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  • Internati militari italiani
    Maria Immacolata Macioti (sous la direction de)

    M@gm@ vol.16 n.1 Janvier-Avril 2018





    IL VIOLINO DEL LAGER

    Gemma Manoni

    gemma.manoni@outlook.com
    Laureata in fisica, ha sempre operato nel settore spaziale sia nel comparto industriale, sia nelle agenzie: Nazionale (ASI-Agenzia Spaziale Italiana) ed Europea (ESA- European Space Agency). Attualmente in quiescenza, si dedica alla promozione di attività culturali e alla musica studiando canto e violino.


    Il violino di Luigi Manoni (Museo “Vite di IMI”)

    Sono figlia dell’IMI Luigi Manoni, soldato semplice catturato dai tedeschi dopo l’otto settembre  1943 e deportato in Germania nei lager nazisti; sottoposto a lavoro coatto sino alla fine della guerra. Mio padre Luigi (ma tutti lo hanno sempre chiamato Gigi), nato nell’aprile del 1919, era un ragazzo, militare poco più che ventenne, quando l’8 settembre 1943 si trovava a Merano nella caserma Cascino insieme a tutto il suo battaglione.

     

    All’annuncio dell’armistizio i soldati, dopo un primo momento di euforia, si rendono conto di essere completamente allo sbando, senza ordini, senza direttive e il 12 settembre arrivano i tedeschi, occupano la caserma, disarmano i militari e li portano alla stazione ferroviaria.

     

    Gigi, insieme agli altri, viene rinchiuso in un carro bestiame; quei carri bestiame usati dai nazisti per deportare i prigionieri dove sulla fiancata era scritta la capacità di carico (40 uomini o 8 cavalli); sono stipati come sardine, non si possono coricare, manca l’aria; i bisogni corporali, chi non ce la fa a trattenerli e ad aspettare le soste decise  dai tedeschi, è costretto a farli dentro il carro e l’aria diviene irrespirabile! Quattro giorni e quattro notti dura l’incubo del viaggio. Così Gigi  viene deportato nei lager nazisti.

     

    Il 16 settembre arriva al campo di concentramento di smistamento presso Allenstein ed inizia così la sua odissea di IMI.

     

    Ovviamente anche a lui viene chiesto di scegliere tra l’adesione a combattere nelle file del terzo Reich o l’internamento e il lavoro coatto, e anche lui rifiuta di continuare la guerra al fianco dei tedeschi. Ha solo 24 anni e la sua scelta è molto sofferta: a casa, nel piccolo paese sul cucuzzolo di un colle marchigiano, lo aspetta la mamma e, soprattutto, la sua innamorata Argene, mia futura madre.

     

    Diviene così uno “schiavo di Hitler”: lavora nei campi e nelle fattorie, nell’industria bellica, nella stiva delle navi nel porto di Amburgo a spalare carbone fin quasi a soffocare, nello sgombero delle macerie della città distrutta sotto i bombardamenti degli alleati, nei cimiteri a seppellire i morti in fosse comuni.

     

    Un supplizio quotidiano, aggravato dall’umiliazione, dalla fame terribile, dal freddo, dalle malattie, dalle percosse, dalla sporcizia e dai parassiti, dal terrore, dallo sfinimento del lavoro coatto, dalla mancanza di notizie da casa, dalla lenta distruzione della personalità per essere ridotto a semplice “stucke” “pezzo”. Una resistenza fisica e morale durata quasi due anni.

     

    Al ritorno dalla prigionia, al suo rientro in patria alla fine della guerra, mio padre ha affidato alla scrittura i suoi ricordi e le sue emozioni, forse confidando nel potere catartico della scrittura stessa. Riporto, nel seguito, alcuni stralci dalle memorie di prigionia di mio padre; la crudezza delle sue sventure e le emozioni che i suoi racconti, affidati alla scrittura, suscitano nel lettore sono davvero incredibili.

     


    Luigi Manoni internato

     Dalle memorie di mio padre [1].

