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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.2 Mai-Août 2017





    LA CURA UMANISTICA DELL’ANIMA

    Tullio Carere-Comes

    tucarere@gmail.com
    Nato a Firenze nel 1943. Psichiatra e psicoterapeuta, ha fondato la Dià - Associazione Dialogico-Dialettica e la Scuola di cura di sé di Bergamo, dove vive e lavora. È stato coordinatore per l’Italia della SEPI (Society for the Exploration of Psychotherapy Integration) dal 2000 al 2015. Ha pubblicato per le edizioni Lubrina La cura di sé nella relazione di aiuto (II ed., 2014), Il cammino del risveglio (2012), La scienza della cura dialogico-processuale (2013), La seconda nascita e la scienza originaria (2014), Entronauti d’Occidente (2015), Angeli e demoni (2016), La cura laica dell’anima (2017).


    The coincidence of opposites / Fire - Nicoletta Freti

    1. Introduzione [1]

    L’introduzione del neologismo psycheterapia, in cui la parola greca psyché – che vuol dire anima – sostituisce la traduzione italiana psiche, incluso il prefisso psico- in psicologia e psicoterapia, potrebbe aiutare a distinguere un campo di cure dell’anima diverse da quelle che la legge assegna, in Italia e altrove, alla competenza esclusiva di medici e psicologi. L’importanza di marcare questa differenza sta nel fatto che la psiche della psicologia accademica [2] è sempre più un prodotto della scienza empirica, che studia le proprietà riproducibili, misurabili e oggettivabili delle cose. L’ideologia che attribuisce unicamente a questa scienza il potere di produrre delle conoscenze valide, e nega ad altri approcci conoscitivi questo potere, si chiama scientismo. Secondo questa ideologia, lo stesso metodo che funziona bene per le scienze naturali deve valere, con piccoli aggiustamenti, anche per le scienze umane. Tuttavia, mentre possiamo porci di fronte agli enti naturali e studiarli come oggetti, non possiamo esaminare allo stesso modo noi stessi se non negando la nostra soggettività per entrare in un mondo di relazioni io-esso in cui non c’è posto per il tu, inafferrabile dalle scienze empiriche che trasformano in oggetti tutto ciò che toccano. Cosa che ha vantaggi innegabili nella sfera naturale, e anche qualche merito in quella umana. Per questo non è in discussione la legittimità di studiare la psiche anche con i metodi oggettivanti delle scienze naturali, ma solo la pretesa che tale studio sia in grado di cogliere, oltre a ciò che è statisticamente accertabile nei comportamenti dell’uomo, anche ciò che vi è di essenziale nella sua esperienza: l’intero ambito dei significati e dei valori. Galileo, uno dei fondatori della scienza moderna, era ben consapevole del fatto che il metodo matematico-statistico di studiare i fenomeni non era in grado di coglierne l’essenza (non tento le essenze, diceva): ma per conoscere i movimenti dei pianeti, e in generale tutte le qualità oggettivabili dei fenomeni naturali, quel metodo era necessario, anche a costo di sacrificare le qualità essenziali delle cose che in quel momento, e per alcuni secoli a venire, dovevano essere trascurate a favore dello sviluppo della scienza moderna – che infatti da lì in poi è avanzato impetuosamente trasformando il mondo, nel bene e nel male.

    È oggi sempre più diffusa la consapevolezza che la razionalità tecnico-scientifica non è in grado di salvare il mondo, nel senso di terra abitabile dall’uomo. Che l’umanità non possa continuare a vivere come fa attualmente è abbastanza chiaro a tutti, perché il pianeta non è più in grado di sopportare un così alto numero di umani così distruttivi gli uni con gli altri e verso l’ambiente. Ma che le soluzioni non possano essere semplicemente socio-politiche, e nemmeno solo ecologiche, e sia necessaria invece una profonda mutazione antropologica, non pochi cominciano a pensarlo. A favorire questa mutazione sono impegnati tutti coloro che sia professionalmente, sia nella rete delle loro relazioni interpersonali, recuperano il senso della parola greca psyché – anima – che è andato largamente smarrito a seguito dell’oggettivazione della psiche operata dalle scienze umane moderne e contemporanee. Mi riferisco all’approccio umanistico, dialogico-processuale, alla cura di sé o dell’anima, per contrasto con quello medico-psicologico, diagnostico-procedurale. Mentre il primo si fonda sul non sapere che apre lo spazio del dialogo, al cui interno si sviluppa il processo sempre unico e imprevedibile della cura, il secondo si basa sui saperi del curante, che applica – o pretende di applicare – le procedure la cui efficacia per la cura del disturbo diagnosticato è stata empiricamente provata. Tra i due approcci sono possibili e anche auspicabili diverse forme di sinergia, ibridazione o integrazione, purché non siano confuse o cancellate le rispettive aree di autonomia: mentre a questa cancellazione punta chi nella distinzione delle due aree vede solo una falsa dicotomia tra due parti di un’unica entità inscindibile – la psicoterapia. Al mantenimento di questa confusione contribuiscono per motivi opposti sia coloro che temono nella sottrazione dell’area umanistica alla gestione esclusiva di medici e psicologi una perdita di mercato, sia coloro che preferiscono tenersi stretto il piccolo sapere comunque acquisito piuttosto che inoltrarsi nello spazio inquietante del non sapere in cui si dispiega il vero dialogo.

    Almeno su un punto, tuttavia, non posso dare torto a coloro che mettono in dubbio lo statuto epistemico dell’area umanistica delle professioni di aiuto. L’etica di queste professioni impone di curare secondo scienza e coscienza: ma dov’è la scienza di chi rifiuta di sottomettersi ai canoni e alle regole della scienza moderna? A questa domanda si danno spesso risposte confuse o si offrono semplici petizioni di principio, come “la psicoanalisi è una scienza sui generis”. Perché l’affermazione di autonomia meriti di essere presa sul serio, occorre invece mostrare che anche la cura umanistica può e deve avere una sua base scientifica rigorosa: non certo di tipo empirico, quantitativo-sperimentale, poco adatto allo studio della soggettività, ma di tipo qualitativo-esperienziale. Invece di appellarsi a un generico e vago umanismo, l’approccio dialogico-processuale deve affrancarsi dal riduzionismo del modello medico-psicologico grazie alla descrizione fenomenologica della pianta che affonda le sue radici nella pienezza che la parola psyché aveva alle origini del pensiero occidentale, ha il suo tronco nella scoperta epocale di Freud e i suoi rami in tutte le pratiche che da quel tronco sono germogliate dal Novecento fino ai giorni nostri.

