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La vie, l’excès, l’autobiographie / Sous la direction de Beatrice Barbalato / Vol.20 N.1 2022

La vita, l’eccesso, l’autobiografia

Beatrice Barbalato

magma@analisiqualitativa.com

Presidente dell’Osservatorio scientifico della memoria autobiografica scritta, orale, iconografica (Associazione culturale Mediapolis Europa); dirige la rivista Mnemosyne, o la costruzione del senso, Presses Universitaires de Louvain.

 

Abstract

Gli articoli pubblicati in questo numero di M@gm@ offrono alcune delle prospettive possibili sul tema dell’eccesso, mettendo in luce come diversi pensatori conducano una lotta serrata contro ogni normalizzazione, si misurino con il concetto di limite, e rendano pubblica questa sfida. Parlarne, scriverne significa per essi mostrare la capacità generativa, a più uscite dell’eccedere.

 

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Heinrich Aldegrever (1502–1555 Paderborn ca., 1561 Soest), Le colonne d'Ercole,
da Le fatiche d'Ercole, 1550, The Metropolitan Museum of Art, New York.

La parola eccedere, ‘andare al di là’ secondo il suo significato originario, ha assunto nel tempo l’accezione peggiorativa del superare i limiti consentiti. Eppure la locuzione excessus e vita, come ricorda Jean Starobinski (2005: 88), è neutrale, indica nella Bibbia l’uscire dalla vita. In particolare la Scolastica medioevale con il motto In medio stat virtus, addomesticava la concezione di Aristotele, eleggendola ad ago della bilancia dell’etica.

 

L’Etica Nicomachea, pubblicazione postuma di Aristotele, pone al centro del ragionamento gli endoxa, gli orientamenti, i pareri sia della gente comune che dei sapienti. Aristotele ritiene che le opinioni correnti siano la base indispensabile per i legami sociali, senza per forza condividerle. Come si concepisce l’etica? «Essa ha a che fare con passioni ed azioni, ed in queste ci sono un eccesso, un difetto e il mezzo. [...] la virtù è una specie di medietà, in quanto appunto tende costantemente al mezzo. [...] E per queste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è propria della virtù» (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6).

 

Determinare, circoscrivere cosa sia eccessivo ha molto impegnato il pensiero greco antico. Nel voler a tutti i costi costruire una struttura sociale dove ognuno potesse esercitare totalmente dei diritti (o, per meglio dire, dove il gruppo ristretto dei cittadini e solo esso potesse esercitarvi pieni diritti) il tema della misura e della dismisura diventa fondativo. «Bisogna spegnere la dismisura più ancora che un incendio» (Eraclito 1984: 187. Frammento 48 (43). citato da Diogene Laerte, Vite dei filosofi, IX, 2). Cosa vuol dire? Che l’uomo non riesce a dominare gli eccessi a differenza della natura che sa delimitare un incendio e farlo esaurire . Questo frammento di Eraclito (VI-V secolo a.C.) precede la celebre riflessione del Coro nell’Antigone di Sofocle (442 a.C.): «Ci sono molte cose temibili nel mondo, ma niente è più temibile dell’uomo» (vv. 332-334).

 

Vari semantismi e risemantizzazioni dei lemmi del greco antico, dovuti alle svariate traduzioni e alle esegesi, ne hanno stratificato il senso. Così ο δεινός è stato interpretato in vari modi: meraviglioso, orribile o temibile. In definitiva, indica comunque ciò che va oltre (Bariler É: 2010). Un altro frammento recita: «Il sole non oltrepasserà i suoi limiti» (framm. 49 (94). Eraclito 1984: 192). Il sole ha un’orbita definita, non la eccederà.

