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  • Internati militari italiani
    Maria Immacolata Macioti (sous la direction de)

    M@gm@ vol.16 n.1 Janvier-Avril 2018





    MILITARI ITALIANI PRIGIONIERI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

    Maria Immacolata Macioti

    mariaimmacolatamacioti@gmail.com
    Già professore ordinario di Processi Culturali alla Sapienza, dove ha insegnato per oltre trent’anni, soprattutto Sociologia della religione e Istituzioni di sociologia, ma anche Sociologia della comunicazione e altro. Si è interessata, al di là di queste materie, di processi migratori e di rifugiati e richiedenti asilo, di periferie urbane e di esclusione sociale, di memoria e di sociologia qualitativa. Negli anni 2009 e 2010 è stata vicepresidente del SUAA, Ateneo Federato di Scienze Umane, Arti e Ambienti. Attualmente, oltre ad occuparsi del trimestrale «La critica sociologica», è responsabile dell’Osservatorio Permanente Rifugiati Vittime di Guerra dell’ANRP. Inoltre, è professore straordinario in Sociologia presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università telematica internazionale Uninettuno.


    Aniello Eco, Fallingbostel, acquerello

    Introduzione

     

    I testi che qui vengono proposti affrontano la tematica dei militari italiani prigionieri, durante la Seconda Guerra Mondiale, in diversi modi: raccontando una tragedia a più voci, e sono la maggioranza. Oppure, raccontando di un caso singolo, rappresentativo però, per più versi, di una vicenda convissuta da molti. Numericamente meno numerosi, questi interventi sono di grande interesse per le memorie riportate, per i particolari emergenti, per gli spunti che ne derivano (Gemma Manoni, Mariella Eboli).

     

    Si parla in genere di militari italiani fatti prigionieri, anche se uno spazio a sé è lasciato agli IMI, gli Internati Militari Italiani [1] finiti nei campi nazisti, in situazioni quindi particolarmente difficili, trattandosi di ex alleati che considerano ormai gli italiani dei traditori. Che trattano i prigionieri con evidente disprezzo (IMI, i padri di M. Eboli e di G. Manoni).

     

    Le parole IMI e ANRP, Associazione nazionale Reduci dalla Prigionia, sono tra quelle indicate a ragione, come parole chiave, dal presidente Enzo Orlanducci, che già da anni si era occupato, come segretario generale, dell’associazione, promuovendo ricerche e studi, comunicando in più modi le dolorose vicende intercorse, facendo sì che oggi la consapevolezza in merito sia più diffusa, la storia di questi sfortunati militari italiani, più nota. Che, sia pure in ritardo e tra molte difficoltà, le istituzioni stesse se ne siano, sia pure con parsimonia, fatte carico, laddove al ritorno dei reduci dai campi avevano semmai mostrato chiusura e diffidenza.

     

    Esperienze di famiglia

     

    Quasi tutti gli scriventi, uomini e donne, vengono da famiglie in cui un familiare, spesso il padre, aveva vissuto questa difficile esperienza, che ha caratteri ricorrenti. Un uomo quindi - un marito, un fratello, un figlio - che viene preso dai tedeschi; di cui a lungo si perdono le tracce. Che riesce poi a dare frammentarie notizie di sé, senza poter spiegare troppo come stia vivendo, cosa stia facendo, come sia finito in cattività in Polonia, in Germania: per via della censura. Anche se è chiaro, ai familiari lontani, che vi è, tra i tanti (ma all’epoca le famiglie non sanno tutto. Non sanno, ad es., delle angherie, delle botte subite), un problema di fame: pacchi viaggiano da un’Italia in difficoltà verso mete lontane, non certe: da un campo un italiano può essere stato spostato in un altro. Possono, questi pacchi molto attesi, molto concupiti, arrivare: e vi saranno brevi momenti di festa e condivisione. I pacchi possono però anche perdersi. A volte, si perdono. Da qui interrogativi, dubbi, angosce.

     

    Poi, la fine della guerra. I prigionieri italiani, i giovani e i meno giovani militari, potranno ora tornare a casa, immaginano i familiari, pensano gli interessati. Ma questo in realtà non avviene. Almeno, non nell’immediato. E, ancora, vi sono attese e silenzi. Silenzi e attese. Aspettative frustrate, incertezze: cosa accade? Perché questi ritardi? Perché gli Alleati non sanno bene cosa fare dei tanti militari italiani internati. Non riescono a capire, almeno in un primo momento, cosa ci facciano loro nei campi da poco liberati, aperti. Aperti? Entro certi limiti, naturalmente. La struttura è sempre quella, il personale a volte è quello che già era in funzione in precedenza. Si è liberi sì, ma non poi troppo.

     

    Gli Alleati si occuperanno, in precedenza, di altri rientri. Comunque difficili: in certi casi non ci sono più le precedenti patrie. Solo in ultimo, dopo mesi, partiranno verso l’Italia gli IMI. Che non giungeranno, purtroppo, tutti a casa, poiché ancora vi saranno incidenti, problemi pure nei rientri. Ma in buona parte, sia pure malati, stremati, denutriti, spesso irriconoscibili, potranno rientrare. Come? Con difficoltà. Con qualche tratto in treno, poi chiedendo magari un passaggio a qualche contadino (v. il racconto di G. Manoni), e ancora, camminando. Quanto ci si mette, a tornare? Anche un mese (v. G. Manoni). Dove si arriva? In famiglie che non sono più quelle che avevano lasciato. Che, nelle lunghe notti, nei giorni desolati trascorsi in cattività, avevano probabilmente mitizzato. I familiari hanno a loro volta subito le vicende belliche, la paura, la fame. Le vicende dei militari che sono stati fatti prigionieri e costretti alla cattività non sempre vengono ben comprese.

     

    Sarà difficile per tutti trovare nuovi equilibri, ricostruire rapporti già duramente lacerati. Una tragedia tutta al maschile, questa dei militari italiani prigionieri in varie parti del mondo: qui riproposta da due uomini (Orlanducci e Potito Genova) e da varie donne. Forse oggi l’universo femminile è più attento, più sensibile nei confronti di questa storia, di queste storie? Forse è così. Tuttavia c’è da rallegrarsi delle due presenze significative maschili, del fatto che il direttore della rivista M@gm@ sia Orazio Maria Valastro: non è mai un bene, quando gli uomini lasciano un certo tipo di lavoro, di impegno. Non è, in genere, un buon segno.