    2. Le radici

    Una cura che ha luogo all’interno di un contenitore religioso o ideologico applica le procedure previste dal credo di quella religione o ideologia in vista di un obiettivo che può essere la salvezza dell’anima, o la liberazione dalla sofferenza, o la dittatura del proletariato, o la scomparsa della fame dal mondo, o qualsiasi altro. Ma qual è il senso di una cura propriamente laica, cioè non religiosa e non ideologica? Che cosa può guidarla e orientarla, una volta che è stata abbandonata la guida offerta dalle religioni e dalle ideologie – inclusa quella dominante nel nostro tempo, lo scientismo – se non il logos, la logica del processo che si attiva nello spazio aperto dalla rinuncia a quei saperi? Questa rinuncia è resa possibile dalla fiducia che quello spazio vuoto non sia un buco nero mortifero e insensato, un puro nulla – credenza centrale di ogni nichilismo – ma sia invece un vuoto generativo di senso, un mistero abitato dal logos, che vuol dire una logica, una legge, una giustizia, la dike del filosofo pre-socratico Anassimandro che significa connessione, l’ordine in cui si dispongono le cose nel divenire del processo, l'eterna giustizia del nascere e del perire di tutte le cose. Questa fiducia trova espressione in psicoanalisi nella formula bioniana F in O (faith in O), fede nel processo che non potrebbe essere affidabile se non fosse abitato dal logos. L’idea è che se lasciamo andare le cose per il loro verso, senza interferire ma cercando per quanto ci è possibile di sintonizzarci con il loro movimento, mettendo in sordina tutte le aspettative di come le cose potrebbero o dovrebbero invece andare, tutte le idee di bene e di giustizia depositate nei nostri codici personali o collettivi, politici o religiosi, quello che si sviluppa sotto i nostri occhi non è una sequenza di eventi casuali e caotici, ma un processo dotato di un proprio ordine e di una propria logica. Giustizia è, osserva Heidegger (1950) ripensando la nozione greca di dike, lasciare che l’opera del tempo faccia il suo corso, senza contrastarla. Ingiustizia è, simmetricamente, l’opporsi a questa opera da parte di un soggetto mosso da una volontà di permanenza e di affermazione, di un io che non vuole tramontare. Il soggetto convinto della propria sostanzialità e ben deciso ad affermarla e a farla durare è la causa dell’ingiustizia e di tutti i mali che ne seguono.

    È interessante notare più che la somiglianza, l’identità tra la diagnosi di Heidegger e quella di Buddha: il male, inteso sia come dolore che come ingiustizia, prima come ingiustizia e poi come il dolore che ne è la conseguenza, deriva dal pervicace attaccamento a un’idea di sostanzialità e permanenza del sé. Sono diverse invece le indicazioni terapeutiche: per il Buddha la cura consiste nell’estinzione della brama di vivere che punta al nirvana, alla cessazione dell’opera del tempo che alimenta il ciclo delle rinascite; per Heidegger, al contrario, la giustizia si afferma nel mondo proprio grazie all’opera del tempo. Per il filosofo tedesco non esiste alcun nirvana, non c’è un essere al di fuori del divenire. Uscire dal tempo è un’illusione, come è un errore identificarsi con le manifestazioni temporali del tempo e non lasciarle andare, non lasciarle scomparire per lasciare il posto a nuove manifestazioni. Per capire bene che cosa intende Heidegger, ricorriamo alla metafora del mare e delle onde. Ogni singola onda emerge dal mare dell’essere nel quale poi si reimmerge al termine del suo breve ciclo vitale. L’oblio dell’essere, che per il filosofo segna tutta la metafisica dell’Occidente, consiste nel fatto che l’onda dimentica di provenire dal mare, di essere solo una piccola, effimera parte del mare, nel quale è destinata a ritornare. L’onda, preda di una sorta di delirio di permanenza, pretende di sussistere, non vuole tramontare, non vuole tornare nel grembo dell’essere, vuole continuare a esistere come onda, possibilmente nella sua forma migliore, quella che assume nel punto più alto del suo sviluppo. Non vuole cessare per lasciare il posto al sorgere di altre onde, nell’eterno, splendido e maestoso gioco del mare. Giustizia – o salvezza da tutti i mali prodotti dall’ingiustizia – è abbandonare il miraggio immaginario del soggetto autosussistente e impermanente e riconoscere la differenza ontologica – la differenza tra l’essere e l’ente, ovvero tra il mare e l’onda – e l’esser niente dell’onda al di fuori della sua appartenenza al mare. Mentre il Buddha sembra puntare a un mare eternamente pacificato, non più increspato da onde dominate dalla brama di continuare a vivere come onde e da questa brama spinte a rinascere indefinitamente, per Heidegger non c’è altra vita che quella di un mare perennemente ondoso, in cui potremo vivere in armonia se seguiremo il suo flusso senza ostacolarlo, senza cercare di fissare la forma dell’onda sottraendola alla precarietà del divenire. Il senso della cura, per come è stato per l’Occidente sin dall’inizio e come è tuttora, è certamente più vicino alla concezione del filosofo tedesco che a quella del Buddha. Vedremo tuttavia che anche dalla sapienza orientale derivano elementi che sono entrati nella concezione contemporanea della cura dell’anima.

    Anassimandro (alla cui nozione di giustizia si collega Heidegger) apparteneva alla scuola di Mileto il cui capostipite, Talete, affermava che l’acqua è l’essenza e il principio di ogni cosa. Pur essendo soggetta a eterno cambiamento, trasformandosi di volta in volta in vapore, ghiaccio, pioggia, neve, nuvola, fiume, lago, mare, l’acqua rimane sempre la stessa. Ora, che cosa accadrebbe se un cristallo di neve dimenticasse di essere solo una forma transeunte di acqua e pretendesse di avere in se stesso la propria origine ed essenza, proprio in quanto cristallo di neve? Avrebbe ragione di ritenere una cosa divina la sua forma, così bella, così perfetta. Ma avrebbe torto se pensasse che quella forma è destinata a durare intatta. Se non si scioglie subito, è solo perché è caduta in un posto dove nessuno la calpesta e dove la temperatura è abbastanza fredda da mantenerla in vita per qualche tempo, se le va bene fino a primavera. E avrebbe ugualmente torto se si affliggesse per la brevità e precarietà della sua vita, e della sua impotenza a proteggerla e prolungarla. Liberandosi di quella doppia illusione, sarebbe invece felice di essere uno splendido cristallo di neve per un momento, e poi di tornare ad essere acqua, per trasformarsi poi in ruscello, fiume, mare, nuvola, pioggia… Saprebbe di essere eterno e indistruttibile come acqua, e insieme capace di prendere forme magnifiche, per quanto transitorie, come un cristallo di neve o un lago alpino.

    Qual è dunque la differenza tra un cristallo di neve e un essere umano? Il primo è acqua al cento per cento, il secondo mediamente solo al sessanta. Grazie a quel quaranta per cento di non acqua, l’essere umano sviluppa una forma molto più complessa del cristallo di neve: un organismo capace di pensare, sentire e volere, che tuttavia non sempre usa le sue meravigliose capacità a vantaggio suo e del resto del pianeta. In particolare, le usa per fabbricarsi inganni e illusioni di ogni sorta come il piccolo cristallo di neve nemmeno lontanamente saprebbe. Per questo il fiocco di neve può godersi la sua effimera esistenza, per poi continuare la sua avventura passando ad altre forme (inclusa quella di far parte di un corpo umano, pagato con il successivo passaggio inglorioso in una fogna) libero da attaccamenti o rimpianti, mentre per contrasto l’essere umano è in genere assai poco libero di godersi la forma che ha per lasciarla andare quando è il momento e prenderne un’altra un momento dopo. Dovremmo pensare di essere uno spiacevole errore dell’evoluzione, se trascurassimo una differenza essenziale: l’acqua scorre felicemente da una forma all’altra, e non sembra offendersi nemmeno se le capita di restare per un po’ nella forma di acqua stagnante, semplicemente perché questa è la sua natura; mentre l’uomo è ciò che è solo in parte per natura, ma per un’altra parte, probabilmente prevalente, per sua scelta.

