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  • Violence masculine et féminicide
    Vittoria Tola - Giovanna Crivelli (sous la direction de)

    M@gm@ vol.12 n.1 Janvier-Avril 2014

    DIALOGHI FEMMINISTI SULLA VIOLENZA DELLE IMMAGINI


    Laura Corradi

    maria_laura.corradi@unical.it
    Ha insegnato 'Feminist Theory' all'Università di California, dove ottenne un Ph.D. in Sociologia. Ora tiene un corso di 'Studi di genere e metodo intersezionale' all'Università della Calabria. È autrice o co-autrice di circa 80 pubblicazioni. Da più di 20 anni frequenta realtà indigene in paesi del sud del mondo.

    Vittoria Tola

    vittoria_tola@virgilio.it
    Laurea in Filosofia, bibliotecaria direttore, è impegnata sin dagli anni ’70 nel movimento delle donne. Ha lavorato in modo approfondito alla conoscenza delle fenomenologie e allo sviluppo del dibattito e delle risposte culturali, istituzionali e sociali relative alle discriminazioni e alla violenza contro le donne e i minori in ambito intra ed extra familiare Ha pubblicato numerosi articoli e pubblicazioni sui temi succitati e ha collaborato a molte ricerche. Ha ricoperto numerosi incarichi e attualmente è responsabile nazionale dell’UDI.

    Vittoria: Il tuo libro Specchio delle sue brame ci ha ricordato come le immagini siano in grado di plasmare le coscienze… secondo te quali possono essere le motivazioni per cui la violenza continua ad essere usata impunemente nel mondo del cinema, nelle pubblicità, nei mass media?

    Laura:
    Le nostre società stanno diventando sempre più violente per diversi motivi, i problemi economici ed ecologici, la tendenza alla guerra a livello globale. La crisi fa aumentare la competizione interpersonale per l’accaparramento delle risorse, ci sono ricerche che dimostrano come i reati legati al patrimonio si intensificano con la disoccupazione così come il degrado ambientale aumenta l’aggressività – ci sono studi di psicologia sociale sul fatto che le persone diventano più aggressive negli ambienti inquinati. Come prima questione dovremmo mettere in discussione il contesto che produce relazioni sociali violente e che legittima la legge del più forte, la sopraffazione. È importante non perdere di vista la connessione fra ciò che avviene a livello macro e ciò che avviene a livello micro. In seconda istanza occorre guardare a come si articola tale violenza – a livello fisico, psicologico e sessuale – solitamente l’aggressività si sfoga su chi è vulnerabile, che siano donne, bambini, migranti, omosessuali, Rom, disabili – la violenza colpisce maggiormente chi è diverso, debole, altro.  Ma siamo anche più consapevoli della violenza, che diviene oggetto di studio e di dibattito pubblico, per cui possiamo capire come siano in gioco categorie socialmente costruite, per esempio la razza e il genere. Possiamo affrontare tipi diversi di violenza (omofoba, xenofoba, sessista) con una attrezzatura più specifica – e la teoria può diventare molto utile se pensiamo ad una prevenzione che dal particolare retroagisca sul generale.

    (figura 1)

    Tu mi chiedi perché nel cinema, e nelle réclame c’è tanta violenza – ci sono almeno due risposte. La prima è semplice: i prodotti culturali riflettono la società che li esprime, quindi se c’è più violenza nelle società allora film, pubblicità, videogiochi diventano più violenti. La seconda è più complessa: tutto ciò che suscita emozioni (anche negative) può essere utilizzato per produrre altre emozioni (anche positive) e per indurre comportamenti. Nel caso della violenza nelle pubblicità essa non è solo riflessa ma anche talvolta rafforzata. L’immagine shock inizialmente funge da specchietto per le allodole, serve ad attirare l’attenzione di un consumatore ormai assuefatto al bombardamento pubblicitario, agli stimoli visivi in particolare, ma poi il messaggio cambia segno. Nella famosa pubblicità poi ritirata (figura 1) la ragazza uccisa sta sullo sfondo, più intuibile che visibile, de-ontologizzata. Un giovane uomo è in primo piano – non come omicida ma come bravo ragazzo che ha pulito tutte le tracce di sangue – ha l’aria intrigante da bello e cattivo, sguardo intenso che fissa in camera, l’atteggiamento seducente di chi ha fatto solo una marachella – come non perdonarlo? Mentre lo strofinaccio è il buono della situazione, bravo, potente e impeccabile – il vero protagonista, la merce da comprare.

