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  • Journalisme narratif
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (sous la direction de)
    Numéro monographique publié avec le parrainage de l'Ordre des Journalistes de Sicile

    M@gm@ vol.13 n.1 Janvier-Avril 2015



    ADDIO NANDO ORFEI, UNO DEI PADRI DEL CIRCO

    Francesco De Filippo

    francedefilippo@gmail.com
    Giornalista Agenzia Ansa dal 1986, è stato corrispondente per il Sole 24 Ore, scrittore e saggista, vive a Trieste.

    «Il circo è e sarà il più grande spettacolo del mondo». Nando Orfei sarà ricordato per questa frase, la "sua" frase, e per quella giacca bordeaux, improbabile e forte come tutti i colori e i gusti legati al mondo circense, secondo la legge che vuole lo spettatore affascinato e sopraffatto da lustrini, suoni e luci. Gusti forti, come il desiderio e l'adrenalina che a Nandino doveva pompargli in corpo ogni volta che alle spalle gli si chiudeva la porta in ferro lasciandolo isolato dal mondo, accerchiato da una decina di tigri o leoni. Come nelle immagini di un tempo o nelle vignette-simbolo della Settimana enigmistica: il domatore impomatato, la frusta, una sedia e una traboccante dose di fegato (o incoscienza). Chi lo ricorderà, lo farà facendo rimbalzare nel cervello questa immagine. Molto più appropriata di quella legati ai suoi ultimi momenti: spirato in un letto d’ospedale, esausto anziano e vulnerabile, benché attorniato dall’affetto e dalla presenza dei cari. Perché è così che se n’è andato uno dei padri del circo italiano, a 80 anni, vinto da una malattia che era riuscito tuttavia a tenere a bada a lungo. Può sembrare una questione banale, non è così: nell'immaginario collettivo, gli Orfei e Nando prima di tutti, non sono una famiglia legata al circo, sono stati e "sono" il circo italiano.

    Si è autorizzati, infatti, a desiderare letterariamente che sarebbe stato giusto che a portarsi via "Nandino" fosse stata la zampata di un leone rabbioso o soltanto infastidito, il morso di una tigre asiatica dagli occhi di ghiaccio che, annoiata dallo stesso, ripetitivo numero, semplicemente chiude la bocca quando il collo di lui le stava provocantemente vicino. Poiché così ci si sarebbe aspettati che finisse Nando, come un vero capitano che affonda con la propria nave mentre questa cola a picco. Nando Orfei forse sarebbe stato giusto finisse la sua vita nel suo circo, davanti al pubblico, in una competizione in cui il pericolo una volta tanto, una volta sola, prendeva il sopravvento, vinceva. Non sappiamo immaginare un epilogo diverso o in altro luogo dalla pista circolare di sabbia e terra.

    Invece, il simpatico e abile giocoliere divenuto impavido domatore, è morto, appunto, in un letto dell'ospedale San Raffaele, dove era ricoverato. Intorno a lui, i cari, cioè il restante della famiglia italiana del circo: la moglie, Anita Gambarutti, e i figli - Ambra, Gioia e Paride - la sorella Liana e il fratello Rinaldo. Ciascuno, un accampamento, una giostra, il braccio di una genia dello stesso capostipite. Vicinissima a Nandino spiritualmente, meno fisicamente, c’era anche la cugina Moira; Nando - stessa età, stesse esperienze - le era molto legato. Anche lei emblema di una storia, la Donna del Circo, immarcescibile e immutabile nella foto che la ritrae bella, giovane con il toupé nero e alto, il trucco pesante e il neo. Più simile a una sovrana egizia o a una incantevole maga dell’Egeo con quello sguardo da irresistibile e misteriosa ammaliatrice, che non all’eroina circense.


    Antique circus posters

    Nando da tempo non viveva più nella roulotte, non si spostava più di città in città insieme con la carovana preceduta da manifesti e da urlatori di professione che si sgolavano ad annunciare l’imminente arrivo della variopinta carovana. Nomadismo dello spettacolo, divertimenti e rischi autentici dal sapore di inizio secolo scorso, quando la comunità circense più numerosa e d’effetto che sia mai esistita, la Barnum & Bailey, sfilava lungo le avenues americane tra squilli di trombe, rulli di tamburi, pioggia di volantini, scintillanti signorine in abiti succinti e acrobati che volteggiavano in aria con innaturale leggerezza.