    In sostanza, un essere umano può decidere di farsi guidare da istinti e condizionamenti, non diversamente da qualsiasi altro animale, o in alternativa di prendere la distanze da tutte le istruzioni biologiche o culturali con le quali è stato programmato per farsi carico dei conflitti che dalla nascita in avanti lo tormentano più di qualsiasi altro essere vivente, invece di subirli sperando, di regola invano, che arrivi finalmente qualcuno a trarlo d’impaccio. Se non lo fa, è difficile che si sottragga all’oscillazione permanente tra l’incolpare la malvagità degli uomini o del destino per i suoi conti che non tornano, oppure se stesso, giudicato incapace o immeritevole di avere di meglio. In altre parole, l’uomo non può essere propriamente uomo se non prendendosi cura di sé, ovvero della sua psyché o anima. Da ombra o fantasma che essa era in epoca omerica, a scintilla divina prigioniera del corpo dove sconta una colpa originaria presso gli Orfici, a principio infinito della vita finita in Talete, Anassimandro e Anassimene a Mileto, si arriva all’anima cosciente grazie a un passaggio compiuto da Eraclito. Il filosofo di Efeso connette, sulla scia dei suoi predecessori, la psyché con il principio, che per lui coincide con il fuoco cosmico. Ma scoprendo la coincidenza di tale principio con il logos, inteso come la ragione che governa ogni cosa, anche la psyché diviene essenzialmente logica. Solo nel momento in cui l’essere umano trova in sé stesso non solo un principio infinito che lo affranca dalla chiusura nella finitezza, che pure gli appartiene – passo compiuto dai pensatori milesi – ma anche il logos, il principio cosmico che nell’uomo si fa pensiero e parola – passo che dobbiamo a Eraclito – sono poste le premesse per la cura di sé. Ma per un passaggio decisivo bisognerà attendere Socrate.

    È stata attribuita a Talete l’epigrafe gnothi sauton, conosci te stesso, incisa sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi. I Greci hanno dato due letture al celebre monito. Il primo è: conosci te stesso come mortale. Cioè, abbandona la tua hybris, l’arrogante superbia che ti fa credere di essere un dio. Rinuncia all’onnipotenza infantile che ti impedisce di percepire i tuoi limiti e di accettare la tua finitezza. Riconosci la tua forma mortale, e con questa la distanza abissale tra te e il dio. È il primo compito della conoscenza prendere coscienza di ciò che siamo diventati, di come abbiamo costruito la nostra personalità; delle strutture del nostro carattere, delle nostre abitudini, pretese, aspettative; delle forme che riconosciamo come nostre e di cui siamo chiamati a prenderci cura, e di quelle che non ci appartengono e ci conviene lasciare andare. Il secondo significato – conosci te stesso come immortale – viene logicamente, oltre che storicamente, dopo la prima, perché solo il soggetto umanizzato dalla realizzazione della propria finitezza e mortalità può procedere verso la scoperta di quel nucleo essenziale della psyché che coincide con il logos – equivalente occidentale dell’identità tra atman e brahman nel vedismo – senza confondere i due livelli, cosa che comporterebbe una ricaduta nella hybris o onnipotenza infantile.

    I modi opposti in cui Eraclito e Socrate hanno risposto al monito di Apollo hanno aperto i due canali che sono ancora oggi i capisaldi della cura di sé. Di Eraclito ha scritto Diogene Laerzio che «In gioventù sosteneva di non sapere nulla, ma giunto all’età matura affermava di sapere tutto. Non fu discepolo di nessuno, ma dichiarava di investigare sé stesso e di apprendere tutto da sé stesso». Eraclito era uno di quegli uomini che devono percorrere la loro strada in solitaria. Visse in completo e sdegnoso isolamento, creando in tal modo le condizioni per una introspezione estremamente fruttuosa. I frammenti che ci sono rimasti del suo insegnamento non cessano di essere una fonte inesauribile di ispirazione per chiunque, in ogni tempo, voglia conoscere sé stesso con il semplice metodo – nel senso originario di via – di guardare dentro di sé. Non abbiamo bisogno di cercare fuori, diceva in sostanza, se troviamo dentro di noi il logos: non un dio, in cui Eraclito non credeva, ma una ragione universale che governa tanto il mondo quanto la nostra mente. Lasciandoci guidare dal logos scopriamo che tutto è connesso, che la vita è attraversata da conflitti da cima a fondo ma non dobbiamo temerli, perché tendono in ultima analisi a risolversi in giustizia. Eraclito non aveva fiducia negli esseri umani, perché li vedeva addormentati nei loro sogni e nei loro miti e per nulla desiderosi di svegliarsi, ma aveva una fiducia incondizionata nel logos, la logica che presiede a tutto ciò che accade.

    Socrate si mosse in direzione opposta: volle percorrere la strada della conoscenza di sé sempre insieme agli altri, per quanto questi fossero riluttanti a seguirlo. Da quando l’oracolo aveva sentenziato che lui era l’unico sapiente, sentenza che lui aveva interpretato nel senso di essere l’unico a sapere di non sapere in un mondo in cui ognuno era convinto di sapere qualcosa di certo, fece sua quella che gli sembrava la missione affidatagli dal dio: scuotere tutti quelli che incontrava per indurli a mettere in discussione le loro certezze e mettersi a ragionare con lui su come prendersi cura della cosa più preziosa che sia data all’uomo, la sua anima. In sostanza, la visione dell’uomo di Socrate era simile a quella di Eraclito, nel senso che entrambi lo vedevano prigioniero del sonno pieno di sogni o dell’ignoranza piena di illusioni; ma d’altro canto era profondamente diversa, per la fiducia che Socrate nutriva nella capacità dell’uomo di risvegliarsi e prendersi cura di sé grazie al dialogo. Eraclito era un aristocratico. Sono pochissimi, pensava non a torto, coloro che hanno la forza e il coraggio di intraprendere il cammino di risveglio guardando in profondità dentro di sé. Socrate invece parlava con tutti, convinto com’era, anche lui non a torto, che il logos potesse mostrarsi a chiunque si aprisse al dialogo, sospendendo la certezza dei propri saperi. Per Eraclito l’armonia nasce dalla dialettica degli opposti come per Socrate la verità si rivela nell’apertura del dialogo. Sia il dialogo che la dialettica, parole derivate entrambe da logos, sono espressioni diverse del logos universale. I due filosofi gettano in tal modo per l’Occidente le fondamenta della cura di sé come processo dialogico-dialettico.