    (figura 2)

    I pubblicitari qui hanno agito nella consapevolezza che questa immagine avrebbe fatto scandalo, in un momento di battaglia femminista sulla violenza e di attenzione mediatica ai ‘femmicidi’, e subdolamente prodotto anche la versione dove il ragazzo fa la parte dell’ucciso e la ragazza brandisce lo strofinaccio (figura 2) ma anche qui le ‘pari opportunità’ non convincono… Questa pubblicità è facile da decodificare perché usa la violenza in modo molto esplicito – ve ne sono altre che non lo fanno in maniera così plateale, offrono suggestioni necrofile oppure sbavano su dettagli scabrosi nella gara a chi si conquista l’attenzione del consumatore. Ma sbaglieremmo a pensare che si tratti solo di una manipolazione a fini commerciali: le pubblicità agiscono come ideologia e sono normative anche sul piano culturale, come ho scritto in ‘Specchio delle sue brame’: rafforzano le forme dominanti del potere a livello di classe, razza, genere – i decisori sono in gran parte maschi, bianchi e facoltosi e le pubblicità come ogni ideologia si inchinano verso chi comanda.

    (figura 3)

    Nell’attuale crisi del patriarcato le pubblicità violente servono anche confortare il genere maschile, a battere la mano sulla spalla agli uomini - per far capire ad ogni marito che sarebbe tentato di strozzare la ‘sua’ donna, (figura 3) che si tratta di un sentimento condiviso.  E serve anche a ricordare alle donne che i maschi hanno la forza fisica - che dovremmo tutte abbassare un po’ la cresta, altrimenti per noi può finir male. Una pubblicità che rassicura gli uomini, intimidisce le donne e vuole contribuire a rimettere le cose al loro posto sul piano del potere di genere.

    Vittoria: Se la pubblicità rassicura gli uomini e intimidisce le donne - quindi davvero esprime il desiderio maschile, anzi la “brama” come tu la chiami, nei rapporti di potere tra generi – se questo fenomeno dura da oltre 20 anni e se si è aggravato progressivamente, allora perché le donne, persino quelle del mondo politico, non si sono accorte, o si sono accorte tardi, di quello che stava succedendo?  Senza dimenticare che in parte si sono prestate alla minimizzazione del problema, perché di fronte a qualunque critica riguardante la volgarità e la violenza nei media hanno risposto fino a ieri con accuse di moralismo… In altri termini: perché è stato necessario, prima di rispondere seriamente, arrivare a centinaia di donne uccise?

    Laura: “Il corpo delle donne”, meritorio lavoro di Lorella Zanardo, è stato una svolta e ha avuto molto più impatto di tante riflessioni che non erano ancora riuscite fino a quel momento a bucare la spessa coltre di indifferenza costruita dai media. Senza il suo lavoro, la mia ricerca “L’uso improprio del corpo della donna nelle pubblicità e nei media” che andava avanti da un decennio non avrebbe trovato facilmente un editore – e sarebbe stata sommersa di critiche… chissà perché le femministe bianche hanno sempre preferito opporsi al patriarcato che forzosamente vela e non quello che altrettanto forzosamente svela… Credo sia stata minimizzata la portata della violenza simbolica perpetrata attraverso le immagini – molte donne della politica e della cultura, intellettuali, filosofe, non hanno capito il loro ruolo (mal)educativo, la persistenza degli stereotipi di genere che si intersecano con quelli di classe, razza, età che continuano ad esserci riproposti in forme diverse – guarda la figuraccia che ha fatto Barilla proprio in questi giorni nella difesa dell’eterosessismo delle sue pubblicità: la famiglia è una sola, quella del mulino bianco – alla faccia della democrazia.