    In questo tipo di habitat, proporzionato alle dimensioni dell’Italia, era vissuto Nandino, nella grande e variegata famiglia del circo, che tutti accoglie purché straordinari. La famiglia-rifugio dove trovava nazionalità non solo l’artista, il prestigiatore o il funambolo ma anche il reietto, fosse stato l’uomo più piccolo del mondo o la donna più grassa del mondo. Nani e ballerine, eccoli qui. Colui che nelle strade sentiva addosso lo sguardo raccapricciato o morbosamente curioso dei passanti, sotto il magico tendone trovava dignità e ruolo e raccoglieva occhiate d’ammirazione, sospiri di apprezzamento. Una investitura da dignitario ricevevano il nanetto e la cicciona, trasformati nientedimeno che nell’ incredibile, impensabile, inarrivabile e fantascientifico uomo-insetto e donna-cannone.

    Decine di film, opere di registi illuminati e acuti, hanno tentato di compendiare in un paio d’ore queste esistenze poliedriche accomunate dall’emarginazione. Emarginazione come differenza, particolarità; della professione, quando non sociale: differenza del nomadismo, come un gruppo di inuit in giro per Manhattan in abiti tradizionali il 10 di agosto.

    Più che una famiglia: una nazione, isolata dal mondo e all’interno di questo basculante; sdoganata nella sua straordinarietà e trasversale a ogni legislazione, con leggi proprie, poche regole, basilari e inviolabili. Il resto, per molti, era quella prossimità con l’incidente, con la morte sempre in agguato.


    Antique circus posters

    In questo habitat Nandino non viveva più, non poteva. Mentre lui si spegneva, gli artisti del suo circo giungevano a Modena e, forse per la prima volta, si fermavano. I tendoni rimanevano chiusi, le luci spente, i botteghini serrati, gli acrobati nelle roulotte senza rischiare l'osso del collo e i clown a trasformare quella goccia che portano sempre disegnata sul viso in una vera lacrima. Il lutto era riconoscibile da lontano. Fino ai funerali, del giovedì successivo. Poi tutto sarebbe ripreso con apparente normalità, con il rigore e la disponibilità di sempre, in ottemperanza all’inossidabile legge dello spettacolo.

    Con Nando Orfei (e con altre famiglie), insomma, è nato il circo in Italia, e con lui è declinato. Il presidente dell'Agis Carlo Fontana ha definito questo padre fondatore il «protagonista assoluto del circo e un grande dello spettacolo italiano», esaltandone le qualità artistiche. Quelle qualità che - come nel metateatro o nella cinematografia sperimentale - gli consentirono di lavorare con Fellini e anche in televisione interpretando se stesso. Troppo potente la sua figura nella realtà per non diventare icona nel falso mondo di celluloide e in quello a volte ancor più fallace della Rai (all’epoca la sola Emittente). A differenza di Moira, la cui bellezza giunonica le schiuse altri orizzonti cinematografici. Qualcosa di più di brevi incursioni: apparizioni affianco a Totò (o meglio, davanti a Totò, che posa la propria testa sul florido e accogliente seno di lei), in un giustamente dimenticato film di Dracula (in cui la Moira splendidamente nuda veniva morsa a una chiappa da un Dracula attratto più dalle forme carnali che dal sangue), in altri lungometraggi di cassetta. Ma anche per lei, la vita non era davanti alla telecamera ma sotto il ben più autentico tendone variopinto.

    Anche Antonio Buccioni, il presidente dell'Enc, Ente Nazionale Circhi, aveva voluto spendere un pensiero e una dichiarazione per Nandino, ricordandone le capacità, la vibrante passione. Un mondo intero il circo, ma per vederlo occorre voltarsi indietro. Nato con Nando, con Nando declinato. Lo scorso anno a Cattolica (dalle sue parti, era nato in provincia di Ferrara), in un impeto di rabbia, che evidentemente si manifestava a conclusione di una serie di delusioni e incomprensioni, sorreggendosi a un bastone dribblò il sipario e si infilò nel cono di luce al centro dell’arena circolare. Non era un numero preparato ma una reazione improvvisa, istintiva, il vecchio leone che tornava a ruggire. Lo spettacolo era finito, prima che le poche decine di spettatori si alzassero per uscire, lui si manifestò e guardò quei pochi negli occhi, li ringraziò per aver scelto di trascorrere la serata al circo e poi lanciò un appello, accorato. O meglio, forse gli pensava di lanciare un appello, invece la sua fu una arringa, un’amarezza covata per tutti gli anni del progressivo declino del circo inteso come spettacolo. Parlò rivolgendosi di più ai tanti spalti vuoti che non a quelli dove erano seduti gli spettatori.