    I due fittoni, eracliteo e socratico, della radice occidentale della cura di sé affondano in un terreno ancora più originario. Di Socrate è stato detto che ha trasfuso una goccia di sangue sciamanico nella cultura greca a motivo del suo rapporto con il demone, equivalente greco dello spirito guida presso gli sciamani. Il demone è un intermediario tra gli uomini e gli dèi, come lo sciamano è un mediatore del sacro. Quello che per lo sciamano è il sacro, o il divino, per Eraclito è il logos, nel momento in cui riconosce la coincidenza del principio che governa il mondo con la ragione umana. Per l’anima greca il canale privilegiato per il rapporto con la realtà primaria non è più l’estasi, la cui ricerca sopravvive comunque marginalmente nei culti orfici e dionisiaci, ma il pensiero. Questo sviluppo senza precedenti del logos – in latino ratio, ragione – segna un passaggio decisivo nell’evoluzione della specie umana. Ma mentre il logos delle origini era quello di cui Eraclito poteva ancora dire Ascoltando non me, ma il logos, è saggio ammettere che tutto è uno, la trasformazione del logos in ratio – il passaggio da un pensiero dell’unità a un pensiero dell’oggettività – ha inizio con Aristotele e giungerà con Cartesio alla netta separazione della res cogitans-soggetto dalla res extensa-oggetto per approdare nella nostra epoca al predominio della ragione calcolante, la razionalità tecnico-scientifica che ha reso molti e preziosi servigi all’uomo, ma che è manifestamente incapace di prendersi cura della sua anima. Tutti quei servigi sono come tanti zeri che se messi in fila dall’uno dell’anima, per usare un’immagine di Ramakrishna, diventano ricchezza calcolabile in milioni e miliardi, ma in mancanza di quello non sono altro che una fila di zeri.

    3. Il tronco

    Socrate è stato il primo a dire, in Occidente, che il compito primario dell’uomo – non del filosofo o dello psicologo, ma di ogni uomo – è la cura dell’anima. Certamente Socrate non ha né inventato né scopertola cura dell’anima: una cura già praticata dagli sciamani, per cui si può dire che è sostanzialmente coeva all’uomo. Come osserverà Heidegger (1927), l’uomo è consegnato alla cura, la sua esistenza è inseparabile dalla cura: e certamente, al di là della cura del corpo e di tutte le cose legate alla sopravvivenza, la cura di sé, di ciò che l’uomo essenzialmente è – della sua anima – è sempre stata al centro delle sue cure (almeno fino all'avvento della moderna psicologia, in cui la pretesa di studiare scientificamente la psiche, sul modello delle scienze mediche, ha finito per obliterare l’anima). Socrate non ha inventato la cura dell’anima, ma le ha dato quella forma dialogica e dialettica che la rende accessibile a ogni uomo, affrancandola dal monopolio dei sacerdoti, eredi degli sciamani nelle culture storiche. Sono stati infatti i sacerdoti di Atene che hanno preteso la condanna a morte di Socrate, reo di aver liberato i cittadini dalla soggezione agli dèi della città.  È stato detto che Socrate, fondando la cura dell’anima come talking therapy, è stato il primo psicoanalista nel senso occidentale, laico, della parola. Il suo grande dono è stato la  trasformazione della cura in pratica laica, aperta a tutti e sottratta al possesso esclusivo dei chierici. È su questa base che Freud ha potuto costruire l’edificio della psicoanalisi moderna. Ma che cosa resta propriamente dell’anima, nel senso originario della psyché, nella psicoanalisi?

    Il mio primo maestro al tempo degli studi universitari fu Rudolf Steiner, che aveva una posizione di completo rifiuto nei confronti della psicoanalisi. Vi vedeva una pratica che rispondeva a un bisogno epocale di conoscenza scientifica dell’anima, ma in modo improprio e anzi pericoloso, dal momento che secondo lui la psicoanalisi non aveva la minima idea di che cosa fosse in realtà l’anima: e questo valeva non solo per Freud, ma anche per Jung, che pure era accusato da parte freudiana di aver preso una deriva spiritualista (Steiner, 1990). Su un versante opposto, in un libro intitolato Freud e l’anima dell’uomo, Bettelheim (1982) si è proposto di mostrare che Freud era «un umanista nel senso migliore del termine», e che il suo interesse più grande era l’essere più profondo dell’uomo, cui molto spesso faceva riferimento con il termine anima. In esergo il volume riporta una frase di Freud tratta da una lettera a Jung: «La psicoanalisi è essenzialmente una cura attraverso l’amore». Secondo Bettelheim la traduzione inglese delle opere di Freud, la Standard Edition, tradisce questo aspetto essenziale della psicoanalisi. Non solo la parola anima è sparita, sostituita da mente, ma in generale il lato più umano di Freud è cancellato, coperto da una facciata freddamente scientifica. Naturalmente Steiner leggeva Freud nell’originale tedesco, e quindi per lui questo tradimento non poteva esistere. Semplicemente, Steiner vedeva in Freud una seria mancanza di anima, mentre per Bettelheim l’anima era proprio l’essenza dell’impresa freudiana, che era stata smarrita attraversando l’Atlantico (cioè nella traduzione inglese ufficiale) ma era ben presente e viva nel testo originale.

    Due visioni così diametralmente opposte si possono spiegare con il fatto che Freud aveva effettivamente due lati, o due “anime”, corrispondenti all’insegnamento dei suoi due maestri principali: Brentano, fenomenologo, e Brücke, fisiologo positivista. Bisogna dire che Freud si è identificato soprattutto col secondo, e ancora poco prima di morire ribadiva che il suo più grande maestro era stato Brücke. Freud ha sempre amato presentarsi soprattutto come uno scienziato, e non è un caso che una frase come quella citata in esergo da Bettelheim si trovi in una lettera privata. Non l’avrebbe mai scritta in un lavoro scientifico. Steiner aveva ben ragione di notare che Freud mancava completamente il bersaglio nella parte più visibile della sua opera, cioè nell’idea che l’anima dell’uomo, la sua profondità, non fosse altro che un groviglio di conflitti pulsionali, e che la cura di conseguenza consistesse nel portare alla coscienza, tramite interpretazioni, questi contenuti rimossi. Ma c’era un altro Freud, e per trovarlo occorreva leggere tra le righe dei suoi scritti: il Freud fenomenologo, allievo di Brentano, che raccomanda all’analista «la disponibilità a lasciarsi sorprendere ad ogni svolta… con una mente aperta, libera da ogni preconcetto» (Freud, 1912). Giustamente Steiner avvertiva che l’anima dell’uomo si trova nel non sapere, nella sospensione di ogni teoria, e non nel sapere delle teorie. Tuttavia non seppe leggere tra le righe e non si rese conto che quel vuoto in cui abita l’anima era implicito nel testo freudiano, ma sarebbe diventato esplicito in altri analisti, a partire dalla seconda metà del secolo. Esemplare, in questo senso, l’esortazione di Bion a entrare nella stanza di analisi senza memoria e senza desiderio.