    Perché le femministe si sono accorte con ritardo della manipolazione attraverso le immagini? È un argomento – da una parte si sono confrontate con problemi nuovi e la questione degli stereotipi di genere sembrava un tema retrò; dall’altra c’è stata una offensiva mediatica negli anni ottanta per cui scoprirsi, essere sexy nell’era neoliberista è diventato sinonimo di essere sé stesse – i pubblicitari hanno giocato con la nostra vanità e con il nostro desiderio di libertà. Oggi giocano anche con il nostro bisogno di verità, di giustizia e di lotta – guarda i “guerrieri del lavoro” nell’ultima pubblicità Enel – vogliono commuoverci e sono disposti a lasciare che le donne si rivestano solo se possono sfruttarle in qualche altro modo, attraverso i loro sentimenti. Non che i pubblicitari siano cattivi (su questo c’è un bel libro di Ico Gasparri, “Chi è il maestro del lupo cattivo”), anche se spesso sono poeti sfortunati che seguono le leggi del profitto – dove tutto diventa merce. È triste che tanta intelligenza e creatività venga usata in questo modo, le loro competenze potrebbero essere utilizzate per il bene comune, nella comunicazione preventiva per esempio. Ma c’è anche un altro elemento nell’accusa di moralismo emessa nei confronti delle femministe che segnalavano la volgarità e la violenza delle immagini nei media, ed ha a che vedere con il nostro paese. In Italia se il Vaticano si schiera contro qualcosa, l’area laica tende a difenderla. Guarda quello che è successo nel dibattito sulla procreazione medicalmente assistita: la maggior parte delle femministe italiane hanno fatto una scelta ‘laica’ – la libertà di riproduzione contro la posizione retriva della chiesa e di parte del mondo cattolico - così il dibattito non ha preso seriamente in considerazione il fatto che alcune di queste tecnologie sono violente nei confronti delle donne, nocive alla salute e promuovono lo sfruttamento di donne ricche su donne povere – come dimostra il traffico internazionale di ovociti e madri surrogate. Così una parte del femminismo si trova a legittimare una scienza patriarcale, capitalista e razzista perché il nemico numero uno in Italia è l’oppressione religiosa, l’intrusione dei preti nella vita sociale e sessuale della gente. Ed è stato così anche nel caso delle immagini che usano il corpo delle donne in modo volgare e violento: si è spostato il discorso dalla necessità di una lotta contro la violenza simbolica alla difesa del diritto e della libertà di espressione dei creativi, così ognuno può produrre le immagini che vuole, senza pensare alle conseguenze, e la censura è da bigotti. Credo sia sempre sbagliato confondere il liberismo con la libertà…

    Vittoria: Le dichiarazioni di Barilla non sono solo a difesa della famiglia eterosessuale ma anche di una famiglia dove il ruolo della donna è quello di ancella del focolare e di “badante”. Alle pubblicità più violente e volgari si affianca con grande naturalezza la difesa inossidabile del ruolo classico della donna casalinga, modernizzato ma non troppo. Anche questo a me non appare né innocente né tradizionale in un periodo di crisi economica come quello attuale e dove la disoccupazione è drammatica e quella delle donne, anche altamente scolarizzate è peggiore della disoccupazione dei loro coetanei, senza considerare le licenziate e le eterne inoccupate - casalinghe e le badanti a titolo gratuito … mi pare che nelle pubblicità ci sia anche un richiamo al fatto che la crisi lascerà a casa le donne italiane, che potrebbero sostituire le immigrate.

    In ogni caso credo che sia importante la tua notazione sul ruolo del filmato della Zanardo e di come iniziative del genere riescano a far emergere meglio la ricerca di tante intellettuali femministe – riflessioni circolanti in un ambito di specialisti/e che difficilmente raggiungono un vasto pubblico di donne che in questi decenni mi è sembrato molto in balia di quello che passano tv e pubblicità fino a modellarne l’immaginario – e chi si trova davanti allo schermo ne è inconsapevole. Quindi la necessità di integrare studio e analisi ma anche di produrre una denuncia forte e di impatto immediato.

    Certo le modalità con cui le pubblicità si sono evolute nel tempo ma anche le persistenze sono certamente motivo di riflessione. Per esempio la  famigerata pubblicità sullo straccio e sul “fai sparire le tracce” oltre l’apologia “naturale” del femminicidio  arriva, certo, perché il tema si è imposto alla pubblica opinione, ma  dopo un’escalation che va dalla casalinga sexy, alle ragazze coccodè, alle donne svestite e reificate in vario modo che alludevano alla disponibilità sessuale anche davanti a un banco di surgelati, alle immagini di palpeggiamenti, agli stupri singoli o di gruppo di grandi stilisti fino all’assassinio esplicito in ambito domestico di cui bisogna solo far sparire le tracce. Il richiamo più importante sembra essere quello della pulizia della casa nella versione maschile e ancor più in quella femminile in cui è la moglie ad avere commesso l’omicidio. L’autore di questo obbrobrio pubblicitario si è difeso proprio evocando le pari opportunità (sic!) e il fatto che sono pari nella manutenzione della casa come nel reato. È un evoluzione di altre pubblicità violente che abbiamo visto e che avevano come contesto la casa, la macchina o dimensioni occasionali. Qualcosa di inquietante mi sembra di intravedere nelle pubblicità sessiste che hanno come soggetti ragazzine sempre più giovani: la puttanizzazione delle ragazzine come dicono in Francia. Questa tendenza emerge anche nella tua ricerca…