     

    «Il giorno 29/11/43 venivo mandato in una grandissima fabbrica di carbone: il mio lavoro consisteva nel penetrare dal mattino fino a tarda sera sotto una stiva di nave e palare carbone gettandolo nelle paratie perché una grossa gru, che pescava nei vagoni circa tre tonnellate di carbone per volta, lasciava aprire la sua tenaglia nel mezzo della nave. Figuratevi che bel lavoro! Qui non si vedeva mai la luce del giorno e si mangiava tanta di quella polvere che uno mai potrà credere, e bisognava lavorare veloci poiché a volte si chiudeva il buco della stiva e non si respirava più. Qui vi si lavorava un centinaio di uomini (Italiani e Russi) sotto vigilanza di sgherri nazisti muniti di scudisci e di pistole; alla minima pausa picchiavano senza pietà borbottando a secondo di chi picchiavano, se era un russo dicevano “Stalin eh? Stalin eh?” se poi era un italiano “Badoglio eh? Badoglio eh?” e botte da orbi. Io facevo del mio meglio e mi sforzavo sino all’esaurimento fisico pur di non fare pausa, ma diverse volte non mi era possibile poiché il mangiare era poco, il dormire meno e il lavoro tanto, i pensieri della famiglia lontana, tutto ciò influiva  e allora? Mi abbandonavo e mi accasciavo a terra aspettando ciò che già sapevo: scudisciate senza pietà sino a togliermi la conoscenza dei sensi………».

     

    Dietro il filo spinato dei lager migliaia di giovani cresciuti nella cultura del fascismo (credere, ubbidire, combattere), maturano una viscerale repulsione verso ogni forma di dittatura e di privazione della libertà e riportano con sé al ritorno, i frutti di questa nuova coscienza democratica. E ci lasciano una eredità preziosa: i nostri padri e i nostri nonni ci hanno consegnato la Libertà.

     

    Ancora, dalle memorie di mio padre.

     

    «La fame era quella che maggiormente mi spaventava; la razione giornaliera era composta di 300 grammi di pane nero fatto di non si sa che cosa e di un litro di zuppa fatta soltanto di rape, carote e barbabietole. Sveglia al mattino ore 5; 2 ore di adunata all’aperto senza dar molto calcolo al tempo se buono o cattivo; e quante mattinate sotto la neve ci si intirizziva dal freddo; gli abiti tutti a brandelli e le scarpe tutte rotte; 2 volte per settimana poi (sempre nella mattinata) ci facevan fare ginnastica; ci si figuri senza nulla in corpo e con la grande debolezza che ginnastica usciva fuori: e allora il comandante del lager menava schiaffi e pugni a tutto andare; dalla mattina alla sera si aveva sempre una guardia vicino con un moschetto spianato e guai fare atti di ribellione, ci si avrebbe rimesso la vita senza remissione dei peccati. Tutto ciò era poco perché si potevano contare tutti i giorni due o tre allarmi aerei e allora si aggiungeva la grande, si la grande, paura dei bombardamenti. Questa vita durò sei mesi poi dovettero cambiarmi lavoro, le forze non mi reggevano più, ero diminuito 15 chili, sembravo la morte in vacanza».

     

    Negli anni ‘60 il mare di Senigallia, cittadina marchigiana vicina al paese di provenienza di mio padre, era una meta estiva di parecchi vacanzieri dalla Germania e ricordo che quando andavamo anche noi d’estate in spiaggia, mio padre si turbava al sentire il suono della lingua tedesca che evocava in lui le trascorse drammatiche esperienze di prigionia. Nonostante il suo rifiuto viscerale nei loro confronti ci raccontava tuttavia che non tutti i tedeschi erano crudeli e che non era giusto generalizzare poiché lui aveva incontrato in Germania anche persone capaci di gesti di umanità.

     

    Ancora dalle memorie di mio padre.

     

    «Tolto da fare il carbonaio mi impiegarono in una fabbrica di gomma nella cittadina di Harburg; ero stato adibito ad un reparto dove si gommava la stoffa per fare impermeabili; si lavorava tutta roba per l’esercito. Il mio sceff, padrone, era un bravo uomo e ogni circa le ore 12 mi regalava due fettine di pane; era nulla, ma che gradivo  poiché riconoscevo che aveva un cuore d’oro: un suo figlio si trovava in Italia e da molto tempo non aveva sue notizie».

     

    Ma Gigi è terrorizzato dai bombardamenti alleati che con le enormi fortezze volanti sganciano migliaia di bombe a mina e bombe di grosso calibro e teme di non poter salvarsi dalla morte che viene dal cielo; la fabbrica in cui lavora è infatti un bersaglio strategico e non è consentito uscire dalla fabbrica quando suona l’allarme. Allora escogita un trucco, un trucco rischiosissimo, indice di quanto enorme fosse il terrore dei bombardamenti.

     

    Ancora, dalle memorie di mio padre.