     

    Prigionieri, dove?

     

    Troviamo qui ricordati i militari italiani finiti prigionieri non solo in Germania ma in tante parti del mondo. Ad esempio, nell’URSS. È ancora Orlanducci che ce ne parla nel suo pezzo introduttivo, sottolineando come uno dei tratti intollerabili quello dei continui tentativi di rieducazione ideologica dei prigionieri. Orlanducci sottolinea, in questo come in altri casi, il ruolo positivo svolto invece da varie iniziative di aggregazione, fino alla nascita dell’associazionismo: positivo allora, per i prigionieri stessi. E dopo, per la memoria e la conoscenza. Si parla quindi, in questo numero, sia pur brevemente, del Giappone, del Sudafrica [2], dell’India, dell’Australia e del Canada. Compare in queste pagine, più in dettaglio, l’Inghilterra (AnnaMaria Calore). Ci sono poi ricordi che derivano dai prigionieri finiti nei campi nazisti. Diversi luoghi, diverse situazioni.

     

    Deve essere stato, potremmo pensare noi oggi, deve essere stato ben diverso essere in un campo nazista o ad esempio, in un campo negli Usa: ma prima Orlanducci e poi Potito Genova smentiscono subito questa ipotesi. Orlanducci parla dell’utilizzo dei militari italiani come manodopera a basso prezzo, in campi in cui vigevano dure condizioni di vita. E indica come uno dei più duri campi quello di Hereford. Il generale Genova ci spiega a sua volta, più in dettaglio, come sia stata difficile e tormentosa la situazione degli italiani prigionieri negli Stati Uniti. O meglio, spiega che la situazione poteva dirsi migliore da un punto di vista organizzativo e logistico. Ma che non lo era certamente per gli aspetti psicologici e morali. E chiarisce: «Varia la reazione degli italiani: la maggior parte scelse di collaborare, altri si rifiutarono di farlo, ispirati dagli stessi principi di coerenza naturalmente a differenti valori. Comune il senso di delusione verso una patria che avevano servito in armi, dalla quale si sentivano abbandonati. L’Italia subiva un’ulteriore sconfitta da parte dei suoi stessi militari prigionieri in America».

     

    Ogni autore ha indicato, come previsto dalle norme editoriali, cinque parole chiave. In questo caso, un esame sia pur rapido di queste key words ci offrirà ulteriori chiavi di lettura.

     

    Cosa ci dicono le parole chiave?

     

    Prigionieri, prigionieri di guerra

     

    Cosa ci dicono le parole chiave proposte dagli autori? Inevitabilmente, si parla, in prevalenza, di prigionieri (Calore, Potito Genova), di prigionieri di guerra (Orlanducci). Di Seconda Guerra Mondiale (Ciccarello), di guerra (Calore), di bombardamenti (Calore). Cosa comprensibile oltre che inevitabile, visto che l’ambientazione è sempre importante: in queste vicende, poi, decisamente ineludibile. Si parla dei protagonisti, dei prigionieri italiani in genere. Delle loro difficili condizioni: di freddo, di fame, di violenza (Ciccarello). Che colpiscono tutti i prigionieri. Anche se poi ci si sofferma sugli IMI, gli Internati Militari italiani (Manoni, Ciccarello, Orlanducci).L’Anrp (Orlanducci, Manoni ecc.) sta infatti studiando da anni la tematica dei prigionieri italiani in generale. Ma poi, in particolare da qualche anno sta cercando di ricostruire per quanto possibile un prospetto completo degli IMI: di coloro che nei campi nazisti sono morti; di quelli che invece sono tornati: un lavoro faticoso e difficile, che si è avvalso di aiuti anche finanziari da parte della Germania. Che ci si augura - ma non è affatto detto - di poter portare avanti, ora che i problemi economici si fanno sempre più sentire.

     

    I campi, gli stalag, i lager, l’internamento

     

    E quindi si parla di campi. Di quel particolare tipo di campi, poiché l’istituzione campo precede il nazismo [3] e non è certo terminata con il nazismo (basti pensare a quanto accaduto nei Balcani negli anni ’90) ma si sviluppa ancora oggi, anche se con evidenti diversità, come ben sa chiunque tenga presenti le vicende dei rom, l’abbattimento di alcuni loro campi; per alcuni, non per la prima volta. Per non parlare poi dei campi in cui vengono relegati i migranti, tra cui anche potenziali richiedenti asilo: con una politica discutibile e discussa, oggi dominante purtroppo a livello non solo italiano ma europeo [4].

     

    Qui si parla di campi in cui sono costretti a vivere (a sopravvivere) i militari italiani prigionieri. Si parla quindi di strutture chiuse, da cui non si esce se non per volontà dei vincitori. Chi ci dovesse provare, o desse anche solo l’idea di volerci provare, viene ucciso: come ha raccontato in un suo lavoro teatrale, Smemorando, uno degli ex IMI, Gianrico Tedeschi. Nei campi si è confinati, si vive da reclusi. Si è internati (Mariella Eboli). Chiusi dentro, senza possibilità di uscire. Un po’ come avviene, all’epoca, anche per chi ha avuto la sventura di finire in un ospedale psichiatrico. Difficile prevedere di poterne uscire.

     

    Hanno, i campi, oltre a una funzione di isolamento, un evidente ruolo di logoramento. In certi casi, di preludio a una morte già ipotizzata e prevista. Strutture chiuse, i campi che racchiudono i prigionieri di guerra. Con filo spinato. Magari, con una doppia recinzione. E, fuori, torrette con militari con fucili imbracciati, pronti a stroncare qualsiasi velleità di fuga: almeno, nei campi nazisti. Quasi ovunque, i campi vogliono dire angoscia e oppressione, ma anche fame (le razioni alimentari vengono sempre più ridotte), freddo. Sporcizia e parassiti. Botte. Non solo: la cosa più difficile da sopportare, per molti, sono i processi di spersonalizzazione. Non si hanno più dei nomi. Si è ormai un  numero. Per non parlare della violenza fisica subita (v. Elena Ciccarello e Rosina Zucco, Gemma Manoni): in Germania e altrove. Di campi parla Orlanducci, mentre Gemma Manoni usa la parola lager.

     

    La dizione stalag viene mantenuta dalla Ciccarello, a ragione, perché lei esamina un’ampia corrispondenza, in cui gli scriventi indicano lo stalag con il numero apposito in cui al momento si trovano, in calce alle lettere che inviano a casa. Ma di questo parleremo più avanti.