     

    Lawrence Friedman (1997) ha scritto: «Se il trattamento non è altro che l'applicazione a un certo paziente di una teoria analitica qualsiasi che stia passando per la testa di un certo terapeuta in un certo momento, allora tutto il mio metodo perde di senso». Se tuttavia si è giunti a dire che le psicoanalisi sono tante quanti sono gli analisti nella stanza, è perché per la maggioranza degli analisti l’adesione a una teoria analitica qualsiasi, con le caratteristiche tecniche che ne derivano, è più importante di ciò che nella cura non dipende dalla teoria e dalla tecnica che passi per la testa e per le mani di un certo terapeuta in un certo momento. Ora il fenomeno della polverizzazione della psicoanalisi in una miriade di pratiche diverse può essere osservato da due angoli visuali diversi. Dal primo vediamo che non c’è niente di male in questa proliferazione infinita: anzi è una buona cosa che l’analista non applichi rigidamente il metodo che ha imparato, ma a poco a poco si costruisca un modo di lavorare che incorpori in modo individuale i principi teorici e tecnici che sono più affini ai suoi talenti e al suo modo di sentire. È l’aspetto creativo o artistico della cura, che funziona tanto meglio quanto più il terapeuta si sente a proprio agio in uno stile di lavoro che riflette il suo carattere, le sue risorse, il suo modo di essere unico e inconfondibile. Da un secondo angolo visuale, tuttavia, osserviamo che questa identificazione dell’analista con un particolare assetto teorico-tecnico fa molto spesso perdere di vista ciò che Freud, e altri dopo di lui, non hanno inventato, ma scoperto: ciò che permette di dire che, al di là delle preferenze teoriche e tecniche, la cosa che l’analista fa è ancora psicoanalisi.

    La terapia analitica non può essere, osserva giustamente Friedman, qualcosa che deriva semplicemente dall'applicazione di una teoria qualsiasi (cosa che la renderebbe irrimediabilmente arbitraria), ma qualcosa che accade, e quindi è osservabile, nella situazione di trattamento. Ciò equivale a dire che il trattamento ha una sua logica interna, che determina la struttura osservabile. Si può partire da dove si vuole, anche dall'ipnosi, come ha fatto Freud. Ma se ci si lascia guidare dalla logica del processo, invece che dal desiderio di ottenere qualcosa (ricordi rimossi, catarsi o qualsiasi altra cosa), si approda a una struttura essenziale della relazione, cioè a un insieme di proprietà che si riscontrano regolarmente in ogni pratica di cura, indipendentemente dall’apparato teorico-tecnico del curante. Si può obiettare che ogni terapia, in quanto prodotto culturale, è anche e ovviamente una costruzione che dipende da certe premesse e da una determinata visione del mondo. Ma tutto questo non intacca la sostanza dell'osservazione di Friedman, perché se non esistesse un nucleo essenziale, o una struttura invariante alla base di ogni relazione di cura autentica, cioè non fondata su suggestione o manipolazione, ogni discorso sulla psicoanalisi cadrebbe nell'insignificanza per mancanza di referente reale, e le teorie psicoanalitiche/psicoterapeutiche sarebbero di fatto indistinguibili dalla miriade di culti che si contendono il mercato della cura delle anime.

    Di questa struttura essenziale Friedman evidenzia due elementi: la “caccia alla verità oggettiva” e l’“atteggiamento oppositivo” (adversarial attitude). Lasciando da parte per il momento la questione dell’oggettività, non c’è dubbio che la ricerca della verità sia al centro della cura psicoanalitica, una ricerca che è simile a una caccia dato il carattere elusivo della verità che è inseguita. Questa ricerca è resa possibile dall’alleanza di lavoro tra analista e paziente che si trovano dallo stesso lato dell'impresa, come due scienziati in un laboratorio. D’altra parte, tra l’analista e il paziente vi è inevitabilmente conflitto, dal momento che il primo deve confrontare l’altro con verità dolorose da accettare. Questi due elementi – ricerca della verità e lotta alle resistenze che ad essa si oppongono – appartengono in modo essenziale alla struttura dell’esperienza analitica. La logica di Friedman è di tipo lineare (A≠non-A), appropriato a descrivere un lato della cosa: quello illuminato dal modello psicoanalitico classico. Tuttavia, per descrivere l’intero occorre applicare una logica dialettica, in cui una cosa è ciò che è solo per contrasto con ciò che non è: l’intero è la sintesi di una cosa e del suo opposto, in cui è superata l’illusione della loro separatezza. L’opposto dell’opposizione è l’accettazione, che include validazione e rassicurazione: l’atteggiamento che è bandito dal modello classico, ma è centrale nel modello relazionale di psicoanalisi. Secondo Wachtel (2008), l’accettazione empatica dell’esperienza del paziente, compresa ora come il modo fondamentale di vincere l’ansietà derivante da auto-negazione e dissociazione, è la chiave della svolta relazionale in psicoanalisi.

    Contro la proliferazione delle teorie, il ricercatore fenomenologico è interessato ad approfondire l’esplorazione della cosa scoperta da Freud, una esplorazione che getta luce in primo luogo sulla polarità di accettazione e confronto nella relazione analitica. La consapevolezza di questi due fattori aiuta lo psicoanalista a cercare la loro combinazione ottimale nella situazione clinica momento per momento. Nella stessa logica dialettica il secondo fattore di Friedman, la caccia alla verità oggettiva, è inserito in un’altra polarità. La verità oggettiva è la verità degli oggetti, e gli oggetti di cui si occupa la psicoanalisi sono il prodotto di processi di auto-oggettivazione, in primo luogo. Come Laplanche (1995), tra gli altri, ha fatto notare, l’interpretazione è soprattutto quella dell’inconscio, nel senso che è l’inconscio che interpreta. L’interpretazione è primariamente un’operazione difensiva: il lavorio incessante con il quale la mente struttura, in modo principalmente inconscio, l’identità del sé, nella forma di fantasie, narrative, schemi emozionali, copioni comportamentali. Nella misura in cui queste interpretazioni si fissano e diventano i mattoni con cui si costruisce l’identità del sé, esse sono gli oggetti in cui il soggetto aliena sé stesso. In altre parole, la verità oggettiva è la verità del falso sé. Nel modello classico la ricerca della verità consiste basilarmente nello smascheramento del sé alienato. Ma un falso sé è tale solo per contrasto con un vero sé, come una difesa implica ovviamente la cosa che viene difesa. La verità oggettiva dell’ego è minacciata da una verità più profonda, di cui si può fare esperienza ma che non può essere oggettivata (come nel taoismo il tao che può essere detto non è il vero tao). La seconda polarità, dunque, è quella tra il conoscibile e l’ignoto, due dimensioni simbolizzate da Bion (1970) con le lettere K e O. O è l’(O)rigine, la realtà primaria perduta e dimenticata nell’assunzione di un’identità separata. Nel pensiero di Heidegger è l’essere il cui oblio segna tutta la metafisica dell’Occidente. Come Bion ha fatto notare, l’analista si muove tra K, (K)nowledge, e O, alternandosi tra le funzioni dello scienziato e del mistico.