 

La natura ha costituito per il pensiero antico un faro, un orientamento sicuro, con le sue regole ritenute immutabili. Il De rerum natura, poema latino di Lucrezio (I sec. a.C.), spiega come la natura sia regolata da leggi proprie. Una convinzione che sarà ribaltata molti secoli più tardi: la natura sarà vista, nel periodo romantico, come sconfinata, inquietante, sorprendente, minacciosa. Si pensi al movimento protoromantico dello Sturm und Drang (tempesta e impeto), ai dipinti di William Turner, e di Caspar David Friedrich (entrambi vissuti fra l’XVIII e il XIX sec).

 

Scrive Starobinski a proposito dell’insistenza nella civiltà greca ad imporre la ‘misura’: «Il y a une secrète démesure dans ce qu’il paraît être le triomphe de la mesure: la volonté de délimiter, de géométriser, de fixer des relations stables ne va pas sans une violence supplémentaire par rapport à l’expérience naturelle du regard. L’espace de la mesure géométrique est le produit d’un effort vigilant qui révise compas à la main, les préjugés affectifs auxquels l’espace vivant doit ses ‘déformations’. Il est difficile de ne pas y reconnaitre une outrance de second degrés: celle qui consiste à chercher l’équilibre en reniant l’outrance spontanée du désir et de l’inquiétude (Starobinski J. 1961: 12. Il corsivo è nel testo).

 

Misura e dismisura sono, è ovvio, due concetti arbitrari, legati alla weltanschauung della civiltà che li definisce. Nella Grecia classica la volontà di rendere sovrani equilibrio e armonia è stata onnipresente. Apollo vincerà su Dioniso, come illustra Nietzsche ne La nascita della tragedia (1996 [1872]). Se questo ha costituito un dettato morale per secoli, lo sfidare i limiti, il superare le frontiere, l’eccedere, oggi in special modo, vengono considerati dei punti di riferimento imprescindibili per la concezione stessa della libertà.

 

Diversi saggi in questo numero di M@gm@ rinviano a L’Homme révolté (1951) di Albert Camus, l’eterno Sisifo ostinato a ripetere lo stesso gesto, malgrado nel portare sulla cima di un monte un masso questo ogni volta precipiti per volere di Zeus. Per Camus il segno distintivo dell’uomo è la rivolta caparbia, l’andare al di là delle regole imposte. Scrive Françoise Hiraux nel suo saggio: ««Par sa filiation latine, l’ ‘excès’ a partie liée avec le fait de ‘sortir’, de ‘franchir’, de ‘déborder’, de surmonter, autant d’actions et de conduites dont le sens, à son tour, s’éclaire de l’éventail des termes attenants à la limite: ‘frontière’, ‘loi’ et ‘tradition’, monde familier du ‘dedans’ et étendues inconnues du dehors, ‘enfermement’ et ‘passage’».

 

E tuttavia, dall’antichità fino alla Scolastica e oltre, ha prevalso il significato di eccesso come attitudine pericolosa, minaccia per l’ordine precostituito. Questo giudizio pesa su molti personaggi dell’Inferno di Dante, e su due grandi miti della cultura occidentale moderna: Don Giovanni e Faust. Tuttavia proprio l’imprinting di questi personaggi ci immerge in un groviglio di sentimenti contraddittori: di biasimo e contemporaneamente di ammirazione per chi infrange i limiti, per chi ha il coraggio di fronteggiare degli assetti etico-sociali blindati.

 

Così Dante che condanna la libido sciendi di Ulisse, allo stesso tempo ne fa un simbolo della ricerca della conoscenza. Se Ulisse si perde per aver oltrepassato il confine infrangibile delle Colonne d’Ercole, lo fa per la sete di sapere: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza», Inferno XXVI, vv.118-120. Mutatis mutandis è in gioco la dimensione umana come capacità di sfidare, di costituirsi al di fuori di un dettato che viene dall’alto. Dante non poteva apertamente parteggiare per Ulisse, ma i suoi versi sono un invito ad intraprendere il viaggio della conoscenza, costi quel che costi. Un significato implicito già nell’Odissea. Come sottolinea Francoise Hiraux, finito il tempo del mito, l’Odissea raffigura pienamente l’avventura umana, tessuta da parte a parte dall’eccedere. Ciò che accade non è più il risultato di un capriccio di un Dio, di una deessa, ma la sfida dell’uomo che ormai solo, senza protezioni, affronta la dimensione tragica della vita.