     

    Fame, violenze

     

    Fa parte dell’internamento, almeno nella seconda guerra mondiale, almeno nei campi nazisti, la fame. Una presenza costante, che riguarda tutti, ufficiali e soldati semplici. Gli ufficiali sembrano essere, da un lato, dei privilegiati, perché non sono obbligati a lavorare, almeno non fino agli ultimi tempi. In cambio, vengono nutriti sempre meno, magari con dosi minime di cibo dato due o tre volte a settimana. I soldati semplici invece non possono rifiutarsi al lavoro coatto, come sa il padre della Manoni. Loro in teoria vengono più nutriti rispetto agli ufficiali proprio perché possano dare risultati. Ma in realtà il cibo è poco, anche per loro; non basta affatto. E grande invece è il disagio di essere costretti a lavorare per i tedeschi: quindi, contro l’Italia e gli italiani. Indicativo, un verso di Mario Eboli, qui riportato dalla figlia Mariella: «Peggio d’ ‘a famme chesta ‘nfamità». Scarso cibo, per cui quando i campi saranno aperti ne emergeranno individui scheletrici e denutriti. Uomini adulti, alti, pesano sui 40 chili circa.

     

    Né solo di fame si tratta. La fame va insieme alle botte. Un argomento questo davvero difficile, di cui non si parla. Come se ne potrebbe parlare con una moglie, con dei figli? Meglio passare sotto silenzio. Per uomini adulti, per dei militari, l’umiliazione deve essere stata viva, forte. Difficilmente superabile. Non comunicabile.

     

    Eppure questi italiani sono così brave persone che in genere ci tengono a dire che non tutti i tedeschi sono stati però cattivi. C’era chi elargiva due fette di pane, chi cercava di evitare il peggio: e lo dice Manoni, in primo luogo. Lui che essendo soldato semplice, era particolarmente vessato.

     

    I reduci

     

    E poi si parla di reduci. Una parola, ‘reduce’, che sembra semplice, breve. Che implica, che richiama un ritorno: ma può trattarsi di un qualsiasi ritorno, anche da un viaggio di piacere, da un incontro voluto, gradito. Si può pure, ci ricorda il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli [5], essere reduci da una brutta influenza: un significato che è ancora ben lontano dalla realtà che ci interessa, ma che se non altro introduce un prius  negativo.

     

    Lo Zingarelli propone anche altro: vi si parla di ritorni da una situazione difficile, dalla prigionia o dall’esilio, da una guerra: un significato, quindi, più vicino a quello che ci interessa. In questo, la lingua italiana si rivela forse inadeguata: non esiste una parola specifica per un fenomeno così a se stante, che implica dolore, lontananza, estraneità. Forse qualche linguista troverà in futuro una parola più consona, dato che una lingua è una realtà viva, in grado di cambiare, di cancellare certi modi di dire, certe parole, di proporne altre.

     

    Qui la parola ‘reduce’ implica in effetti molta sofferenza, protratti silenzi. Evoca, a volte, difficoltà di comunicazione. In Italia, i reduci non trovano alcuna udienza da parte delle istituzioni.

     

    Molti italiani già prigionieri, per fortuna, infatti, tornano. Ma come tornano? Subito dopo l’apertura dei campi da parte degli alleati? No. Tornano dopo mesi e mesi. Per ultimi, rispetto agli altri prigionieri [6]. Tornano con un convoglio apposito, pieno di bandiere, accolto con bande musicali, con squilli di trombe, con suoni di tamburi? Con le autorità che li attendono con tanto di sciarpa tricolore, nelle varie stazioni? Con medaglie in mano, da appuntare tra gli applausi sui loro petti?

     

    No. I reduci arrivano alla spicciolata. Silenziosi. Cercando di passare inosservati. Sono, in genere, uomini stanchi, denutriti, malati, amareggiati, quelli che dopo mesi o anni di prigionia, rientrano [7]. Silenziosi, vergognosi. Chiusi in un mutismo che sembra difficile infrangere. Giungono del resto in un paese vinto, saccheggiato. Impoverito. Taceranno a lungo, gli IMI. Con poche eccezioni, preferiranno tacere e non raccontare. Non alle mogli. Non, in genere, o almeno non subito, ai figli. Semmai, a qualche nipote, a distanza di anni e anni. Le proprie vicissitudini sembrano difficili da comunicare, in famiglie stremate dalla guerra, in un paese vinto. Povero, depredato.

     

    I più lasceranno quaderni, foglietti, appunti. Che, ritrovati dopo anni in qualche scatolone in soffitta o in cantina, sveleranno ai figli, ai familiari tutti qualcosa delle sofferenze patite, delle vicende vissute. Dei ricordi che non si volevano avere né conservare (e infatti erano stati allontanati, relegati lontano), che non si volevano cancellare (e infatti sono stati conservati). Gemma Manoni parla del diario del padre, di altre poche carte ritrovate solo dopo la morte della mamma, nel 2012. Più di mezzo secolo dopo. La poesia qui ampiamente citata di Eboli sembra sia stata scritta ben dopo questi accadimenti, negli anni ’90.

     

    Non solo: alcuni, al rientro, verranno costretti a cure in strutture non sempre vicino casa, per mesi. Altri verranno costretti a ripartire: mancava loro qualche mese al termine del periodo previsto per il servizio militare. Le istituzioni sono e appaiono distratte, lontane. Non hanno interesse a raccogliere le istanze di questi reduci: il tentativo semmai è quello di far passare sotto silenzio queste che sembrano, a occhi distratti, vicende poco onorevoli. Non encomiabili.

     

    In questo numero scrivono persone - più donne che uomini - che hanno per lo più conosciuto da vicino, hanno vissuto in famiglia le difficili traversie della prigionia dei soldati italiani. Ne parlano quindi con conoscenza di causa. Ne hanno fatto esperienza, in genere, i loro padri. E loro, i figli, le figlie, hanno voluto meglio comprendere quanto occorso, hanno approfondito questo tema attraverso la raccolta di ricordi e memorie, attraverso studi e letture, riflessioni sull’uso di certi documenti, di materiali biografici.