    Il campo base della psicoanalisi può essere rappresentato graficamente da una mappa in cui i vertici A (per Accettazione) e C (per Confronto) sono collegati da un asse orizzontale, e i vertici O e K da un asse verticale. Essendo l’accettazione una funzione tipicamente materna, come il confronto è tipicamente paterno, l’analista si muove sulla linea orizzontale in risposta ai bisogni evolutivi fondamentali del soggetto di essere accettato incondizionatamente da un lato, e di essere confrontato con qualsiasi cosa di cui abbia bisogno di prendersi la responsabiità dall’altro. Sull’asse verticale l’analista risponde ad altri due bisogni evolutivi cardinali: quello di conoscere tutto ciò che deve essere conosciuto, e quello di aprirsi all’esperienza di una verità che non può essere conosciuta ma solo vissuta: come Bion osserva, la verità di K consiste in una trasformazione di O, mentre alla verità di O si accede nella dimensione dell’essere e non in quella del conoscere. Quando si trova nel vertice O, l’analista “diventa infinito”, cioè attraversa temporaneamente il confine che separa ogni essere vivente dalla Vita, ogni singolo ente dall’Essere. In questo stato di (relativa) non separatezza i confini abituali della realtà e dell’identità sono sospesi e si apre uno spazio transizionale in cui l’analista è connesso internamente con la sorgente inconscia di ispirazione e creatività ed esternamente con il paziente come partner del gioco creativo e generativo.

    In conclusione, l’analista si muove tra, o combina, quattro funzioni cardinali, rappresentate dalle figure della madre e del padre sull’asse orizzontale e dello scienziato e del mistico-artista su quello verticale. Il modello a quattro vertici è un’espansione dialettica dei due fattori base di Friedman, a includere i due lati che erano solo impliciti nel modello classico, ma sono stati resi espliciti da analisti come Rank, Ferenczi, Fairbairn, Winnicott, Bion, Lacan, Kohut, Loewald, Mitchell, tra gli altri. L’allargamento della prospettiva è richiesto dalla dialettica dell’interazione. Infatti, se il clima della relazione è troppo oppositivo, e non abbastanza accogliente e rassicurante, il paziente può reagire con un rafforzamento della resistenza. Similmente, un’enfasi eccessiva sul vertice K, non bilanciata dall’interazione spontanea e generativa nel vertice O, può dare alla relazione un carattere epistemofilico, tendenzialmente ossessivo, che a sua volta favorirebbe l’insorgere di resistenze iatrogene. Se la cura è troppo simile a una caccia, e troppo poco a un gioco, non è improbabile che il paziente finisca per sentirsi braccato, specialmente se è già predisposto in questo senso – cosa che confermerebbe la predisposizione.

    4. I rami

    La questione posta da Friedman – se Freud abbia scoperto o inventato la psicoanalisi – apre due strade, a seconda della risposta che diamo alla domanda. Entrambe le opzioni sono legittime, naturalmente, perché Freud ha fatto entrambe le cose. Non si tratta quindi di decidere quale sia la risposta giusta, ma quale delle due strade vogliamo imboccare: quella della ricerca fenomenologica, o quella della scienza empirica. Nel primo caso puntiamo sull’idea che ci sia qualcosa da scoprire: una cosa che ha una sua essenza o una sua logica intrinseca che si mostrano o appaiono nel modo più evidente allo sguardo scevro da pregiudizi dell’osservatore – è lo sguardo del fenomenologo, quello di Freud che raccomanda la «disponibilità a lasciarsi sorprendere ad ogni svolta… con una mente aperta, libera da ogni preconcetto». Nel secondo caso non si tratta di liberare la visione da tutto ciò che la offusca per poter vedere tutto ciò che si offre allo sguardo, ma al contrario di ricavare dall’osservazione ogni sorta di teorie, per poi verificarne o falsificarne la validità nell’esperimento. Freud ha sempre rifiutato la strada della verifica empirica delle sue teorie, e per questo è stato detto e ripetuto molte volte che la psicoanalisi non è una scienza. A partire dagli ultimi decenni del Novecento, tuttavia, sotto l’incalzare delle psicoterapie basate sulle evidenze, e a seguito di una grave perdita di prestigio della psicoanalisi in America, dove ha finito per essere espulsa da tutte le facoltà scientifiche universitarie, una parte consistente del movimento  psicoanalitico si è arresa allo spirito del tempo e, accettando la competizione con le terapie cognitivo-comportamentali, si è impegnata nella dimostrazione empirica che le terapie psicoanalitiche sono altrettanto se non più efficaci delle altre.

    Per capire il senso di questa resa, occorre tener presente che lo spirito del tempo è ancora largamente condizionato dal paradigma neopositivistico di Reichenbach, secondo il quale dal contesto della scoperta non si ricavano conoscenze di per sé valide, ma solo ipotesi da mettere alla prova empirica nel contesto della verifica. Se si accetta questo paradigma, è giocoforza seguire le stesse regole che valgono per la medicina: formalizzare le procedure, verificarne sperimentalmente l’efficacia per determinati disturbi, e quindi applicarle in modo protocollare nella cura dei disturbi per i quali sono state dimostrate efficaci. Vuol dire adottare il modello medico diagnostico-procedurale, all’interno del quale la psicoanalisi è una delle tante psicoterapie da prescrivere nei casi in cui è indicata. La maggior parte degli psicoanalisti è comprensibilmente riluttante ad accomodarsi nei canoni del modello medico, e tuttavia per evitare di mettere in discussione la validità delle teorie da cui dipende la loro identità professionale – e che fanno di loro un analista freudiano, junghiano, lacaniano o altrimenti – continuano ad alimentare il seppur logoro mito che la psicoanalisi è una “scienza sui generis”: cosa che serve solo a evadere la questione e a rafforzare l’immagine di una pseudo-scienza agli occhi degli avversari.

    Io non vedo altro modo di uscire da questa impasse se non quello di ammettere, a fianco e in alternativa al modello medico diagnostico-procedurale (psicoterapeutico), il modello umanistico dialogico-processuale (psycheterapeutico). La sostanziale differenza tra i due consiste, come ho già ricordato, nel fatto che il primo è un tipo di cura governato dai saperi del curante, mentre il secondo è governato dal processo che si attiva nello spazio di non sapere aperto dalla relazione dialogica. Nell’uno il ricercatore clinico può solo costruire teorie la cui validità dovrà essere confermata dal ricercatore empirico, che consegnerà poi al clinico delle procedure che questi sarà tenuto a prescrivere nei casi indicati. Nel secondo il ricercatore clinico è lui stesso uno scienziato: un cartografo che disegna mappe, o corregge o migliora le mappe esistenti. Le mappe non prescrivono, ma descrivono il territorio esplorato. Servono al clinico per orientarsi nel campo della cura: una mappa non dice al viaggiatore dove deve andare, ma lo aiuta a decidere dove vuole andare, o dove il processo in un momento dato suggerisce che si vada. L’analista o terapeuta dialogico-processuale è poi uno scienziato locale anche nel senso che trasforma tutto ciò che emerge nel corso del processo in ipotesi interpretative che non sono da consegnare al ricercatore empirico per una verifica sperimentale, ma sono messe continuamente alla prova esperienziale all’interno del processo stesso. La sostanziale differenza tra i due modelli consiste dunque nel fatto che la scienza dello psicoterapeuta è empirica, la stessa delle scienze naturali, mentre quella dello psycheterapeuta è umana, fenomenologico-ermeneutica – non c’è bisogno di essere medici o psicologi per praticarla.