    (figura 4)

    Laura: Sì, in forme molteplici. Dei processi di sessualizzazione e di pornizzazione già discutevo nel lavoro di semiotica femminista sulla ‘Sociologia politica del culo femminile nelle pubblicità italiane’ – mi aveva colpito la tendenza a creare scenari mutuati dalla pornografia anche per normali relazioni sociali – fare la spesa, parlare col vicino, guidare un’auto, qualsiasi situazione poteva essere sessualizzata per compiacere lo sguardo maschile, riconfermando la donna come oggetto di cui fruire almeno a livello visivo. Non bastavano più le scollature vertiginose, i seni gonfiati dal silicone, gli sguardi addomesticati, l’interno coscia sempre in vista: emergeva prepotentemente una preferenza per il lato B delle donne, inquadrature dal basso e vari posizionamenti di questa parte del corpo atti a suggerirne la penetrabilità. Il culo come elemento porno. Le pubblicità sono diventate da maliziose a sessualmente ossessive e questo processo ha rafforzato altre forme di inferiorizzazione delle donne, smembramento ed esposizione dei corpi. Tali dispositivi sono una forma di violenza simbolica, per come l’ha definita il sociologo Pierre Bourdieu: vengono messe in atto non con l’uso della forza fisica ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, e delle strutture mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo da parte di soggetti dominanti verso quelli dominati. Tutti i ‘te la do gratis’ e ‘montami a costo zero’ (figura 4) sono forme di violenza ‘dolce’, esercitate con il consenso inconsapevole di chi la subisce. Ma se noi decodifichiamo i messaggi possiamo svelare i rapporti di forza sottostanti alla relazione nella quale si configura – e quindi mettere in discussione anche tali rapporti di potere che come ho mostrato intersecano la dominazione di genere con quella di razza, età, classe, orientamento sessuale. 

    (figura 5)

    Sulla tendenza ad utilizzare modelle sempre più piccole, ragazzine ed anche bambine (figura  5) sessualizzando i loro corpi senza pensare alle conseguenza su di loro e sul sociale già discuto in ‘Specchio delle sue brame’ -  ma la parte di ricerca riguardante questo tema non l’ho ancora pubblicata: sto cercando di capire come avviare un dibattito femminista su una questione così delicata, che coinvolge genitori accondiscendenti e talvolta artefici dell’avviamento delle bimbe a concorsi di bellezza, provini, competizioni varie basate sul corpo. Si tratta di aprire una finestra sul mondo delle aspiranti miss, dodicenni già anoressiche, senza sollevare il solito vespaio difensivo queste sono le nostre figlie, per loro vogliamo solo felicità e successo.  Non voglio prendermela certo con i genitori, speculatori o vittime che siano ma è come se giocassero alla lotteria con il futuro delle loro figlie, per una che ce la fa altre mille falliscono miseramente. Non so se hai letto il libro “Appena ho 18 anni mi rifaccio”, le testimonianze di questi/e adolescenti sono sconcertanti.

    (figura 6)

    Credo sia necessario operare consapevolmente sulla cultura che crea tali bisogni – essere bellissime, avere successo, apparire ovunque - e a qualsiasi costo in termini di salute fisica e psichica.  La violenza simbolica qui è duplice e può avere effetti devastanti. Alla non accettazione di sé si aggiungono le ansie di autoaffermazione in un’età che dovrebbe essere giocosa e formativa, in cui fare esperienze positive è molto importante, anziché entrare nel mondo degli adulti da una porta così pericolosa.  Mi riferisco anche al rischio di abusi sessuali – in una situazione che è già di abuso sociale – non solo per le bambine in questione (andrebbe ricordata la piccola miss America uccisa da un maniaco) ma per tutte: quando si erotizza la loro età, tutte le bambine sono a rischio. Contro la produzione di immagini pedofile forse non è utile che io faccia un altro libro, servirebbe una task force…

    So che molte soggettività femministe si sono mosse sulle varie forme di violenza di genere – dai gruppi radicali a quelli moderati, da organizzazioni storiche come l’Udi a blog come zeroviolenzadonna.org, tenendo vivo il dibattito sul tema - ma quale è l’agenda oggi, in termini di prevenzione?