     

    Resistenza

     

    Si parla, quindi, di reduci. Ma si parla anche, e lo fa Rosina Zucco, di resistenza. Siamo abituati, in Italia, a pensare a una diversa resistenza: quella di giovani uomini e di qualche donna fuggiti sui monti, per poter condurre azioni di guerriglia antitedesca, a rischio della vita. La resistenza è quella che cerca di logorare le forze dell’attaccante. È una realtà che si è sviluppata un po’ ovunque, contro il nazismo. Anche in Italia: la sua presenza è stata un fatto moralmente positivo per il paese (anche se vi è qualcuno, come ad es. Pansa, che la pensa diversamente).

     

    Come mai allora l’uso della parola ‘resistenza’ a proposito dei militari italiani prigionieri? Un fatto improprio? La parola è utilizzata, a mio parere, a ragione, con consapevolezza, magari con un po’ di orgoglio: se tutti i prigionieri italiani avessero firmato per il rientro dai campi nazisti, le sorti della guerra avrebbero potuto essere diverse. Se non altro, la guerra avrebbe potuto durare più a lungo. Invece, come è noto e nonostante alcuni siamo stati di diverso parere, i prigionieri di cui qui si tratta hanno per lo più resistito in dure condizioni di cattività. Ove possibile, hanno rifiutato di collaborare con i tedeschi. Hanno messo in atto una loro particolare forma di resistenza, nei campi ove erano costretti a vivere, o meglio, a cercare di sopravvivere: una parola chiave interessante e aderente ai contenuti, quindi. Appropriata, quella di ‘resistenza’. Una parola che è stata di indubbio rilievo nell’aiutare le famiglie a fare emergere queste storie. Ritenute, per lungo tempo, storie private; e, forse, anche un po’ vergognose. Da tenere nascoste. Emerse con circa cinquant’anni di ritardo.

     

    Testimonianze e memorie

     

    Tornano anche altre importanti parole chiave, quali quella di ‘testimonianze’ (A.M. Calore, R. Zucco) e di memoria (P. Genova). Anche in sociologia si è molto discusso di memoria, di fonti orali, di racconti autobiografici orali o scritti da utilizzare per meglio comprendere accadimenti e tempi, fatti particolari. Testimonianze, le memorie raccolte ad anni di distanza? Forse non testimonianze nel senso legale del termine. Non testimonianze da aule di tribunale. Ma ricostruzioni che non potrebbero esistere, senza certe fonti orali, senza la memoria che ne hanno coloro che certi avvenimenti hanno vissuto.

     

    Se esistono le auliche memorie di grandi strateghi, di nomi ben noti e rilevanti di condottieri e di responsabili militari, sarebbe bene avere anche le memorie di coloro che hanno subito strategie incomprensibili. Che queste guerre le hanno subite. Perché le fonti non possono essere solo leggi, sentenze di tribunali, atti ministeriali e simili. Esistono le storie individuali e di gruppo, ben diverse da quelle dei grandi personaggi vincenti, non per questo meno interessanti. Esistono rielaborazioni dei ricordi anche a confronto con le memorie altrui. Esistono cioè i ricordi immediati e ricordi rielaborati a distanza di tempo: tutti utili, con una loro verità, laddove esista un bravo ricercatore che sia in grado di rendersene conto, di fruirne, di interrogarsi in merito. Ma poiché questi interventi vengono pubblicati su M@gm@, rivista da sempre attenta all’approccio qualitativo, ai temi della memoria, ai materiali biografici, non è necessario soffermarsi ancora su questi temi.

     

    Le fonti

     

    Le fonti quindi cui qui ci si richiama possono essere e di fatto sono varie, molteplici. Vanno da diari pubblici e privati (AnnaMaria Calore ad esempio  si richiama a un diario – da tempo pubblicato – di Elena Albertini moglie di Nicolò Carandini, all’epoca ambasciatore a Londra [8]) alle fonti archivistiche (Rosina Zucco). Ma abbiamo anche racconti fatti ad anni di distanza a un interlocutore interessato. Abbiamo ricordi di bambini, di adolescenti di allora (ancora, AnnaMaria Calore, Rosina Zucco, ecc.). E abbiamo, importanti, tanto da avere un ruolo a sé, le lettere, la corrispondenza scrittacui si richiama Elena Ciccarello, che dà un ampio spazio a questi materiali. Lettere brevi, lettere più lunghe. Scritte a volte da uomini poco abituati alla scrittura: ma li spinge la necessità di far avere notizie, di averne. E anche la necessità di chiedere piccoli aiuti.  Si racconta, così, poco, di sé. Si chiedono notizie dei familiari. Si spiega alle famiglie come devono fare perché i pacchi, la posta arrivino: tra il 1943 e il ’45, spiega la Ciccarello, si ha una fitta corrispondenza tra Italia e Germania: non c’erano computer o telefoni cellulari, si ricorre quindi a questo mezzo tradizionale, incerto, ma in cui si ripongono molte speranze. Un mezzo che consente a noi, oggi, di leggere quanto scritto allora, anche con eventuali errori che a ragione l’autrice ha lasciato, rispettando i testi e la forma scritta così come appare. Lei spiega: Nel loro insieme, le lettere costituiscono una fonte di informazioni, una raccolta di «frammenti», rappresentano uno spaccato delle vicende storiche dalla voce dei diretti protagonisti, ma sono anche lo specchio della società italiana dell’epoca, riflesso di un’Italia controversa, provata dalla guerra, dalla debole struttura economica e sociale.

     

    Nonostante la censura, nonostante le scarse capacità di scrittura di molti - l’analfabetismo è ancora presente in varie parti del Mezzogiorno - le missive, lettere, cartoline, viaggiano, fanno il loro dovere di assicurare notizie, di rafforzare legami. In questo specifico caso non viaggiano solo lettere e cartoline ma anche, si diceva, pacchi: quelli però vanno dall’Italia verso i campi nazisti, in un’unica direzione quindi. Pacchi molto sollecitati, molto attesi. Pacchi che a volte arrivano, ed è festa grande. Ma che a volte si perdono, presenti ancora un po’ solo nella, corrispondenza, nelle aspettative. Tra molti interrogativi: saranno davvero partiti? Dove saranno andati? Chi li avrà deviati o intercettati?