     

    «Ogni volta che suonava l’allarme venivo sempre preso dalla paura, questa vita incerta era per me una grande tortura e ogni giorno che passava dicevo: ”Ho vissuto un giorno di più” Poi un bel giorno volli commettere delle pazzie (tale piano era stato da me progettato diversi giorni addietro): rubai della stoffa facendomi prendere in flagrante dal mio sceff. Questo tanto buono fece finta di non vedere e io il giorno appresso feci altrettanto: questa volta mi richiamò dicendomi perché avevo fatto ciò. Risposi che lo facevo per essere mandato via e raccontai tutto ciò. Non so come fece, ma dopo due giorni venni mandato via e per punizione il giorno 27/7/44 ero già impiegato presso il comune come spazzino per le vie della città: qui ero contento perché quando suonava la corna potevo abusivamente salire sul primo autocarro e portarmi in aperta campagna sotto il tunnel della ferrovia ………».

     

    «……… Dopo una settimana dal giorno in cui fui mandato via dalla fabbrica e precisamente il giorno 10/7/44 la città venne attaccata con diverse centinaia di quadrimotori americani; molte case civili e parte della fabbrica dove io avevo lavorata sino ad una settimana prima venivano distrutte, molti stranieri perirono sotto questo bombardamento ……… Anche io in Germania ho avuto delle persone che pur non conoscendomi ebbero compassione di me venendomi in aiuto coll’incoraggiarmi, col vestirmi e con lo sfamarmi. Gente buona se ne trova dappertutto. Perciò quando si tratta di fare del bene a persone che ne hanno bisogno non bisogna farsi mai indietro».

     

    Che grande e attualissima lezione di umanità ci viene dall’ex prigioniero dei lager nazisti!

     

    Ancora dalle memorie di mio padre.

     

    «La vita del lager era sempre uguale, poco mangiare e dormire di meno. Privi d’ogni conforto senza notizie dai nostri cari, che per tanto tempo nel passato ci avevano circondato con affetto e con quelle premure che significa “Grande Amore”, ora invece sbattuti a tutti i venti, derisi, umiliati, sbeffeggiati, scacciati e a volte ancora schiaffeggiati, come si poteva continuare nel resistere ad una vita simile?».

     

    Gigi, nonostante quelle drammatiche sofferenze, riesce a resistere per 20 lunghissimi mesi e a tornare a casa perché ha un alleato: un violino. Accade infatti che mentre Gigi lavora allo sgombero delle macerie dei bombardamenti, trova un violino. Lui lo sa suonare, lo ha studiato finché non è scoppiata la guerra e ora lo raccoglie e, alla meno peggio, riesce a rimetterlo in sesto. Succede allora che si forma una orchestrina nel lager e che quando si mette a suonare il violino, Gigi riesce a dimenticare l’orrore in cui è immerso e a ritrovare la speranza di salvarsi; perché sente che l’armonia, la bellezza che scaturiscono dal suo violino gli permettono, in quel contesto spietato e disumano, di  riappropriarsi della sua arte e quindi della sua umanità.

     


    Spartiti musicali con il timbro del lager

    Ancora dalle memorie di mio padre.

     

    «Il lavoro continuava a svolgersi come prima soltanto che ora invece di ramazzare le vie della città ero adibito allo sgombero delle macerie, lavoro pesante ma ero appagato perché ho trovato qualche indumento di vestiario cosicché ho potuto abbandonare tutti gli stracci che da tanto tempo portavo indosso e per di più trovai un violino il quale mi fece abbandonare la malinconia e fu quello che forse mi salvò. Il comandante del lager da quel giorno mi prese in considerazione e io subito trovai come poter star meglio e, per tramite l’interprete, feci comprendere che non potevo suonare causa del lavoro troppo pesante; subito mi cambiarono lavoro indirizzandomi ad una famiglia borghese vicino al lager».

     

    E l’importanza di quel violino trapela chiaramente anche dalle parole che Gigi scrive a sua madre, in una delle pochissime lettere che gli è consentito inviare ai suoi cari.

     

    «Sappi cara mammina, che da tempo qui nel lager abbiamo formato una orchestrina e sebbene il mio violino sia in letargo, ve n’è un altro che fa le sue veci: esso è molto per me perché mi toglie dai cattivi pensieri e mi ridona tanti ricordi belli di un tempo passato al quale bramo; e chiedo all’Onnipotente con il fervore più vivo di ritornare vicino a te e ai miei cari tutti. Cerca di farti coraggio e divagarti come meglio puoi senza pensare tanto a me………».