    Vittoria: Questa è davvero la domanda più difficile perché è evidente da molte cose che qualcosa è cambiato e sta cambiando ma ancora in modo confuso – eliminano solo le forme più eclatanti nel mondo della pubblicità, mentre diventano più raffinati nell’uso degli stereotipi. Comunque si può dire che le nostre battaglie hanno prodotto qualche cambiamento.  Ma quale sia oggi l’agenda in termini di prevenzione è arduo perché bisognerebbe avere un quadro generale e, per rispondere in modo adeguato, dovremmo tutti/e prendere coscienza di cosa rappresentano le pubblicità violente e lesive nel rafforzare l’inferiorizzazione delle donne.

    E dovremmo decidere di cambiare strada e avere, tra donne e gruppi diversi, se non un progetto comune, almeno iniziative che vadano nella stessa direzione per affrontare in modo profondo la situazione. La nostra determinazione potrebbe convincere/costringere pubblicitari, aziende e media a modificare il loro messaggio non solo perché rischiano di non avere più consenso e vendite se continuano su questa strada ma perché questo vorrebbe dire che lo sguardo collettivo e la cultura è cambiata. Qualcosa in questi anni si è già mosso, grazie a tante battaglie, che però difficilmente vengono prese sul serio dai media e che spesso sono poco in relazione le une con le altre. Penso alle tante denunce, alla campagna dell’Udi contro le pubblicità lesive che ha coinvolto oltre 100 comuni convincendoli a non affiggere più pubblicità sessiste. Da questo ampio confronto è nata la Campagna Immagini Amiche che cerca di rovesciare criticamente l’attenzione e favorire le buone pratiche nell’uso delle immagini delle donne…

    La Risoluzione del Parlamento europeo del 2008, denunciando la gravità delle pubblicità sessiste violente e stereotipate, auspicava iniziative per una pubblicità’ “socialmente responsabile” non solo ponendo l’accento sulla denuncia ma sulla necessità di un grande lavoro di presa di coscienza e di prevenzione del pubblico, delle istituzioni ma anche dei pubblicitari - i famosi creativi che in Italia non sembravano avere sempre una attitudine positiva sul piano della coscienza di genere. Da questo è nato il Premio Immagini Amiche – con una partnership tra l’UDI e il Parlamento europeo con l’Alto Patronato del Presidente della repubblica e il Patrocinio del DPO e con la collaborazione del Mise e del Miur. Nelle tre edizioni del premio, le donne e il pubblico dovevano segnalare pubblicità e programmi positivi e rappresentanti donne reali e non immagini stereotipanti a uso e consumo di uno sguardo maschile. Il lavoro non è stato facile, ma stiamo andando avanti sia nello sviluppo di uno sguardo critico sia nel coinvolgimento di scuole, studenti e studentesse che sempre più numerosi partecipano al premio spesso dopo aver svolto un lavoro di decostruzione in classe, delle immagini pubblicitarie, o nella costruzione di programmi o corsi curriculari ed extracurriculari contro gli stereotipi fatti da classi della scuola dell’obbligo e delle superiori; oppure nel coinvolgimento dei comuni che possono dimostrare esperienze positive nel loro territorio. Abbiamo visto che molto dipende dalle associazioni delle donne impegnate, dagli insegnanti e dal contesto che hanno intorno e che producono molte buone pratiche di didattica come nei lavori sulle immagini a Modena e a Catania.

    Tra le tante iniziative dell’UDI segnaliamo in particolare “Stereotipa” dell’UDI di Catania che costruisce progetti, rapporti, ricerca e collaborazione nel mondo universitario e scolastico allo scopo di perseguire obiettivi di educazione a una cittadinanza di genere e di promozione di una cultura di non discriminazione istruendo i ragazzi e le ragazze a riconoscere gli stereotipi. Nel 2013 ha promosso un’indagine sociologica nelle scuole di Catania di ogni ordine e grado, e i risultati potranno contribuire alla produzione di specifici strumenti educativi, anche in ottemperanza alla “Tabella di marcia per la parità” adottata e promossa dall’Unione Europea.

