’andare in spiaggia e fare il bagno nudi, o dormire in riva al mare e sfidare le acque tenebrose durante la notte; cantare a squarciagola alla luna e percorrere un fiume sino alla sua sorgente; improntare una balera nei boschi e ballare sino allo sfinimento; adornarci di fiori, come le Ninfe, o indossare jeans sdruciti e ricamati con motivi floreali; lunghe collane e medaglioni orientaleggianti o maxi-gonne portate con orgoglio; andare a piedi nudi sui prati per ritrovare il contatto con la terra e praticare tecniche o scienze orientali di meditazione trascendentale, per ritrovare il senso del Divino!

Non ho mai conosciuto gli estremismi, imputati a questa filosofia di vita, né qualcuno che nell’ambito circoscritto del mio gruppo, sperimentò forme di “dipendenza” psicologica e fisica da droghe sintetiche o vegetali, espressioni della cultura della protesta e del dissenso.

Ci “facevamo” solo di buona musica, passeggiate nei boschi, falò in riva al mare, contatto con la natura “madre creatrice e rigenerante” e lunghi confronti ideologici, come unico mezzo per esplorare gli stati della coscienza e identificarci come “uomini e donne nuovi”.

La “liberazione sessuale” e la riappropriazione dell’identità femminile erano per noi “Donne Siciliane” un atto dovuto e catartico dal retaggio dell’antica cultura musulmana che, nonostante il passare dei secoli, era rimasta radicata negli atteggiamenti educativi del “Padre padrone”.

Il ‘68 fu per me un atto dovuto e diede nuovo impulso allo spirito inquieto ed errante con cui condividevo l’esistenza. Mi sentivo terribilmente attratta dal misticismo, dal trascendentale e dalle tecniche orientali di elevazione spirituale, ed ecco che immersa nella luce mistica e scoppiettante del fuoco, quella notte, presi coscienza del mio essere più profondo; scoprii di essere “essenza immortale”, entrando in contatto con “livelli di coscienza superiore”.

Si aprirono nuovi varchi e aneliti di vera spiritualità, potevo viaggiare dentro di me, percependo in modo lontano il mondo circostante, come qualcosa di estraneo e non facente parte della dimensione a cui avevo avuto accesso sino a quel momento. Le voci arrivavano come echi sottili, le immagini apparivano come in una dimensione sconosciuta. Scoprii, in quel viaggio, l’essenza della vita che palpita dentro ogni essere umano, al di là dello spazio e del tempo. In questa profondità sconosciuta, pace e dolcezza erano infinite; la percezione del corpo, quasi assente, come se lo spirito aleggiasse libero, simile al volo dei gabbiani.

Senza volerlo ero in meditazione profonda! Come un delfino emerge dal mare e salta fuori dall’acqua per riempire i polmoni di aria, riuscii a trovare la forza di emergere dagli abissi del mio “io profondo”. Mi sentivo arricchita da quell’esperienza e giunta in una spiaggia di consapevolezza fino allora sconosciuta.

Sapevo di aver raggiunto una nuova tappa nel gioco della vita e dalla profondità emersero, impetuosi, i bisogni che avevano condizionato tutta la mia esistenza sino a quel momento: le scelte, il rapporto con gli altri e, soprattutto, il rapporto con le radici della mia esistenza.

Bisogna saper masticare fiele se dopo si vuol godere il miele

Nonostante l’azione di plagio educativo a cui era stato sottoposto durante il percorso scolastico, esplose in mio padre la voglia di bere alla fontana della libertà e della giustizia. In evidente opposizione allo slogan “dell’obbedienza senza ma e senza perché”, che magnificava la prima e più importante virtù del Balilla; la sua personalità ribelle cominciò a riemergere dalle spirali del mostro tentacolare e, acquisendo una coscienza svincolata dal controllo mentale di cui era stato vittima, assumeva un’identità propria e singolare. Era il periodo in cui frequentava l’ultimo anno dell’Istituto Tecnico inferiore e, a soli 14 anni, iniziava a militare in gruppi di opposizione al regime.

Si accorse allora che intorno a lui si respirava l’aria di un “finto patriottismo” e che i discorsi del Duce, offuscando gli animi delle masse popolari attraverso il fumo dei benefici procurati dai numerosi interventi messi in atto dal regime, aumentavano la sensazione di evidente benessere per il popolo, defraudandolo dei diritti di libertà duramente conquistati negli anni dello “Stato liberale”.

Il messaggio fascista si svelò chiaro ai suoi occhi quando il Duce dichiarò alla stampa: «Il fascismo non conosce idoli, non adora feticci, è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà».

Duramente colpito da quelle parole che manifestavano chiaramente l’impossibilità di connubio fra libertà e regime, crollò definitivamente in lui il falso mito perversamente costruito nel suo cuore, e da quelle macerie prese vita la nuova figura, casualmente suggeritagli dal Duce: quella soffusa, affascinante e mitologica immagine di Ninfa… la “Dea Libertà”.