     

    Elena Ciccarello offre vari esempi di questo tipo di corrispondenza: un pacco arrivato può portare gioia e ottimismo. Anche se il cibo viene, possibilmente, condiviso. Ma un pacco perduto induce, al contrario, pessimismo e diffidenza. Quali le principali richieste? Cibo, in primo luogo. Viaggiano così dall’Italia alla Germania e dintorni soprattutto frutta secca e zucchero, riso, pane e fagioli. Ma vengono richieste –vengono molto apprezzate - anche lamette, maglie e mutande, sigarette e tabacco. L’arrivo dei pacchi, si accennava, induce ottimismo, in attesa di un ritorno che appare ora possibile. Fattibile. E qualcuno scrive del «felice rimpatrio», del «benedetto giorno», o più semplicemente del «bel giorno», che di colpo sembra possibile, realizzabile. Insomma, grazie ad Elena Ciccarello possiamo entrare nei campi, sentire l’attesa, partecipare alla gioia di una risposta positiva.

     

    Quindi, ‘testimonianze’ (io direi: racconti; la parola ‘testimonianza’ non è forse la migliore ma ne comprendo il senso, lo scopo. Comprendo che la parola ‘racconti’ può apparire troppo soggettiva) scritte ma anche fonti orali, da anni ritenute preziose in sociologia, nelle scienze sociali per comprendere argomenti non così semplici. Argomenti, al contrario, complessi e certamente ‘delicati’.

     

    I reperti museali

     

    Ma poi compare anche altro: compaiono, a pieno diritto, i ‘reperti museali’. Di cui ci parla Rosina Zucco: l’Anrp ha ormai una ricca collezione museale, costruita con oggetti più importanti e ricercati ma anche con reperti della vita quotidiana nei campi. C’è la gavetta utilizzata per un magro pasto ma c’è anche la bandiera conservata con cura da Eboli padre, donata all’Anrp dalla figlia Mariella e tanto altro, tra cui mappe e filmati: le fotografie che illustrano l’articolo di Rosina Zucco ce ne danno un’idea.

     

    Il violino, la musica. La poesia, il teatro

     

    Compaiono, in questo testo, nelle foto, nella mostra, oltre che nelle parole chiave (Gemma Mainoni) anche degli spartiti musicali e un violino: il violino che ha giocato un importante ruolo nell’aiutare suo padre a sopravvivere. Importante, il violino, in cattività. Mai più preso in mano, quel particolare violino che ricorda comunque la prigionia, la Germania, una volta che il padre è rientrato in Italia, nell’ambito familiare, come scrive la Manoni. Negli ultimi anni abbiamo potuto ascoltare registrazioni di musica fatta nei campi: un fatto indicativo e di particolare interesse, mi sembra. Ma è altra cosa la storia di un violino che aiuta un giovane uomo provato dalla fatica, dalla fame, dalle botte, dalla paura dei rumorosi bombardamenti alleati a mantenere un suo equilibrio, ad andare avanti giorno per giorno in circostanze avverse, senza lasciarsi andare, senza cedere alla disperazione. Un violino che ha aiutato a vivere un giovane uomo. Che verrà poi da questi rifiutato, una volta tornato a casa, nel suo paese: ci dice Gemma Manoni che il padre non lo suonerà mai più. Ma lo possiamo vedere in «Vite di IMI», l’ampia e ricca mostra presente nella sede dell’Anrp a Roma, dovuta all’impegno di alcuni soci tra cui Rosina Zucco. Qui c’è il violino già utilizzato da Manoni padre, con il suo archetto; ci sono la custodia e gli spartiti originali.

     

    Compare anche, in queste pagine, la poesia, di cui ci parla Mariella Eboli (non la mette nelle parole chiave, ma è presente in tutto il suo testo), di cui sappiamo anche grazie a tanti reduci. Perché la scrittura, la poesia, la musica, il teatro e in genere le  arti hanno aiutato gli italiani a sopravvivere a condizioni di tremenda inedia, di cronica debolezza, di disperazione: lo abbiamo compreso anche grazie a Gianrico Tedeschi, il bravo attore di teatro che proprio nei campi ha iniziato a recitare, e poi non ha più smesso per una lunga e laboriosa vita lavorativa [9], e a tanti altri.

     

    Gli archetipi

     

    Qui però, in questo numero di M@gm@, in queste parole chiave, c’è anche altro: si parla, nel pezzo della Calore, di archetipi. Di archetipi ricorrenti, vale a dire di motivazioni, di pulsioni profonde, quali paura e coraggio, di fiducia e sfiducia. Archetipo dal greco arché. Che qui non credo chiami in causa forme archetipiche primitive, né si leghi o intenda legarsi all’impostazione platonica di modello originario, ideale delle cose concrete e che cadono sotto i sensi. A ragione, credo, l’autrice scrive: «… la descrizione dello scacco subito, della sensazione di sfiducia e disistima in se stessi, la scelta sofferta di cooperare oppure no dopo l’armistizio e la sfiducia nella capacità del proprio Paese di sapersi attivare per il loro ritorno in Patria sono stati vissuti in modo talmente traumatico da richiedere una profonda rimozione collettiva per lunghissimi anni a tutta una classe di giovani uomini partiti per la guerra».

     

    Rimozione e ricordo, quindi. E a volte è necessaria l’intermediazione del ricercatore, per fare arretrare la rimozione, emergere il ricordo. Qui non si parla di sogni individuali e di miti religiosi. Semmai credo che andrebbe richiamato Jung: parliamo di rappresentazioni, nell’inconscio, di una traumatica, comune esperienza.

     

    La Calore ci propone, oltre al diario della moglie di Nicolò Carandini, Elena Albertini, storie e ricordi in vario modo raccolti (dà conto con attenzione e scrupolo delle varie fonti, di regola fonti orali), da cui emergono temi quali i fatti di S. Lorenzo, con la paura e la fame. L’arrivo degli americani, che lanciano ambitissime caramelle con il buco, e altri interessanti, godibili descrizioni di situazioni ormai lontane nel tempo eppure a noi vicine: si tratta della nostra storia di ieri. Con luci e ombre. Con chiari e scuri.

     

    Compaiono nei racconti qui proposti anche le città tedesche distrutte, tra cui campeggia Berlino con i suoi tanti morti («chilometri di morti») e l’arrivo trionfale di Stalin. Sappiamo, grazie ai ricordi propostici dalla Calore, del rientro di Aroldo: e della gatta che, rivedendolo dopo tanto tempo, si rotola in terra dalla gioia. Delle avventure di Alberta Montanari bambina che è in riva al mare con un fratellino. Si butteranno in acqua vedendo che un aereo si abbassa, lancia proiettili contro di loro: troveranno poi  i ciottoli  frantumati.