    Dedichiamo ora un rapido sguardo ai contributi che sono stati dati lungo l’arco del Novecento alla psicoanalisi e alle pratiche che da questa sono direttamente o indirettamente derivate, a partire dalla scoperta epocale di Freud. Per questo, è opportuno tornare ancora una volta alla domanda: che cosa ha veramente scoperto Freud? Il suo grande merito è di avere ri-scoperto la talking therapy, già scoperta oltre due millenni prima da Socrate. Due (o più) interlocutori si incontrano ripetutamente con l’obiettivo di dedicarsi alla cura dell’anima attraverso l’esercizio del dialogo. Certamente, la dialettica martellante di Socrate è diversa dall’ascolto analitico, punteggiato da interventi rari e discreti. Ma i due modi di interloquire meritano entrambi di essere detti dialogici in quanto sono accomunati dall’impegno a mettere in sospensione tutto ciò che da entrambe le parti si crede di sapere per fare emergere, nello spazio così liberato, la verità su di sé che quella presunzione occludeva. Conosci te stesso è il monito delfico fatto proprio tanto da Socrate quanto da Freud. La ricerca della verità – il primo fattore di Friedman, il vertice K del campo base della cura – orienta entrambe le imprese dialogiche. Lo stesso si può dire del secondo fattore, il vertice C della nostra mappa: il confronto implacabile con la parte del sé che rimane aggrappata a ciò che crede di sapere e si difende tenacemente da ciò che non vuole sapere. Ma allora che cosa ha scoperto di veramente nuovo Freud? Forse di completamente nuovo nulla. È stato osservato che tutti i caratteri distintivi della seduta analitica si trovano già nella seduta sciamanica (Lewis 1971). Uno psicoanalista potrebbe ribattere che in quel setting primitivo ha luogo il tipo di psicoterapia che è sempre stato esercitato, con poche varianti, dai tempi più antichi fino a Freud. Ciò che manca, in quella pratica, è precisamente ciò che Freud vi ha introdotto: l’analisi delle resistenze e del transfert. Anche lo sciamano compie un certo lavoro analitico, ma in modo abbastanza rudimentale. Resistenze e transfert ci sono sempre stati, e in un modo o nell’altro sono sempre stati trattati. Ma farne oggetto di analisi sistematica, in un setting appositamente predisposto per favorire questo tipo di lavoro, non era venuto in mente a nessuno prima di Freud. E’ dunque giusto affermare che il genio di Freud ha rivoluzionato una pratica che era rimasta sostanzialmente immutata per millenni.

    D’altra parte, la scelta di orientare la cura intorno all’analisi del transfert e delle resistenze deve essere considerata più un’invenzione che una scoperta di Freud. Così come la scelta di dare nel corso di questa analisi un’attenzione privilegiata, se non esclusiva, al conflitto inconscio radicato nella sessualità infantile, e in particolare a quello che ha origine nella fase edipica dello sviluppo psicosessuale, è un’altra invenzione di quel genio, che ha sicuramente contribuito al successo straordinario e planetario della sua creatura. Di conseguenza, alla domanda di Friedman se Freud abbia scoperto o inventato la psicoanalisi, bisogna rispondere: entrambe le cose. Freud ha scoperto l’importanza della sessualità infantile nella genesi dei disturbi nevrotici e ha inventato una cura finalizzata al trattamento di quei disturbi, nella misura in cui sono radicati nei conflitti inconsci originati da quella fase evolutiva. Così facendo, ha messo in sordina la (ri)scoperta della cura dell’anima come pratica dialogica per dedicarsi allo sviluppo della cosa da lui inventata, proteggendola con grande determinazione da tutte le scoperte che altri analisti via via stavano facendo e che minacciavano di contaminare la purezza della sua invenzione. In particolare, quelle di Adler, Jung e Rank, i più originali tra i suoi primi collaboratori, rischiavano di allargare il campo della cura ben oltre i confini che definivano la psicoanalisi freudiana. L’inconscio non era più solo il luogo del rimosso, il serbatoio dove erano confinate tutte le esperienze inaccettabili per la coscienza, ma una dimensione carica di potenzialità creative e progettuali. Ciò che veniva trasferito sulla relazione di cura non erano solo fantasie anacronistiche da riconoscere e abbandonare, ma anche desideri vitali e bisogni evolutivi alla ricerca di risposte relazionali appropriate. Di conseguenza l’analista non poteva più restarsene al sicuro dietro uno schermo bianco o uno specchio riflettente, ma era chiamato a uscire allo scoperto con una modalità interattiva di relazione, come gli analisti relazionali si sono sempre più mostrati inclini a fare nella seconda metà del secolo. Poiché tutto questo era inaccettabile per Freud, i suoi collaboratori più innovativi furono costretti a lasciare l’istituzione psicoanalitica in cui il maestro si era rinchiuso, circondato unicamente da discepoli devoti e fedeli.

    Questo era lo stato dell’arte della psicoanalisi finché Freud era vivo. Con la sua scomparsa venne meno la figura dotata del potere assoluto di stabilire che cosa è e che cosa non è psicoanalisi ed ebbero inizio le lotte intestine nell’istituzione, a cominciare dalla bega tra le due grandi dame, Anna Freud e Melanie Klein, per sfociare nella situazione denunciata anni dopo da Kohut, in cui diversi gruppi psicoanalitici si disprezzavano e si facevano la guerra l’un l’altro. Della stessa frammentazione soffriva del resto tutto il campo delle psicoterapie, sommariamente diviso in tre parti: psicoanalitica, cognitivo-comportamentale e umanistica. La divisione fu la conseguenza della scelta antiumanistica e antirelazionale della psicoanalisi ortodossa che portò all’emarginazione e all’espulsione dal mainstream di tutti gli analisti che non si adeguavano, e successivamente alla proliferazione di scuole non analitiche a loro volta divise nelle due aree umanistica e cognitivo-comportamentale. Esemplare in questo senso il destino di Otto Rank, che a differenza di Adler e Jung non volle fondare una sua scuola ma fu considerato da Rollo May e da Carl Rogers come il precursore più importante della psicoterapia esistenziale, della terapia centrata sulla persona e del counseling. Il suo approccio basato sull’interazione terapeuta-paziente nel qui e ora influenzò inoltre la nascita della terapia della Gestalt e dello psicodramma.