    A scuola di immagini amiche” è il progetto dell’UDI di Modena, che lo ha ideato e portato nelle scuole come un laboratorio di decostruzione degli stereotipi di genere presenti all’interno delle pubblicità sessiste. L’obiettivo del Laboratorio è stato quello di scandagliare, insieme ai ragazzi ed alle ragazze delle scuole, le premesse culturali che stanno all’origine della violenza contro le donne, intesa anzitutto come delegittimazione della credibilità e della autorevolezza dell’intera cittadinanza femminile. Da questa esperienza Judith Pinnock e Serena Ballista, docenti del sopradescritto Laboratorio, hanno tratto una pubblicazione, il cui titolo è “Bellezza femminile e verità. Modelli e ruoli nella comunicazione sessista”, Fausto Lupetti Editore (Bologna 2012). Inoltre è stato pubblicato anche un secondo volume “A tavola con Platone. Esercitazioni e giochi d’aula sulle differenze culturali, sessuali e di genere”, edito da Edizioni Ferrari Sinibaldi, che compone insieme al primo un vero e proprio kit strumentale che permette a educatori ed educatrici, di confrontarsi e far confrontare sui temi proposti per smascherare pregiudizi e stereotipi.

    A me questo sembra un buon inizio di prevenzione perché educa e coinvolge intelligenza, sentimenti, senso critico e partecipazione dei ragazzi e delle ragazze, ma ci sono ancora troppi buchi neri. Le maggiori associazioni di pubblicitari si sono date dei codici di autoregolamentazione e nella 3° edizione del “Premio immagini amiche” hanno firmato con noi davanti al sindaco di Milano una “Carta d’intenti” in questo senso. E proprio il comune di Milano, grazie a questo lavoro ha varato una delibera che definisce quali pubblicità saranno escluse dal comune di Milano negli spazi di affissione comunali e sta cercando di coinvolgere altri comuni.

    Rimane silente la quasi totalità dei committenti delle pubblicità e, quando parlano, come Barilla, abbiamo visto cosa pensano veramente anche se poi chiedono scusa. Qualcosa si muove anche in ambito politico parlamentare.

    Laura: Ancora hai fiducia in queste istituzioni?

    Vittoria: Ci provo, nonostante tutto, anche se mi sembra che abbiano imboccato una strada discutibile perché i disegni di legge proposti puntano alla repressione, alla censura preventiva e alla tutela delle donne come soggetti deboli. Non mi sembra che sia accettabile e noto con sempre maggior stupore che se la Risoluzione del Parlamento europeo del 2008 comincia a diventare per molte un riferimento importante anche grazie alle critiche e alla raccomandazione della relatrice speciale della Cedaw (Rashida Manjoo) che ha sostenuto che in Italia: «Gli stereotipi di genere, che predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società, sono profondamente radicati. Le donne portano un pesante fardello in termini di cura della casa, mentre il contributo degli uomini ad essa è tra i più bassi nel mondo. Per quanto riguarda la loro rappresentazione nei media, nel 2006, il 53% delle donne apparse in televisione non parlava, mentre il 46% era associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2% a questioni di impegno sociale e professionale.»

    Ricordo che ancora oggi è quasi sconosciuta la Risoluzione su questi temi del 2013 del Parlamento europeo che rafforza quella del 2008 e quanto prevede la Convenzione di Istanbul sul tema.

    Approvata all’unanimità dal Parlamento spesso abbiamo la sensazione che non tutti la conoscono o l’abbiano capita anche se l’hanno votata. L’iniziativa meritoria del Senato del 24 novembre su “Convenzione di Istanbul e Media” dimostra letture e riflessioni importanti tra politici, direttori di grandi quotidiani e rappresentanti Rai, ma sono evidenti superficialità e contraddizioni.

    Per arrivare a una vera agenda di prevenzione degna di questo nome il lavoro da fare mi sembra quindi ancora grande e il cammino lungo. Ma le persone disposte a provarci mi pare che stiano aumentando.