     

    Siamo quindi costretti a pensare a cosa hanno significato questi e tanti altri episodi, nella vita di chi ne è stato protagonista, nella vita di uomini e donne che con queste persone hanno avuto a che fare. A come siano stati vissuti, dimenticati, ricordati e rivissuti alcuni fondamentali archetipi.

     

    Confronto, insegnamento

     

    Ma Potito Genova propone anche altre importanti parole chiave: parla infatti di confronto e di insegnamento. Confronto. Un fatto fondamentale sempre. Mai però come nei campi di prigionia, dove il confronto reciproco, tra persone che vivono le stesse situazioni di degrado e sofferenza, può portare, porta a tentativi di reciproca solidarietà, a un immaginario comune su come pensare ad altro. Su come uscire con la mente verso situazioni più stimolanti, più confortanti: da cui tante iniziative di cui poi sentiremo parlare tipo biblioteche circolanti, conferenze, musica condivisa, spettacoli teatrali, apprendimento di altre lingue ecc. Una doppia valenza: la prima, la più importante, quella di cui si è accennato, di aiuto immediato a coloro che altrimenti trascorrerebbero il tempo nell’affanno o nell’inedia (anche Orlanducci parla dell’importanza del confronto, nei campi. Dell’importanza del nascente associazionismo).

     

    E poi, un secondo aspetto che è quello di finestre sul futuro. Molti prigionieri italiani scoprono proprio nei campi la loro vocazione: sono presenti infatti molti giovani sui 20 anni, che hanno portato con sé quel che avevano a portata di mano: spesso, libri che cercavano di studiare in vista di qualche esame.

     

    Nei campi, tra gli italiani, si è avuto un ricorrente, costante confronto reciproco. Quello di cui ci sarebbe bisogno ancora oggi, in Italia. E dal confronto reciproco, in quelle difficili circostanze, gli italiani hanno saputo trarre, almeno allora, nell’immediato, utili insegnamenti.

     

    Cambiamento

     

    Mariella Eboli propone la parola ‘cambiamento’ tra le parole chiave. Si era giovani appena usciti dalla tutela delle famiglie, dagli studi. Giovani con speranze nei confronti del futuro, quando si è stati catturati. Persa ogni speranza di poter tornare rapidamente in patria, a casa, persa la speranza di poter rivedere a breve la giovane donna amata (questo è vero un po’ per tutti), preso atto di come si trascorreranno, d’ora in poi, le giornate, le notti, certamente si deve essere verificato un forte cambiamento nei singoli, oltre che nei soldati in genere in quanto gruppo.

     

    Non è solo il passaggio da giovani a adulti. È la perdita dell’innocenza, delle speranze. Si impara a vivere giorno per giorno, a restringere i propri orizzonti, le aspettative. A imbrigliare la fantasia. Si devono trovare modi di adattamento: per forza, necessariamente, se si vuole sopravvivere. Lasciati dietro di sé amici, familiari, quindi madri, sorelle, fidanzate, si è ormai costretti a vivere in un contesto maschilista, in cui si è a rischio 24 ore su 24. Per forza, si cambia. Ci si deve adeguare, e in fretta. È essenziale adattarsi, mettere in essere piccole strategie di difesa.

     

    Sarà difficile se non impossibile dimenticare poi questo buio periodo, tornando. Quelli che ce la fanno, perché, ci dicono gli storici che l’8% circa degli Imi non ce l’ha fatta. Non riuscirà a sopravvivere. Muiono nei campi, questi italiani, stremati dalla fame e dalle malattie, di regola non curate. Piegati dalle violenze subite.

     

    La bandiera

     

    Si è detto del violino, indicato da Gemma Manoni, presente anche nello scritto di Rosina Zucco. Resta da ricordare la bandiera, uno dei termini chiave indicati, non a caso, da Mariella Eboli. Una bandiera custodita, a pezzi, dal padre, nonostante i rischi di un’impresa del genere. Tirata poi fuori al momento dell’apertura dei campi, della ‘liberazione’ degli internati. Poi, decenni dopo, donata dalla figlia all’Anrp. Ora, presente tra i reperti che sono in mostra, che vengono ammirati, studiati, interrogati da adulti ma anche da studenti, studenti seguiti e richiamati da Rosina Zucco.

     

    Strisce di stoffa colorata, anzi, strisce di stoffa un po’ sbiadita, dopo tante peripezie? Perché conservarle nei campi, perché riproporle oggi all’attenzione di coloro che frequentano, che frequenteranno questi locali? Perché una bandiera, lo sappiamo bene, non è solo stoffa, non è solo un’asta che la sostiene. No. È un importante, noto simbolo, che rinvia al paese natale, al paese forzatamente abbandonato, nel caso del giovane Eboli, degli IMI, dei tanti italiani prigionieri in tante parti del mondo. È un simbolo anche della famiglia. Ci ricorda i valori interiorizzati. Assorbe speranze. Magari, induce a pensare a una migliore vita futura. Chi non ricorda in Italia i versi di una celebre canzone che riguarda la bandiera?

     

    «E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella. Noi vogliamo sempre quella, noi vogliamo la libertà».

     

    Della bandiera italiana si è interessato anche Orlanducci allora, credo, segretario generale: ne ha fatta fare una lunghissima, tanto da battere ogni record, che ha girato per tutta Italia…».

     

    Hammerstein

     

    La Eboli è l’unica che indichi, tra le parole chiave, il nome di un lager: Sappiamo che erano circa 30.000. Alcuni sono divenuti tristemente celebri. Altri sono quasi dimenticati. Lei parla di Hammerstein. Cerco in internet, trovo varie possibili voci che contengono questo nome, con memorie di vari deportati. Vi è uno scritto di Sommaruga che viene qui proposto. Un campo in Pomerania, in cui sono rinchiusi anche francesi e polacchi. Ma, dicono in vari, nei confronti degli italiani c’è un odio profondo. Inutile ragionare, in questi casi. Inutile far notare che i prigionieri non appartengono alle alte sfere della politica, che non hanno avuto alcun ruolo, alcuna responsabilità né negli accordi tra Mussolini e la Germania né, dopo, nella decisione di uscire da questa alleanza. C’è odio profondo, si dice, si ricorda, nei confronti degli italiani. E vi è chi ricorda, tanto per cambiare, la fame: ore in piedi, per un piccolissimo pezzetto di pane o per qualche rapa. Vi è chi ricorda che c’era, tra i tanti, Marco Beltrami. Un Marco Beltrami ormai pelle ed ossa, per la cui sopravvivenza si teme: gli italiani lo esortano ad abbandonare posizioni di intransigenza, ad accettare il lavoro coatto: almeno potrà uscire da lì. Se lavorasse in campagna, potrebbe nutrirsi meglio. Sopravvivere. E così sarà.