    La diaspora delle psicoterapie è stata la conseguenza inevitabile della scelta di Freud di privilegiare l’orientamento teorico-procedurale a scapito di quello dialogico-processuale. Oggi tuttavia la divisione nelle tre aree tradizionali non ha più motivo di essere, sia per il diffondersi degli orientamenti integrativi, nei quali il terapeuta lavora a tutto campo combinando liberamente elementi tratti dalle scuole più diverse, sia perché è sempre più chiaro che la divisione tra approcci umanistici e medico-psicologici non è verticale (tra scuole o gruppi di scuole) ma orizzontale, nel senso che attraversa tutte le scuole e tutte e tre le aree in cui il campo è stato tradizionalmente diviso. È paradigmatico il caso di Carl Rogers, il cui metodo da un lato deriva direttamente dalla psicoanalisi di Otto Rank, dall’altro si colloca nel solco dei fattori comuni inaugurato da Rosenzweig (1936). Poiché questi fattori si attivano grazie al processo della cura, indipendentemente dalle teorie e tecniche del terapeuta, sono soprattutto questi che debbono essere descritti da una mappa della cura dialogico-processuale. E infatti questo Rogers cercò di fare. Aveva descritto tre principi base della cura processuale – la considerazione positiva incondizionata, la comprensione empatica e la congruenza o autenticità – ma un semplice elenco di principi, ricavati intuitivamente, non poteva bastargli. Giustamente cercò di andare oltre, ed ebbe l’ambizione di rendere la terapia «un processo basato su principi conosciuti e testati, con tecniche testate che mettessero in pratica quei principi» (Migone, 2008a).

    Cerchiamo di capire l’esigenza di Rogers. Un semplice elenco non può bastare a uno scienziato. Si pensi agli elementi atomici: elio, potassio, sodio, rame, zinco... Che soddisfazione quando Mendeleev riuscì a ordinarli nella sua celebre tavola. Questa sì che è una mappa, ben diversa da un semplice elenco. Per ottenere un risultato simile, Rogers cercò di trasformare i suoi tre principi in fattori riconoscibili come tali nello sbobinato delle sedute e misurabili. Fece esattamente quello che hanno fatto dopo di lui tutti i ricercatori empirici: cercò di isolare nel flusso della comunicazione tra paziente e terapeuta dei fattori discreti, proprio come la ricerca farmacologica punta a isolare il fattore attivo da una miscela di sostanze estratte da una pianta medicinale, nella convinzione che il fattore terapeutico sia quel principio isolato, e non la particolare miscela di sostanze estratte dalla pianta. Per questo motivo la ricerca empirica in psicoterapia ricalca, se pure un po’ maldestramente, quella in medicina, e ha puntato sin dall’inizio a un modello medico della psicoterapia: un tipo di cura in cui si somministrano delle tecniche scientificamente testate proprio come in medicina si somministrano farmaci.

    La ricerca empirica si collega necessariamente al modello medico, e questo è naturalmente prescrittivo. Se tuttavia oggi la prescrittività viene tendenzialmente abbandonata a favore dell’alleanza e dello sviluppo di un processo terapeutico (Blasi e Rossi Monti, 2013), è semplicemente perché si è dimostrata un approccio poco efficace. L’applicazione di tecniche manualizzate va bene per la ricerca empirica, ma trasposta nella pratica clinica reale porta a trattamenti stereotipati e disumanizzati (che comunque per molti pazienti e terapeuti possono essere una scelta migliore della semplice somministrazione di pillole). Anche in questo Rogers fu un pioniere, se pure inconsapevole. Il suo tentativo di formalizzare i principi della cura trasformandoli in tecniche standardizzate portò solo a un impoverimento e uno snaturamento del suo metodo (Migone, 2008a). Del resto è ben noto questo paradosso: «Più una ricerca è ben fatta, meno è utile al clinico, nel senso che il rigore metodologico richiesto dalla sperimentazione allontana troppo quella psicoterapia dalla pratica clinica quotidiana, che necessariamente è ben poco rigorosa ed è "inquinata" da mille fattori poco controllabili» (Migone, 2008b).

    Rogers aveva ragione di non accontentarsi di un semplice elenco di fattori, ma il desiderio di veder riconosciuto il suo metodo dalla comunità scientifica lo portò a snaturarlo per adeguarlo alle regole della ricerca empirica. Si allontanò pertanto dal suo originario approccio fenomenologico – che, per inciso, gli avrebbe permesso di costruire delle mappe di migliore qualità – e sottomettendosi allo spirito del tempo scelse anche lui, come Freud, di privilegiare la sua anima teorico-procedurale a scapito di quella dialogico-processuale. A differenza di Freud, bisogna dire che Rogers fu consapevole della necessità di adottare le regole della ricerca empirica per ottenere la patente accademica di scientificità che a Freud fu negata (ma non pochi analisti oggi, se pure tardivamente, si sono accomodati nel solco aperto da Rogers). A parte questa differenza, troviamo in Rogers lo stesso conflitto tra le due anime che aveva travagliato Freud, risolto da entrambi sostanzialmente allo stesso modo, con la produzione di due diverse psicoterapie. La loro scelta, condivisa oggi da gran parte dei terapeuti, è legittima, e anzi obbligata per chi non vuole mettersi in urto con lo spirito del Novecento – che tuttavia non è più quello che soffia nel nuovo millennio. La direzione che questo nuovo e insieme antico spirito sembra indicare, per uscire dall’impasse in cui l’egemonia delle scienze dure ha spinto l’uomo del nostro tempo, è quella di restituire la priorità all’approccio umanistico, dialogico-processuale, psyche- e non psicoterapeutico: lo spirito che governa la cura dell’anima indicata da Socrate all’Occidente, per contrasto con la cura senz’anima del modello medico-psicologico ai cui metodi oggettivanti l’anima si sottrae inesorabilmente. Questa scelta, aleggiante nel vento del nuovo umanesimo che sempre si fa sentire nei momenti di crisi, spinge al recupero di una forma di psicoanalisi umanistica e laica, liberata dal guscio psicoterapeutico in cui Freud l’aveva rinchiusa immaginando in tal modo di proteggerla. Un discorso analogo vale non solo per la terapia rogersiana e le altre terapie cosiddette umanistiche, ma anche per quelle di impianto cognitivo-comportamentale, attualmente aperte all’integrazione di pratiche meditative buddhiste o di altre tradizioni orientali spesso più di quanto avvenga nelle altre due aree.

    Note

    [1]Ho attinto liberamente, nella composizione di questo articolo, al materiale dei seminari che ho tenuto presso la Scuola di cura di sé, di cui l’editore Lubrina di Bergamo ha pubblicato finora sette volumi, oltre che ad alcuni lavori elencati in Bibliografia (Carere Comes 1999, 2000, 2001, 2005, 2012, 2013, 2014a, 2014b, 2015a, 2015b, 2015c, 2016, 2017).

    [2]Prendo atto della sanitarizzazione che ha colpito e snaturato la psicologia accademica e ordinistica come di un dato di fatto di cui occorre tener conto. Per la storia e la problematica di questa sanitarizzazione, rinvio all’articolo di Rolando Ciofi, in questo stesso numero.

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