 

In queste declinazioni del concetto di eccesso vi sono implicati i temi della superbia e del destino. Superbo dal latino super, ergersi al di sopra, altero e fiero. Dante condanna fra gli eretici Farinata degli Uberti, ghibellino, convinto epicureo (Inferno, canto X, vv. 31-36). Dice Virgilio a Dante: «Vedi là Farinata che s’è dritto:/ da la cintola in sù tutto ‘l vedrai»./ Io avea già il mio viso nel suo fitto;/ ed el s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto». L’atteggiamento altezzoso, di sfida è messo in rilievo da Dante come segno di superbia. Anche qui come per Ulisse, Dante in apparenza deplora l’operato di Farinata, ma lascia trapelare una sua grande vicinanza con questa personalità orgogliosa, che si è opposta ad una virtù mediana.

 

Insomma Dante, pur fedele alla morale cattolica, cade ripetutamente sous charme dello spirito di libertà e d’indipendenza di temperamenti capaci di farsi carico fino in fondo delle proprie scelte. Ed inoltre, più in generale, la superbia intesa in senso laico può essere vista positivamente, è l’antica hybris. Nell’Enciclopedia Treccani l’hybris è cosi definita: «Nell’antica Grecia personificazione della rivolta contro l’ordine stabilito dagli dei o, più semplicemente, dell’‘orgogliosa coscienza di sé’» (il virgolettato è mio). L’attitudine alla superbia (l’essere al di sopra) chiama in causa il tema del destino. Posturarsi con distacco verso quanto accade significa concepire la propria esistenza come autonoma da quanto le circostanze o una volontà trascendente possano imporre. Come, per l’appunto, Ulisse fa contrastando il volere degli Dei.

 

I due grandi miti della modernità Faust e Don Giovanni sono condannati per due eccessi: la libido sciendi, e la libido sentiendi. All’opposto della visione opprimente medioevale di un trascendente che pone delle barriere al desiderio di conoscere, a partire dal XV secolo vengono enfatizzati sia il mito di Faust, che sfida il soprannaturale allo scopo di possedere la conoscenza, che il mito di Don Giovanni, che vuole godere a dismisura, superando quel dettato etico che intendeva castigare il corpo. «Le mythe de Don Juan s’est constitué à un moment de l’histoire européenne où le motif de l’inconstance du cœur humain et celui de ses concupiscences – sentir, savoir, dominer (‘libido sentienti’, ‘libido sciendi’, ‘libido dominandi’) – ont beaucoup occupé les moralistes» (Starobinski J. 2005: 88).

 

Quanto il tema dell’eccedere fosse al centro dell’inaugurazione dell’epoca moderna lo testimonia anche l’attenzione che Shakespeare presta a questo tema. Nella commedia Misura per dismisura (scritta nel 1603, pubbl. nel 1623) affronta il tema delle Leggi e dell’importanza, prima di imporle, di fare proprio il senso del limite. Dice il Duca: «Colui che vuole impugnare la spada del cielo dovrebbe essere non meno santo che severo; conoscere in se stesso un modello, una grazia che lo faccia saldo se la virtù se ne vada non retribuendo agli altri più o meno di quanto risulti al peso dei propri mancamenti», (Shakespeare 1964: 853- Atto III, scena II). Insomma le Leggi non sono un datum, e soprattutto non si legifera se non dopo aver interiorizzato in sé stessi i suoi principi. La commedia di Shakespeare mette in scena la dialettica interna ad una concezione individualistica e negoziale. L’uomo e solo l’uomo deve ponderare e gestire la misura e la dismisura, confrontarsi con sé e con gli altri, e dedurne delle regole condivisibili.