     

    Ecco ciò che, insieme alla grande fede e alla tenace voglia di rimanere vivo, sono riusciti a fare la musica e il suo violino: il miracolo di far dimenticare a mio padre l’orrore in cui è immerso e a ritrovare la speranza di salvarsi e di sopravvivere; amava dire a noi figli che era riuscito “a portare la pelle a casa” perché sapeva suonare il violino.

     

    Alla fine della guerra Gigi affronta da solo il viaggio di rientro dalla prigionia. È magrissimo, non arriva a pesare 40 chili, percorre lunghi tratti a piedi, affronta il viaggio su mezzi di fortuna, chiede passaggi ai contadini che lo caricano sui loro birocci; impiega più di un mese per ritornare al suo paese e va diritto a casa della sua innamorata. Ha le scarpe rotte, i piedi piagati e i vestiti laceri, ma è vivo! Appena arrivato crolla sfinito e dorme per un giorno intero. Porta con se, per tutto il viaggio dalla Germania, un leggio, parecchi spartiti musicali che portano sul loro frontespizio il timbro del lager da cui provengono, e il suo talismano, il violino! Quel violino che gli ha salvato la vita, che Gigi ha riportato con se attraversando mezza Europa per tutto il viaggio di ritorno dalla Germania, Gigi lo ha conservato per più di 60 anni come una reliquia, non lo ha mai più suonato; ne suonava un altro.

     

    Gli IMI rimpatriarono tra l’estate e l’autunno del ’45. Fu un ritorno amaro, senza l’accoglienza e i riconoscimenti attesi. Quasi nessuno fu disposto ad ascoltare la drammatica storia di chi aveva patito i lager tedeschi. Così gli IMI furono ben presto dimenticati e finirono “in una sorta di limbo della memoria”, in parte dovuto anche al silenzio dei protagonisti, che, per pudore e turbamento, non amavano parlare dell’orrore vissuto.

     

    Per decenni, l’idea di resistenza si è riferita solo alla lotta partigiana, ma quella degli IMI fu un’altra resistenza, “una resistenza senza armi”, una resistenza allo sfinimento del lavoro coatto, aggravato da fame, freddo, malattie, percosse, terrore, maltrattamenti e umiliazioni; una resistenza altrettanto importante e altrettanto degna di essere ricordata. Qualcuno ha detto: “Che pagine di storia avremmo scritto se i 650.000 soldati avessero aderito alla repubblica di Salò?”. Solo di recente si sta riportando alla luce il valore della resistenza degli IMI; si comincia a parlarne, si scrivono libri e si consegnano tardive medaglie d’onore ai familiari perché gli IMI sono ormai quasi tutti morti.

     

    L’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia (ANRP) ha inaugurato il 5 febbraio 2015 una mostra permanente sugli IMI a Roma in via Labicana 15. Non mi dilungo a parlare dell’importanza di questa mostra perché ritengo che altri articoli di questa rivista ne parlino diffusamente; mi preme solo sottolineare che una intera teca della mostra è dedicata al violino ”tedesco” appartenuto a mio padre e agli spartiti musicali con il timbro del lager.

     

    Alla morte di mia madre, avvenuta nel 2012, sei anni dopo la morte di mio padre, noi fratelli troviamo documenti e foto del periodo di prigionia, gelosamente custoditi dai nostri genitori. Tra le carte, oltre alle poche lettere scambiate con la madre e con la fidanzata, rinveniamo un quadernetto nel quale mio padre, dopo il suo rientro in patria, ha narrato l’orrore dei lunghi mesi di prigionia e da cui sono stati tratti gli stralci riportati nel presente articolo. La lettura del quadernetto con le memorie di prigionia, con dentro sentimenti enormi, profondi, paura, fede, disperazione, mi colpisce molto ed inizio un percorso di conoscenza della epopea degli IMI che mi porta ad entrare in contatto con la ANRP e ad organizzare, ormai da qualche anno, incontri per ricordare e diffondere la storia degli IMI, che scopro essere ignorata dalla maggior parte delle persone; ma anche per riaffermare e riflettere su quanto inutili siano le guerre e quanto importante sia il dialogo tra diversi, l’ascolto delle ragioni dell’altro e la conoscenza delle atrocità che la guerra è capace di generare.