Come un fiume va verso il mare, uguale all’apparenza, ma formato da particelle diverse che, in un istante, mutano il loro corso, diventando passato, presente, futuro, e nel loro impetuoso scorrere, trascinano e si impregnano di elementi nuovi, ogni individuo porta con sé la sua storia, le sue emozioni e i suoi pensieri policromi e profondamente diversi. Lo sguardo attraversa l’immagine in modo dissimile, scoprendo lo stesso oggetto da varie sfaccettature che si rincorrono attraverso il tempo che trascorre.

La Sicilia, da sempre abituata alle dominazioni, aveva forgiato un’indole di sopito adattamento agli eventi, ma si era arricchita di un’identità propria, forgiata e scandita dai molteplici predatori che, come amanti infedeli, si erano accoppiati con lei per defraudarla. A volte la “rabbia” emergeva nei cuori ribelli, ma si riassopiva a vantaggio della vita, dell’amore e della famiglia, della fede e della speranza. Tuttavia l’antica sete di libertà e di indipendenza, continuava a bruciare, e accanto alle identità sopite vivevano, in connubio latente, quelle dei dissidenti, dei separatisti, dei socialisti e dei comunisti. Ma il fiume si alimentava dalla stessa fonte e in tutta l’Italia esplose il bisogno di libertà dall’oppressione fascista.

Mio padre arrivò quella mattina a scuola con un po’ di anticipo. Svogliatamente trascinava la cartella: si sentiva inquieto e disorientato, disprezzava quella forma di indottrinamento coercitivo, e l’orario delle lezioni che prevedeva alla prima ora “Storia e cultura fascista”. Ne avrebbe fatto volentieri a meno ma, per fortuna, nelle ore successive era prevista matematica e meccanica, questo lo indusse a cacciare via l’idea di un’eventuale assenza ingiustificata. Rimuginando su quei pensieri, arrivò davanti all’Istituto Tecnico Industriale e non poté fare a meno di notare lo slogan scritto a caratteri cubitali sul muro fronteggiante l’edificio: “Siamo stati costretti a essere italiani, ma siamo profondamente siciliani”.

Non era facile in quel periodo riuscire a imbrattare i muri e qualsiasi azione indisciplinata veniva punita severamente dal regime; eppure quel gesto così ardito attirò la sua attenzione. Quale messaggio voleva trasmettere l’ignoto temerario?

Quella frase cominciò a frullargli in testa sino a sera, alimentando in lui curiosità e voglia di sapere. Cominciò quindi una frenetica attività di ricerca personale che lo vide coinvolto nella nuova dottrina separatista, di cui diventò, negli anni, ardente sostenitore. Scoprì così i risvolti più profondi della sua identità e le radici delle sofferenze della sua terra.

La Sicilia ti rapisce il cuore, ti smembra, ti ferisce e t’innamora. Vorresti curarne le ferite, guarire il cancro che l’avvilisce, portarle fiori, canzoni e storie. Sarà l’odore delle zagare e del mare, la luce intensa che soffonde i colori, l’olivastro verde delle sue campagne e le spine aguzze delle pale dei fichi d’India; ma… quando, passando lo stretto sul traghetto, ti riavvicini e ritorni, sai che non vorresti mai più separarti da Lei.

Come affetto da una sete insaziabile, Rosario si procurò, nascostamente e con angoscia, gli scritti clandestini dei separatisti e divorandoli di notte, alla luce fioca della candela, ne sposò la causa e le idee che consideravano il fascismo la “malattia del Nord”, riconoscendo una netta estraneità della Sicilia all’imposta dottrina del regime.

Intanto, la Storia faceva il suo corso, il regime fascista aveva già raggiunto un punto di non ritorno dopo l’alleanza con la Germania nazista, l’introduzione, in Italia, delle leggi razziali e tutto ciò che vorremmo non fosse mai accaduto: le macchinazioni, gli inganni, i complotti, gli intrighi, le manipolazioni studiate a tavolino che erano considerate necessarie a raggiungere equilibri e interessi delle potenze mondiali. In contrapposto: la vita era una cosa secondaria, la sofferenza un accessorio utile, la morte una necessità, i sentimenti e le speranze del popolo una futilità.

In quei tempi, i compleanni si festeggiavano in modo semplice: Maria aveva preparato a pignolata co’ meli e così aveva voluto dare a suo figlio un augurio di ricchezza e di avvenire prospero al compimento del suo quindicesimo anno di età. Era il 9 luglio del 1943 e, nonostante un’improvvisa e violenta bufera sconvolgesse le menti e i cuori come funesto presagio, Rosario andò a letto soddisfatto per la dolcezza che la sua mamma riusciva a creare intorno alla sua vita, sempre pronta a regalare amore con la dedizione delle donne antiche. Ma quella notte serena fu per lui l’ultima di numerose altri notti insonni!