 

Con il XIX secolo, l’individualismo si afferma in tutta la sua ampiezza. Il soggetto si chiede raccontandosi: cosa mi è consentito, cosa io stesso posso consentirmi in linea col mio personale credo? L’epoca moderna e contemporanea rivisita dunque un tema antico, ritenuto acquisito e condiviso, e finisce col rifiutare l’aurea mediocritas (Orazio, Odi: 2, 10, 5). La normalità è aborrita, è rigettato l’ottimismo gastrico come definisce Anton Čekov la bonarietà (1996: 289). In maniera feroce Kovrìn il protagonista del racconto «Il monaco nero», dice «gli zietti da ‘vaudevilles’ [...] mi ripugnano» (ibidem), un giudizio che ricorda molto da vicino il disprezzo di Nietzsche per gli homines optimi (Nietzsche F. 1955 [1888]: 136).

 

I saggi pubblicati in questo numero di M@gm@ illustrano con ricchezza di argomentazioni come nella nostra contemporaneità l’eccesso venga svincolato dalla visione di una morale trascendente, costituendo un timone delle scelte libere che ognuno è in grado di operare. Lo stile è l’uomo: non è importante ciò che dice, ma come lo dice. Anche l’uomo di Camus si distingue per la sua postura. La retorica non è più al servizio di idee, di valori considerati precedentemente fondativi e che governavano la scrittura, ma è la scrittura che governa la retorica della misura e della dismisura. L’eccesso, insomma, è anche un effetto del linguaggio. Il saggio di Adolphe Nysenholc è, a questo proposito, esemplare: «Avec Chaplin, tout dépasse la mesure. De l’hyperbole à la litote, il incarne les deux pôles de l’excès».

 

La parola, il linguaggio, l’habitus assunto come espressione di sé, sostituiscono nelle loro peculiarità i sistemi di valore ad ampio raggio, con pretese universalizzanti, in precedenza branditi come armi. È la concezione dell’eccesso che viene enunciata da Nietzsche col concetto di superuomo, da Camus, da Bataille, e fatta assurgere a cifra distintiva del soggetto. Guy Debord ne La société du spectacle (1967) analizza come i mass media rendano teatrale ogni gesto dell’uomo, annientando la sua singolarità. All’individuo resta la sola possibilità di estraniarsi dai sistemi corazzati della società dei consumi. Permanentemente borderline, Debord si suiciderà nel 1994.

 

Eccesso come spirito di libertà, come affrancamento da qualsiasi camicia di forza ideologica che imprigioni l’individuo. La notion de dépense di Georges Bataille (1933) analizza come la società imponga la produttività in tutte le sue gamme. La società si riconosce il diritto di acquisire, di conservare o di consumare razionalmente, ma esclude il principio del dispendio improduttivo (Bataille G. 1933:25). La società del consumo rifiuta il principio della perdita, cioè del dispendio incondizionato (Ibid.: 26-27).

 

Il pensiero occidentale moderno inscrivendosi maggioritariamente nell’ideologia capitalistica, non apprezza che i beni vengano dilapidati, e soprattutto considera la persona come una moneta vivente (Klossowski P. 1997). Mentre secondo Bataille, Camus, e altri pensatori, che vengono chiamati in causa in diversi articoli di questo numero di M@gm@, l’agire in sé non deve essere al servizio di una ricompensa. Sono argomenti che Bataille riprende in diversi scritti (Sur Nietzsche, 1945, ad es.). Concetti come utile/inutile, gratuito/interessato, arbitrario/imposto, ne sono implicati.