     

    Il giovane Mario Eboli, già allevato, come in genere i tanti ragazzi della sua età, da fervente fascista, finisce ad Hammerstein. Non per tutta la durata della prigionia, perché i deportati non devono mettere radici. Nelle pagine della figlia trovo varie altre indicazioni: Muehlberg, Lingen, Przemysl (Polonia), Norimberga, Gros Hesepe bei Meppen (stalag 308). Essere spostati da un campo all’altro deve essere stato un provvedimento teso a creare insicurezza. Si troncano i precari legami amicali costruiti a fatica, si costringono i prigionieri ad abbandonare consuetudini ormai interiorizzate, volti noti, magari relazioni amichevoli.

     

    Dove si verrà portati? Questo non è dato saperlo. Il mutamento potrà andare verso il meglio o verso il peggio. Anche il fattore linguistico, immagino, avrà comportato problemi relazionali, di comunicazione tra i tanti internati, di varia provenienza.

     

    La fotografia, le fotografie

     

    Mi sembra una buona idea, quella di avere ripercorso le parole chiave indicate. Anche se non esauriscono tutti gli aspetti di cui vorrei trattare. Ad esempio, non vi compare mai il tema fotografie: per loro, per noi, molto importante. Perché certamente qualcuno dei prigionieri aveva con sé, al momento dell’arresto, un po’ ovunque nel mondo, qualche foto. Magari, la foto di una ragazza. Foto che diverranno preziose, che si sciuperanno fin quasi a perdere i tratti, sotto dita impazienti, sguardi ansiosi. Qui, in questo numero, avremo una grande ricchezza di foto. Dei giovani non ancora militari, non ancora prigionieri. Dei loro familiari. Delle loro ragazze. Di loro, dopo, ormai rientrati, magari con le loro famiglie. Ma anche foto di oggetti significativi (il violino, la bandiera ecc.), di carte in vario modo rilevanti. Una scelta precisa, quella di dare spazio alle fotografie. Il tema ‘fotografie’ è infatti ben presente, nelle scienze sociali.

     

    Lo sappiamo da tempo: le fotografie non sono una mera appendice illustrativa, un fatto ornamentale. Al contrario, le fotografie colgono le persone, le cose, le situazioni. Richiedono attenzione, consonanza. Non basta fare tanti scatti automatici. Serve l’occhio del fotografo, capace di cogliere, in un aspetto apparentemente minimale, in un frammento, il significato della totalità. Gli antropologi hanno sempre avuto attenzione per la fotografia. La sociologia l’ha appreso in relazione alle borgate, alle favelas. Molti anni fa Franco Ferrarotti scriveva che il fotografo è come una sorta di flaneur mosso da un interesse che ne giustifica la presenza in certi luoghi. Le fotografie fanno parte, a suo modo di vedere, della ricerca sociale.

     

    Importanti, certamente, quelle scattate all’apertura di certi campi di sterminio, come documentazione preventiva: vista la loro esistenza, sarebbe stato impossibile negare la realtà dei campi.

     

    In questo numero abbiamo foto di ieri, foto di oggi. Scelte con particolare cura dagli autori, tali da rafforzare i testi. Foto di persone, foto di cose. In bianco e nero, le più vecchie. Altre, a colori. Tra le cose che qui rivivono, pagine importanti, oggetti che provengono da situazioni ormai per fortuna lontane. Tutte fotografie quindi, in vario modo, significative, piene di significati. Senza, la pubblicazione sarebbe stata certamente più povera.

     

    Per concludere

     

    Per concludere, vorrei in primo luogo ricordare che nell’Estate 2009 avevo già curato un numero di una rivista, in quel caso «La critica sociologica», sempre sui militari italiani finiti in prigionia: era il n. 170, e oltre al mio c’erano stati altri otto autori che avevano spiegato ai nostri abbonati le ragioni del No da molti pronunciato, la nascita dell’associazionismo nei lager. Anche qui si era trattato del tema della memoria, ineludibile per chi di queste cose si interessi, e si raccontavano le avventure di alcuni padri, si dava conto di alcune lettere scritte durante la prigionia. Un numero intenso, che ha lasciato un segno.

     

    Oggi, a distanza di tanti anni, torniamo con un numero speciale di una rivista di scienze sociali. Tra gli autori di allora ritroviamo oggi, oltre al Presidente Orlanducci, a Maria Giuseppina Eboli ed io stessa, altri autori: cosa che mi sembra positiva e importante, perché indica continuità (tre presenze che si ripetono nelle due riviste, due di persone più interne all’Anrp, come Orlanducci e me, una più esterna ma vicina per interessi, per la storia condivisa di un padre IMI, per amicizia, la Eboli); e, insieme, discontinuità, rinnovamento. Nuovi collaboratori sono apparsi, rispetto ad allora; nuove mete sono state raggiunte (lo chiarisce molto bene il pezzo di Rosina Zucco), nuova materia di riflessione viene porta ai vecchi e nuovi lettori. La tematica va avanti, si fa conoscere, allarga le proprie onde, raggiunge mete lontane. Lambisce persino isole che sembravano avere altri interessi.

     

    Vorrei ringraziare M@gm@ e il suo direttore che ci hanno offerto questa bella occasione di riflessione ma anche di condivisione con un più vasto pubblico, diverso rispetto a quello usuale dell’Anrp. Un fatto importante, credo, in un momento storico così difficile, in cui queste memorie sembrano scomparse, in cui sono al potere persone che non paiono avere consapevolezza delle tragedie vissute in Europa, dall’Europa. Per non dire in particolare dall’Italia. Si potrebbe, pensando all’Unione Europea, ipotizzare, e sarebbe ora, un unico esercito: ma il Ministro dell’Interno italiano, al contrario, ipotizza il ripristino, in Italia, del servizio militare obbligatorio. Un fatto anacronistico, che non credo troverebbe grandi consensi nello stesso ambito militare. E, a proposito, mi sembra doverosa un’ultima notazione: ho molto apprezzato la disponibilità del direttore Valastro a portare avanti la pubblicazione di questo numero speciale dedicato ai militari italiani finiti prigionieri durante la Seconda guerra mondiale. Lui, infatti, da giovane, quando lo avevo conosciuto nell’ambito di un master sulla memoria e la sociologia qualitativa, era decisamente contrario al servizio militare obbligatorio, con tutte le conseguenze del caso. Ha vissuto infatti vario tempo in Francia, ma prima e dopo, se non ricordo male, ha subito il carcere per le sue idee. Che oggi sia disponibile a pubblicare un numero sulle traversie di molti militari italiani, mi sembra encomiabile. E che l’Anrp gli abbia voluto affidare queste memorie e riflessioni, notevole. Forse, c’è, nonostante tutto, da ben sperare per il nostro paese.