Quella notte le forze alleate sbarcarono in Sicilia, nelle spiagge fra Licata e Siracusa, con un’operazione militare imponente e grande numero di militari, aerei, navi da guerra, portaerei e unità di trasporto… La speranza che l’eterea Dea Libertà prendesse forma e divenisse realtà palpitante e amabile si fece sempre più strada nei cuori che battevano all’unisono fra paura e attesa.

La realtà fu ben diversa: mio padre se ne rese conto di lì a poco, quando il 20 luglio iniziarono i bombardamenti e gli scontri degli alleati contro le postazioni italo-tedesche nella città di Messina. Certamente quei mesi di assedio non furono un bel regalo e restarono nei suoi ricordi come i più duri e terrificanti di tutta la sua esistenza.

Messina per la sua posizione geografica era uno degli obiettivi principali delle forze aeree alleate e fu la più bombardata. Subì attacchi navali e aerei e appariva come una città fantasma: gli edifici, che dopo il violento terremoto del 1908 erano stati costruiti in modalità antisismica, non subivano crolli nei muri esterni, ma cedevano miseramente all’interno seppellendo uomini e cose.

Molti degli abitanti sfollarono nei villaggi e paesi limitrofi e i messinesi rimasti nella desolazione, fra le macerie, spalavano i detriti dalle strade, o si aggiravano come spettri pieni di terrore nei pressi dei ricoveri antiaerei. Anziani e bambini facevano la fila per una razione di pane. Fame, paura, miseria e morte erano la testimonianza dell’arrivo delle forze alleate.

Rosario apprese tutto questo dagli sfollati che evacuarono verso Venetico e Roccavaldina e che raccontavano il terrore vissuto in quei giorni di devastazione. Solamente la mattina del 17 agosto tutto questo finì e con esso l’incubo di quei giorni. I fanti della “terza divisione americana” fecero ingresso nella città distrutta e abbandonata.

Nei suoi racconti, mio padre, non parlò mai di “festosa accoglienza”, come ci fanno intendere oggi i libri di scuola, ma descriveva scene di desolazione: una città abitata da ombre tristi che, con il terrore negli occhi, uscivano allo scoperto solo quando i soldati americani distribuivano le razioni di cibo che avrebbero permesso la sopravvivenza ancora per qualche giorno. Poi, mi guardava con gli occhi arrossati, dove le lacrime sostavano in una lucentezza irreale e non riuscivano a sgorgare.

Ritornare a quei ricordi causava in lui una sofferenza che avrebbe preferito dimenticare: le sirene che preannunciavano i bombardamenti, il ritrovarsi in rifuggi di fortuna insieme ai tanti compagni di sventura; volti muti, a volte sconosciuti, ma tutti con lo stesso sguardo affamato di pace e di serena normalità; il dolore, provocato da una scheggia di bomba che lo aveva raggiunto improvvisamente al ginocchio, lasciandolo in terra privo di sensi dopo la deflagrazione.

La fame e la pietà per tutto ciò che lo circondava erano rimasti i suoi unici punti di riferimento e, intorno a lui, percepiva solo sguardi che sembravano chiedere perdono a un Dio assente. I suoi ideali crollarono allora in modo devastante e i sogni si annientarono. Dimenticò gli ideali separatisti e tutto ciò che aveva alimentato la sua fantasia sembrò assumere l’aspetto di un effimero e lontano retaggio del passato… Quella dura esperienza lo riportò al senso della vita e della morte e si arrese.

La storia tuttavia continuò il suo percorso, intrecciandosi strettamente con il destino del popolo siciliano e il nuovo assetto dell’Italia.

Solo dopo tanti anni furono chiari i complotti politici, gli accordi dei servizi segreti americani con i separatisti e con il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia e le vergognose trame tessute con i baroni latifondisti, con la mafia siciliana e con i boss di New York nella fase di pianificazione precedente lo sbarco. Così, avevano preparato la carne da macello e il popolo diffidente al cambiamento, in modo che gli alleati potessero essere accolti non come invasori, ma come liberatori.

Uomini di grande prestigio, intrisi di valore e speranza, che avevano lottato per la causa dell’indipendenza siciliana e, che rischiando la vita, avevano mantenuto negli anni precedenti stretti contatti con i servizi segreti americani e inglesi, erano stati trattati alla stessa stregua di vili malfattori e, traditi, erano rimasti soffocati dal sangue della loro terra.

Mio padre, ormai vecchio, accorato e con la voce tremula, recitava a memoria alcuni spezzoni dei discorsi di Andrea Finocchiaro Aprile o stralci degli scritti di Canepa e concludeva sempre con la solita frase: «Solo poveri illusi… che, come me, speravano nell’indipendenza della Sicilia».