 

Eccedere è una forma di rivolta? Secondo Camus la rivolta incarna la stessa identità dell’individuo, è il suo stesso cogito (Camus A. 1951). L’uomo in rivolta non riconosce delle imposizioni: non è un rivoluzionario e non concepisce sistemi (intendendo per rivoluzione un agire strategico e prepensato volto a conseguire un risultato che ribalti lo status quo). Il rivoltoso si batte contro ogni barriera e gabbia ideologica. Camus evoca le figure di Caino, di Sade, di Saint-Just, di Lautréamont, di Rimbaud, di Bakunin, di Nietzsche.

 

«Être comme excès», scrivono Rocco Ronchi e Thomas Berni-Canani «ce qui m’ouvre l’immensité dans laquelle je me perds, c’est l’être en tant qu’excès, un être désubstantialisé, palpitant, rythmique – un être qui a en lui-même une transcendance constitutive, un être incontenable dans la forme de l’identité et qui excède l’espace révélatif du jugement apophantique. L’être n’est pas immobile, sa manière d’être – son essence au sens verbal – réside justement dans le fait de se transcender, de tournoyer hors de soi (j’emprunte cette image à Ernst Bloch), de se perdre et de se mettre en jeu» (Ronchi R.; Berni-Canani Th. 2000: 8). Mettersi in gioco, rischiare, eccedere è dunque assunto come tratto distintivo dell’uomo. Il ‘troppo’ è necessario? E quando è ‘troppo’? Scrive nel suo articolo Françoise Hiraux.

 

Gli articoli pubblicati in questo numero di M@gm@ offrono alcune delle prospettive possibili sul tema dell’eccesso, mettendo in luce come diversi pensatori conducano una lotta serrata contro ogni normalizzazione, si misurino con il concetto di limite, e rendano pubblica questa sfida. Parlarne, scriverne significa per essi mostrare la capacità generativa, a più uscite dell’eccedere.

 

Esplorare i limiti di sé stesso: Chaplin

 

Adolphe Nysenholc analizza la straordinaria iperautobiografia di Chaplin/Charlot, che si cimenta con l’eccesso, praticando costantemente gli opposti e restituendo così un’idea della natura umana come una coincidentia oppositorum. Alla maniera di un funambulo trova il suo baricentro stando sui limiti. Nysenholc mette a fuoco la varietà di strategie recitative in Chaplin molto sofisticate.

 

«’Borderline’, Chaplin est continuellement aux limites de lui-même, soi ‘et’ autre. Quasi bipolaire, il est tendu dans l’arc de contradictions les plus diverses. ‘Charlot’ incarne l’Anglais moyen de son pays natal (Chaplin, 1918) mais Chaplin se dit Citoyen du Monde; il ne parle pas et est «entendu» dans le monde entier; pauvre hère, il finit riche d’une mine d’or (‘The Gold Rush’); il a su se rendre visible à tous et est amoureux d’une aveugle qui ne le reconnaît même pas d’emblée quand elle recouvre la vue (‘City Lights’); en ‘vagabond’, il représente un marginal assez illettré, mais, artiste de génie, il se trouve au cœur de la culture de son temps».

 

Attraverso l’iperbole e la litote, Chaplin incarna i due poli opposti dell’eccesso.

 

Limite, passaggio, desiderio, curiosità

 

«Devant la mer inlassable. La limite et l’excès en nous», è il titolo del saggio di Françoise Hiraux. Eccesso e limite sono un binomio dialettico che si organizza a misura degli eventi. Con Omero possiamo comprendere quanto l’eccesso sia la cifra stessa degli eroi dei due grandi poemi l’Iliade e l’Odissea.

 

Françoise Hiraux scrive: «C’est le couple de l’excès et de la limite que nous explorerons ici. Un couple qu’on ne peut défaire, mais dont la compréhension gagne beaucoup à analyser chacun des deux termes. C’est pourquoi, nous nous attarderons auprès de réalités telles que la perte, la nostalgie ou encore le destin, situées du côté de la façon de recevoir la limite, mais aussi, sur l’autre versant, auprès de l’ouverture: le passage, le courage, la curiosité et le désir, l’amour avant tout. Nous partirons du récit des épreuves endurées par Ulysse, parce qu’il m’a paru, spontanément (et naïvement), que la destinée d’un guerrier était la plus à même de nous approcher de l’excès».