    (figura 7)

    Laura: Sì sono d’accordo: la violenza (nelle sue varie forme) non si contrasta con la repressione, la censura, l’ennesimo proibizionismo – in un momento in cui in altri contesti la violenza viene culturalmente erotizzata, nei film come nelle pubblicità, le ragazzine scoprono il sado-maso in rete (e non si tratta di adulti consenzienti…); i telegiornali non arrossiscono più quando parlano di donne morte durante attività di sesso estremo… se come civiltà occidentale abbiamo perso il senso del limite sul piano economico ed ecologico è chiaro che questo si riflette anche nei comportamenti delle nuove generazioni, e ciò riguarda pure l’assunzione di rischio deliberato in società dove il rischio sociale è la norma…  Se hanno imparato a giocare con la violenza nei videogame, mentre certa intellettualità riteneva ciò fosse innocuo, anzi liberatorio – perché dovrebbero smettere di fantasticare sulla violenza nell’adolescenza? Sesso e violenza attraggono i giovanissimi – e i pubblicitari lo sanno bene, altrimenti non userebbero questa mistura, che ha il potere di sdoganare anche lo stupro, estetizzandolo (figura 7).

    Certo, non penso che si possano “mettere in sicurezza le donne” con delle leggi calate dall’alto (per di più sbagliate…), in questa fase storica di transizione occorre creare strategie di prevenzione dal basso. Dopo il famoso stupro in India – e il grande movimento sociale che ne è scaturito – a Nuova Delhi si è riunita una commissione governativa ad hoc per decidere il che fare – ma tra i diversi punti su cui hanno concordato l’intervento solo uno riguardava la prevenzione (e si risolveva nell’impegno a illuminare maggiormente la città); gli altri punti erano di tipo dissuasivo-repressivo ma questo non serve a molto. La prevenzione deve ingegnarsi a produrre messaggi positivi e promuovere il cambiamento culturale – nella nostra mente ogni divieto viene convertito nel suo opposto, ormai lo sappiamo. Se diciamo ad un gruppo di persone “mi raccomando, non pensate ad un elefante rosa coi pallini verdi” è esattamente a questo che penseranno - se facciamo una campagna contro lo stupro e la violenza, magari con immagini che lo richiamano, tipo la pessima sigla di ‘amore criminale’ – è esattamente questo che suggeriamo. La violenza contro le donne non si contrasta rappresentandola ma, paradossalmente si combatte lasciandole più libere le ragazze, potenziandole fin da piccole a seguire le proprie inclinazioni e talenti, dando una educazione sul genere e sulla sessualità fin dalle scuole dell’obbligo per maschi e femmine, contestando il moralismo, le prassi discriminatorie nelle famiglie come nei luoghi pubblici, mettendo in discussione gli stereotipi che ci vengono insegnati dai media, dalle istituzioni.

    Infine direi che non può esserci un profondo cambiamento culturale senza una nuova ondata di femminismo – quello che dici è importante: dovremmo trovare il modo di lavorare assieme, seppur tra anime diverse del movimento; e, invece di indulgere in pratiche divisive, trovare dei minimi comuni denominatori su temi quali violenza, sessualità, salute della donna… la capacità di coalition building, di costruire coalizioni, dovremmo finalmente acquisirla, così come le facoltà comunicative che ci consentano di tenere sotto controllo il livello del conflitto – più le femministe litigano fra di loro, meno operative riescono ad essere. 

    Questa fase di transizione è molto interessante, perché si vedono chiaramente le contraddizioni che ci riguardano e le sfide sono molteplici. È un momento in cui il femminismo italiano dovrebbe reinventarsi, sprovincializzarsi, mettere in discussione profondamente i privilegi delle donne bianche, lo sguardo ancora coloniale che molte hanno sul mondo e sulle ‘altre’. Il femminismo nostrano dovrebbe aprirsi e diventare appetibile per le donne di colore, migranti, rom, islamiche, indiane – uscire da secche accademiche e gruppettare – diventare un fenomeno di massa, in grado di intersecare le lotte contro il sessismo a quelle contro il razzismo, l’eteronormatività, le disuguaglianze. Si tratta di inventare nuove modalità politiche, che in parte si stanno già costituendo, e nuove relazioni sociali allargate. Questo nuovo femminismo ancora in embrione, che guarda al mondo e che si lascia attraversare dalle differenze, è un ingrediente necessario per combattere la violenza, e per il cambiamento culturale che vogliamo. Cominciamo ad immaginarlo.

    Vittoria: Non è facile, ma credo che siamo nelle condizioni di poterlo fare!

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