Epilogo

Guardo i solchi sul mio viso, segni indelebili delle strade percorse; mappatura di sogni e speranze, di vite parallele che si uniscono per separarsi definitivamente. Cicatrici incancellabili che finisci per amare e accarezzare come un tutt’uno che ti appartiene.

Lungo la mia esistenza, fatta di catastrofiche cadute, avevo camminato sempre sull’orlo di un baratro che, inquietante, appariva bloccando il cammino. Ma dal mondo invisibile una forte presenza carica di pace e di amore mi avvolgeva e sopiva il mio spirito inquieto. Poi scoprii l’essenza di Agape come fulcro radiante che cominciò la sua opera ignota, sconvolgendo i disegni dell’io. Con delicatezza esso si fece spazio nell’anima, iniziando la sua alchimia per trasformare finemente il piombo in oro.

In quell’amore straripante che ricolma e guarisce ferite e tormenti, l’anima trovava quiete sino a un nuovo incontro. Lui mi legò a sé sin dai primi respiri, palpitava in me e, in quest’intima fusione, trovai sempre la forza di non precipitare nel baratro. Poi, all’improvviso mi ritrovai sola a combattere i miei demoni e nell’afflizione lo cercai, perdendomi nel mare tenebroso.

Quell’esperienza, mettendo a nudo il potere del male, mi aiutò a riscoprire con forza nuova la tenerezza di quel Dio che tutto può. In Lui trovai appagamento e quiete, subii nuove sconfitte, ma vinsi le battaglie della vita ed ebbi la forza di perdermi e ritrovarmi.

Ripercorsi le strade dell’anima. Di fronte a un padre stanco che, con occhi sperduti, attendeva la morte come unica spiaggia di sereno abbandono. Inconsolabile prigioniero di una vita che non gli apparteneva trascinando il suo vivere in un tormentato declino, dopo la gloria dell’ascesa.

Stringendo le mani di quella madre tiranna, quando la sua mente, pietosamente smarrita, vagava fra allucinazioni e profonda avversione, ma in un istante di lucida consapevolezza sussurrò un  “grazie”. Poi, arrivata all’ultima meta, si perdette nei suoi incubi sino alla morte.

Quel sentimento di gratitudine, colto in un mormorio, ebbe forza catartica e fece scivolare via il macigno che mi aveva indurito il cuore e la parola “madre” prese lo spazio che le spettava di diritto.

Le antiche immagini persero i contorni dissolvendosi in tenerezza di fronte ai corpi ormai stanchi e fragili a cui è negata ogni possibilità di riscatto. Allora, una mano che tocca l’altra mano non è solo un gesto, ma è un’anima che tocca un’altra anima. È la tenerezza che sostiene la debolezza, è il miracolo del perdonarsi ed essere perdonati, in un abbandono muto e reciproco.

Quel fiero albero d’ulivo continua a vivere e con vigore affonda le radici nella terra riarsa; rigoglioso accoglie fra le fronde la vita e i frutti di buona annata per continuare a produrre l’oro di Sicilia, fluido denso e profumato.

Quel buon profumo lo sento inebriante spargersi nell’aria. Lo riconosco nello sguardo di Alessandra che da fiera amazzone si è trasformata in tenera madre e sposa; mentre ascolto la musica di Giosuè vibrante di briosa passionalità o di infiniti voli dell’anima; o quando Emanuela parla del suo lavoro in ospedale con l’orgoglio di chi ha messo a disposizione conoscenze e duri anni di studio per curare la vita e le ferite dell’anima. Allora, come proiettata nella nello spazio, la vedo prodigarsi con l’attenzione e la tenerezza di un “buon medico” fra le sofferenze di chi sa di viaggiare tristemente verso una strada senza ritorno o fra lo sguardo riconoscente di chi spera in una guarigione inaspettata; mentre in me riaffiora l’immagine di una mano che sfiora un’altra mano e della tenerezza che sostiene la debolezza.

Così, immersa nei silenzi, so di non essere sola, ho per compagna me stessa e chi fa ormai parte di me in modo indissolubile e in quegli spazi preparo sempre l’incontro con qualcuno.

La mia anima è inquieta, subisco le metamorfosi del tempo e come lui mi adeguo al ritmo triste delle nuvole che percorrono le vie del cielo, visibilmente senza meta precisa, come per allontanarsi verso l’infinito… Ma il mio cuore scalpita ancora, forse un giorno invecchierò e non sentirò più la tempesta esplodermi dentro, le passioni lasceranno la loro preda e mi renderanno libera. Non sarò più un groviglio di domande e finalmente ogni perché avrà la sua risposta.

La vecchiaia assumerà allora il senso della calma e della libertà, quando tutto intorno continuerà ancora a girare freneticamente.

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