 

Un guerriero, colui che per antonomasia si batte. Molti guerrieri in letteratura permettono di misurare il costo dell’eccesso, le sue conseguenze, per destino e per scelta.

 

Praticare l’anticlimax versus l’eccesso

 

Aleksandra Janczarska tratta dell’autobiografia di Marisa Ombra (1925-2019): «Marisa Ombra: l’esperienza resistenziale come punto di partenza per la maturazione sociale e politica in prospettiva autobiografica». Scrive M. Ombra: «Per la prima volta prendevo decisioni importanti, assumevo responsabilità personali impensate fino a quel momento, e me le assumevo da sola, senza il sostegno e il consiglio di famigliari. Improvvisamente ero adulta e responsabile di me stessa. Questo sentimento si accompagnava a una sensazione di straordinaria libertà» (La bella politica, “Noi donne”, il femminismo, 2009: 29).

 

Appare chiaro – scrive Aleksandra Janczarska – il momento di rottura con le sicurezze dell’ambito famigliare ed infantile, con cui ogni persona combatte, in fondo, nel proprio periodo di crescita e durante l’adolescenza. Soprattutto Marisa Ombra decanta ogni retorica eroica riconducendo ad atti di consuetudine quotidiana ogni azione vissuta nella Resistenza, anche la più estrema. Insomma Marisa Ombra adotta una pratica scritturale che minimizza l’eccesso, attraverso un anticlimax.

 

La forza eccessiva della tradizione

 

Marcela López Arellano in «Eduardo J. Correa (1874-1964). Una autobiografía entre la soberbia y las convicciones católicas» presenta il racconto di sé dello scrittore e poeta Eduardo J. Correa nato ad Aguascalientes, Messico. Autobiografia scritta a quasi novant’anni, denominata dall’autore intima.

 

Cattolico convinto, combatte per affermare le sue idee in un momento in cui il pensiero progressista ha pieno dominio in Messico. Si può essere rivoluzionari riferendosi ad un ideale conservatore, legato alle tradizioni, codificato? L’autore rivendica lo statuto di difensore di un pensiero non in auge ma degno di essere preso in considerazione in quanto attivo e generativo di idee fortemente positive all’interno della società, e che tocca, come il titolo dell’autobiografia recita, la sfera dell’intimo.

 

L’opera di Correa rinvia a latere, è una mia osservazione, al libro Les Antimodernes (2005). Un testo che permette di svincolare i giudizi sul pensiero conservatore da preconcetti. Sono definiti antimoderni da Antoine Compagnon quei pensatori su cui ha pesato una censura del pensiero progressista, perché classificati a priori incapaci di innovare, e dunque considerati tout court poco atti storicamente ad indicare sentieri aperti al futuro.

 

Costruire la propria individualità opponendosi agli endoxa

 

L’articolo di Elena Ravera verte su «Storia di ‘colei che nessuno vuole’: l’autobiografia tra eccesso e ricerca di sé ne Le baobab fou di Ken Bugul». Affrontare la società, sperando di poter esservi integrata è il sogno di Bugul, nostra contemporanea. La testimonianza del 1982 percorre la sua ricerca di identità di genere. Un cammino volontario che fa fronte ai pregiudizi, questi sì estremi, che la società, anche quella evoluta, oppone. Gli eccessi di Ken Bugul sono proprio in risposta alla paradossale delusione di trovarsi, una volta emigrata al nord, di fronte ad una società misogena e razzista, dove la sua ansia di normalizzazione non sarà mai soddisfatta. A questa società Bugul si opporrà non solo attraverso un comportamento eccessivo, assumendo droga e prostituendosi, ma come scrittrice adottando un linguaggio iperbolico che, deformando la realtà, tende ad esasperarne i contorni.