     

    Bibliografia

     

    Corsini Gianfranco, Ferrarotti Franco, America duecento anni dopo, Editori Riuniti, 1975. Prefazione di Gore Vidal.

    Cresti Federico, Non desiderare la terra d’altri, Carocci, Roma, 2011.

    Ferrarotti Franco, Dal documento alla testimonianza: la fotografia nelle scienze sociali, Liguori, Napoli, 2016 (1974).

    Id., La tentazione dell’oblio, Laterza, Roma-Bari, 1993.

    Foa Anna, Andare per i luoghi di confino, Il Mulino, Bologna, 2018.

    Gazzini Mario, Zonderwater. I prigionieri in Sudafrica (1941-1947), Bonacci Editore, Roma, 1987.

    Macioti Maria Immacolata, Genocidi e stermini di massa Il Novecento a confronto, Guida Editore, Napoli, 2018.

    Macioti Maria Immacolata, Zaccai Claudia, Italiani in Sudafrica, Guerini, Milano, 2006.

    Macioti Maria Immacolata (a cura di), Conflitti, guerre civili, vittime e diritto internazionale,Roma, Mediascape, Edizioni ANRP, 2017.

    Morales, Non siamo rifugiati Viaggio in un mondo di esodi, Einaudi, Torino, 2018 (No somos refigiados, 2017).

    Pineau Gaston, Le Grand Jean Louis, Les histoires de vie, PUF, Paris, 1993.

    Salvatici Silvia, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2008.

    Todorov Tzvetan, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano, 2004.

     

    Note

    [1] La denominazione di IMI - Internati militari italiani -, adottata arbitrariamente da Hitler per i prigionieri italiani nel disprezzo delle norme di diritto internazionali, consentiva di sottrarli alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra e sfruttarli coattivamente come forza lavoro, cfr. Rosina Zucco.

    [2] Avevo condiretto in passato una ricerca sugli emigrati italiani, con le Acli. Tra le pubblicazioni che ne sono derivate, un libro mio e di Claudia Zaccai, Italiani in Sudafrica. Nelle storie di vita, nelle interviste raccolte sono tornati spesso anche i ricordi dei campi in cui erano stati internati gli italiani. Due specialmente, quelli spontaneamente emersi: Koffiefontein, nello stato libero di Orange, per cosiddetti internati civili e Zonderwater, dove nel febbraio 1941 giungono i primi 10.000 prigionieri. Arriveranno a 100.000. Tuttavia, grazie anche al Colonnello Hendrik Frederik Prinsloo, comandante del campo, questa si rivelerà una delle esperienze più positive. Scrive Gazzini (cfr.) che Zonderwater non era il paradiso, ma che, per chi veniva dall’inferno, poteva anche sembrarlo.

    [3] Lo sa purtroppo l’Italia fascista. Basti ricordare, come fa Federico Cresti nel suo libro Non desiderare la terra d’altri, i confinati alle Tremiti. Tema recentemente ripreso anche da Anna Foa, in Andare per i luoghi di confino. Scrive Anna Foa: «Durante la guerra di Libia, nel 1911, l’isola fu adibita al confino di oltre un migliaio di libici ostili alla conquista italiana, quasi la metà dei quali morirono di tifo. Solo due decenni dopo, l’isola diventava sede di una colonia di confino e tale restò durante il fascismo» (p. 74).

    [4] Ricca di esempi, la storia del confino.  Oggi, i campi si sono moltiplicati dati gli atteggiamenti e i comportamenti di chiusura dell’Europa nei confronti di migranti e richiedenti asilo. V. ad es, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, Non lasciamoli soli, riguardante Storie e testimonianze dall’inferno della Libia. Quello che l’Italia e l’Europa non vogliono ammettere. O il libro di Agus Morales, Non siamo rifugiati, in cui si parla dell’alto numero di persone sradicate. Il titolo, va da sé, è pesantemente ironico: non siamo rifugiati, si dice. Perché non ci sono riconoscimenti in merito. Di campi odierni si parla anche nel mio libro Genocidi e stermini di massa Il Novecento a confronto, in cui un capitolo è dedicato proprio ai campi, alle mura e ai fili spinati che separano e rinchiudono persone sgradite, vite spendibili.

    [5] Io ho una vecchia edizione fatta da Zanichelli nel 1997.

    [6] Cfr. Silvia Salvatici,2008.

    [7] Per le cifre in merito v. l’intervento introduttivo di Enzo Orlanducci.

    [8] Nicolò Carandini è inviato a Londra nel novembre 1944 come rappresentante del governo italiano presso il governo britannico, con rango di ambasciatore. Lascerà il 15 ottobre 1947, in un periodo in cui il PLI è ormai in crisi, in cui si parla di Unione Europea. Ma nel frattempo Carandini ha fatto molte cose, tra cui visite ai campi di concentramento dei prigionieri italiani in Scozia e in Inghilterra. Importante il suo ruolo anche nelle difficili trattative per il Trattato di pace. Importante il suo ruolo negli accordi De Gasperi-Grueber. Nel 1954 sarà capo delegazione nella trattativa con Jugoslavia, Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, per il porto di Trieste e il suo retroterra. Il suo nome si lega anche alla valorizzazione dell’azienda di Torre in Pietra, di cui si faranno carico i discendenti, in particolare Guido, noto e stimato studioso.

    [9] Ha lavorato fino al 2016, senza mai dimenticare quanto aveva vissuto. V. lo spettacolo Smemorando, del 2005, dato a Palermo e altrove, in cui si ricorda un compagno di prigionia ucciso dalle sentinelle perché, per lavarsi, aveva fatto il gesto di appoggiare la camicia sul filo spinato.

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