    Un leone incanutito che ruggisce e non fa più paura. Nandino misurava il mondo comparandolo alla circonferenza del circo: sapeva imporre il proprio sguardo e l’urlo imperativo al giaguaro e alla leonessa come un Tarzan metropolitano, prendeva per il mento una tigre sbatacchiandola con l’atteggiamento da rimprovero di un adulto nei confronti di un ragazzino, e sapeva gestire la macchina complessa, eterogenea e cosmopolita del circo come fosse una ditta individuale. Ma non aveva compreso che l’avvento dei computer dapprima aveva cambiato il mondo e che la connessione in rete del mondo intero con smartphone, paraboliche, tablet e tutto l'armamentario tecnologico che scandisce ogni ora della vita degli esseri umani, poi, lo aveva completamente ribaltato quello stesso mondo. Afferrato per la fodera e rivoltato. Non aveva compreso o, più probabilmente, si era rifiutato di farlo. Un atteggiamento naturale, comprensibile e comune a tanti, più o meno anziani, che continuano a guardare il mondo intorno a loro non per quello che è ma per quello che era, lasciando come lumache una scia di nostalgia che troppo facilmente e presto si trasforma in risentimento, in rabbia.


    Antique circus posters

    La velocità impressa al mondo dalla connessione a ogni costo, dalla conoscenza orizzontale, dalla possibilità di visitare, vedere, conoscere qualunque cosa e chiunque, il codice no limits che ci consente di essere affianco a un astronauta sulla stazione spaziale orbitante e l’attimo dopo a bordo di un sottomarino soltanto utilizzando il cellulare, entusiasma e sbalordisce i nostri sensi ma sposta l’attenzione dall’attraversare un’esperienza al suo osservarla, amplificando e potenziando il principio che vuole la forza della fantasia maggiore di quella della realtà. In questo contesto, che misura la velocità in anni luce, il trotto circolare di un equino vestito di piume sul cui dorso una cavallerizza compie capriole somiglia a un gioco preistorico, lento, privo di pericoli e di adrenalina. Per i bambini è più reale la fantasmagoria di un videogioco in cui si uccidono centinaia di terribili nemici con armi atomiche in un compulsivo e frenetico digitare accompagnato da musichette ossessive, che fa loro schizzare l’adrenalina, che un triplo salto mortale senza rete. La ragazza lanciatasi da trenta metri afferrata al volo a un polso da un compagno agganciato a un manubrio a dieci metri di altezza rapisce la sua attenzione ma non partecipa, non comprende il pericolo di quell’acrobazia, l’immane sforzo preparatorio. La realtà è su un piano inclinato, scivola nel nulla, distante e dunque indifferente; ciò che invece scorre sullo schermo della playstation è manipolabile, modificabile, afferra più sensi, obbliga alla destrezza. Un clown e il suo numero sfuma e si perde come una manciata di fotogrammi bianco/nero nella immaginifica, spettacolare irrealtà degli Avengers.

    D’altronde, il circo era già stato mutilato, sterilizzato, denuclearizzato quando gli furono sottratti gli animali. Nell’ondata animal-fondamentalista, gli elefanti, i leoni, zebre e scimmie devono restare in Africa e in Asia, liberi nei loro territori; non devono, abboffati di sedativi, venire a divertire il sazio pubblico occidentale con improbabili numeri di destrezza e acrobazia, costretti a non richiesta umanizzazione, a innaturalmente scimmiottare l’uomo. Principio condivisibile ma che ha snaturato l’attività, la vita stessa del circo. Che si è "riconvertito", che ha tentato di modernizzarsi, di dare appeal ai suoi spettacoli - no animali, numeri internazionali, tendone più piccolo, diversificazione, attività collaterali - ma non è più riuscito ad attirare le folle di un tempo. Il suo spirito è intriso di un alone di fiaba d’antan, bello ma di un tempo lontano. Nandino aveva vissuto questa trasformazione probabilmente come una umiliazione, come una vicenda personale, un’offesa all’amore che lui portava al circo e quel mondo che vorticosamente gli gira attorno.

    Ma anche se le sovvenzioni pubbliche non sono più sufficienti, le tournée sempre più brevi e la necessità di rinnovarsi più pressante, “the show must go on”, la macchina dello spettacolo non deve fermarsi mai, nemmeno in questo caso. E sarebbe un errore se lo facesse il circo, che pur conserva l’attenzione e l’affetto di un segmento di mercato. La compagnia non deve cedere, gli acrobati devono continuare a volteggiare là in alto e i clown con i nasi finti e le scarpe enormi non devono smettere di rotolarsi nella polvere e sprizzare acqua dagli occhi come fontane. Dunque, si spengano le luci, il sipario sta per aprirsi…

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    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

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