 

Eccedere: la dismisura dello scrivere per quantità e diversificazione dei generi praticati

 

Monica Salvetti nell’articolo «L’autobiografia di Clémentine De Como: scrittura femminile ‘eccessiva’ o condanna all’emancipazione femminile?», mette in luce due aspetti dell’eccesso nella De Como (1803-1871): la dismisura della sua produzione autobiografica, per quantità e qualità dei suoi scritti. L’eccesso di registri impiegati (stile e lingue) nel raccontarsi, testimonia della volontà di dare forma ad un vissuto difficile e vario. E, fondamentalmente, l’eccesso è illustrato non solo come una pratica che intende superare i limiti di costume della società dominante, ma esprime il suo essere dirompente nel linguaggio come scardinatore di ovvietà.

 

Cherbuliez J. (1854: 401-402) condanna questi eccessi stilistici, senza valutare la portata innovativa di una simile scelta: «L’auteur de ce livre est, à ce qu’il paraît, une femme émancipée, et son émancipation va jusqu’à rejeter les règles de la grammaire».

 

Un giudizio che si commenta da solo!

 

Rivolta o rivoluzione?

 

Nell’articolo di Frédérica Zéphir emerge forte il tema della libertà per la libertà, del privilegiare la scelta della rivolta piuttosto che della rivoluzione, nel pensiero di Istrati (1884 -1935): «Panaït Istrati, un ‘batelier fou sur le fleuve de la passion’». Scrittore rumeno trasferitosi in Francia, è un comunista non indottrinato. Nutrire un sentimento di rivolta significa per Istrati non misurare i propri intenti e convincimenti con una visione anteriore e presupposta della realtà. Scrive F. Zéphir: «Dès lors, grâce à sa personnalité passionnée et rebelle qui lui a permis d’échapper à l’endoctrinement et à l’aveuglement du militantisme révolutionnaire, Istrati définit un modèle de révolte positive qui préfigure celui qu’Albert Camus proposera un quart de siècle plus tard dans la dernière partie de son essai ‘L’Homme révolté’».

 

«Je suis un révolté non pas parce que pauvre, mais parce que généreux» (Istrati 2006: 425, v. II).

Un’affermazione che apre porte e porte sul rapporto fra ideologia ed eccesso.

 

Il corpo come misura del limite

 

Nell’articolo «Marina Abramović: Attraversare i muri», Barbara Vinciguerra, analizza l’opera e l’operato di Marina Abramović, una delle artiste che hanno maggiormente marcato alcuni decenni di body art, un’arte per antonomasia ‘eccessiva’ perché mette in gioco il corpo, cioè il mezzo più immediato col quale comunichiamo col mondo e contenitore della nostra sensibilità e intelligenza. Quando si mette a rischio il corpo, salta il banco di ogni convenzione. Scrive Barbara Vinciguerra che la body art «abbatte la barriera tra artista e pubblico, il corpo diventa soggetto e oggetto dell’opera, come una tela su cui si possono compiere azioni rituali che sfiorano il misticismo, ha la funzione di rappresentare pulsioni e rivendicazioni ed è strumento privilegiato dagli artisti che creano azioni con un certo margine di improvvisazione. Questo tipo di pratiche eccedono di per sé dai canoni socialmente accettati ed arrivano come vedremo ad atti estremi, in cui viene messa in pericolo l’incolumità stessa dell’artista».

 

Tema inesauribile l’eccesso, soprattutto oggi, momento in cui si rigettano le convenzioni, le ideologie blindate, i dogmatismi. L’uomo è solo e cerca di comprendere come gestire la propria libertà, come regolarsi, come esporre o imporre il proprio punto di vista. Non è facile.

 

Ciò che questi saggi prospettano è l’idea che l’autobiografia sia un terreno privilegiato per dare alla luce le proprie convinzioni, assumendo grazie all’io che argomenta e struttura il discorso, la responsabilità del dire.

 

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