     

    Per far questo ho chiesto ospitalità alle biblioteche comunali di Roma che mi hanno sempre accolto, nel corso degli anni, a braccia aperte, mostrando sincero interesse per i temi proposti e per le finalità degli incontri; mi hanno aiutato a coinvolgere le giovani generazioni invitando le scuole a partecipare e a riflettere sulla libertà, sulla democrazia e sulla pace nelle ricorrenze della giornata della memoria e della festa di liberazione. In un mondo in cui i segnali sono purtroppo sconfortanti, in cui nuovi muri e nuove chiusure nei confronti del diverso e nuovi ghetti sono in costruzione e nuove prigioni e nuovi lager si trovano vicinissimi a noi, non si può abbassare la guardia; occorre attualizzare l’esperienza degli IMI e comunicare messaggi di pace e di accoglienza del diverso.

     

    Tuttavia le parole, per quanto nobili possano essere, difficilmente riescono ad oltrepassare la mente e a fare breccia sino al cuore di chi le ascolta, lasciandovi un segno duraturo. Occorre trovare nuovi linguaggi che siano capaci di veicolare i concetti e gli insegnamenti della storia facendoli scendere dalla sfera razionale a quella passionale, dalla testa alla pancia, per rimanervi impressi attraverso le emozioni. È necessario suggestionare, procurare incanti, provocare emozioni; e il linguaggio principe per ottenere ciò è il linguaggio dell’arte; e tra le varie forme di arte la musica è stata per me la scelta obbligata perché ho pensato che quel violino di mio padre, rimasto in silenzio per più di 60 anni, dovesse riprendere voce e raccontare la vicenda dei giovani militari italiani che hanno resistito (e non tutti ce l’hanno fatta) agli orrori dei lager nazisti e dire a tutti che la guerra è atroce e che deve diventare un tabù. E quindi negli incontri che sino ad oggi ho organizzato, ho sempre usato, con successo debbo dire, il linguaggio musicale alternando momenti di narrazione a veri e propri concerti; facendo ascoltare la voce del violino del lager, invitando musicisti e cori multietnici ad eseguire repertori di pace. La commozione collettiva percepita ad ogni incontro è stata la prova inequivocabile e tangibile di un messaggio arrivato a destinazione!

     

    Recentemente sono stata invitata a raccontare la vicenda di mio padre al Conservatorio Musicale di Santa Cecilia a Roma, in occasione di un concerto organizzato dal liceo musicale “Farnesina” per la giornata della memoria. Con me c’era il presidente onorario della ANRP Michele Montagano, eroe di Unterluss. La vicenda del soldato salvato dalla musica ha portato originalità e freschezza in un ormai collaudato evento commemorativo suscitando forte interesse ed emozione in tutti gli astanti; tanto che il corpo docente del Liceo mi ha in seguito invitata ad un incontro nella loro aula magna per raccontare la storia degli IMI e del violino del lager.

     

    Nell’aprile dello scorso anno ho pubblicato il contenuto del quadernetto scritto da mio padre per avere un ricordo tangibile da tramandare e per far conoscere la storia del violino del lager ai più giovani, affinché la sua testimonianza, contributo alla memoria collettiva di tutti gli IMI, non andasse perduta e divenisse patrimonio di quanta più gente possibile. Perché la Storia con la S maiuscola si nutre e si alimenta anche di piccole storie individuali.

     


    Frontespizio del quaderno di memorie di Luigi Manoni

    Le sue memorie sono state battute a macchina da mio fratello riportando fedelmente ciò che mio padre aveva scritto seguendo il criterio conservativo del testo e consentendo quindi una assoluta originalità narrativa. Nell’approfondire la vicenda degli IMI, ho anche scoperto che gli scritti di mio padre rivestono una particolare importanza storica poiché la stragrande maggioranza della memorialistica degli IMI è attribuibile agli ufficiali e scarsi sono gli scritti dei soldati semplici, in gran parte analfabeti, costretti al lavoro coatto e ad una detenzione decisamente peggiore di quella riservata agli ufficiali.

     

    Concludo rivelando che, nonostante la mia età, ho anche iniziato con fatica, ma con molto entusiasmo, a prendere lezioni di violino perché il violino del lager non continuasse a rimanere muto!

     

    Note

     

    [1] Gemma Manoni ha fatto stampare e rilegare le memorie del padre, facendone fare un certo numero di copie. Non si tratta quindi una pubblicazione depositata, con un editore. Per questo non viene indicato il numero delle pagine. I lettori che fossero interessati possono scriverle per chiederne copia, copia che la signora Manoni sarà lieta di fare avere, fino all’esaurimento.

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