• Home
  • Revue M@gm@
  • Cahiers M@gm@
  • Portail Analyse Qualitative
  • Forum Analyse Qualitative
  • Advertising
  • Accès Réservé


  • Un regard systémique sur l'interculturalité
    Cecilia Edelstein (sous la direction de)

    M@gm@ vol.11 n.3 Septembre-Décembre 2013

    L’ALTRO E IO: L’ESPERIENZA DI LAVORO AL POLICLINICO TOR VERGATA DI ROMA


    Angela Infante

    angela.infante@email.it
    Counselor Interculturale e Consulente Familiare, Mediatrice Culturale, lavora presso la Direzione Sanitaria di Presidio della Fondazione PTV, Policlinico Tor Vergata di Roma.

    Introduzione

    L’intervento vuole affrontare la tematica relativa all’attività di counseling portata avanti nel reparto di malattie infettive del Policlinico universitario Tor Vergata di Roma. Gli utenti di questo servizio sono tutti pazienti HIV positivi a orientamento omosessuale, eterosessuale e qualcuno anche transessuale. Le popolazioni che più si rivolgono al servizio sono quella rumena, quella nigeriana e quella senegalese, principalmente per patologie legate a malattie infettive. Inoltre, sono molto numerosi i Rom, in seguito allo smantellamento del più grande campo nomadi europeo, Casilino 900, che era situato a pochissimi passi dal Policlinico.

    Il lavoro riportato di seguito riguarda alcune attività svolte con gli OSS e, successivamente, riassunte in una pubblicazione. L’idea del progetto è nata da un evento molto curioso avvenuto al Pronto Soccorso. Nell’accogliere una signora rumena, infatti, medici, infermieri e OSS ribadivano in continuazione alla degente di mettere la borsa sotto la barella; quest’ultima seguiva le indicazioni del personale, ma nel momento in cui veniva lasciata sola, riprendeva la borsa tra le braccia. Alla richiesta di spiegazioni di tale comportamento, la signora ci rispose: «Io lo so che le dò un dolore, ma mi hanno detto che gli italiani sono tutti dei ladri!». Tale affermazione provocò nei presenti reazioni istantanee e reciproche accuse, soprattutto in riferimento a una serie di stereotipi culturali.

    In seguito a questa esperienza si è quindi sentita l’esigenza di sviluppare un piccolo progetto interculturale basato sull’idea che facciamo tutti parte di questo mondo.

    Si è deciso di sfruttare le potenzialità comunicative delle tecniche di art counseling all’interno dell’Ospedale, in particolare il fotocollage. Avendo sviluppato questa tecnica negli anni di esperienza al Policlinico Tor Vergata, ho ritenuto opportuno utilizzarla per l’insegnamento dei principi della comunicazione transculturale. Le nostre precedenti esperienze riguardavano soprattutto la formazione del personale sanitario, attraverso tecniche artistiche, quali strumento di rafforzamento della componente teorica.

    Questo progetto è nato dall’idea di mettere in relazione l’interculturalità con le tecniche artistiche. L’obiettivo principale del laboratorio, inserito nel corso di riqualificazione degli OSS, è stato quindi quello di aiutare a riconoscere il valore dell’Altro come fonte di ricchezza, qualunque sia la sua cultura di appartenenza, stimolando la capacità di formulare, attraverso l’esercizio pratico-artistico, un pensiero che inevitabilmente è espressione della propria identità personale e culturale. Questo laboratorio, attraverso una selezione dettagliata di immagini, a cui sono state attribuite nuove cornici di riferimento, ha voluto testimoniare come si possa offrire agli operatori sanitari l’opportunità di elaborare le proprie intuizioni, trasformandole in pensieri compiuti, alleggeriti da stereotipi e pregiudizi.

    Metodologia e processo di lavoro

    Le sessioni di lavoro sono state presentate a due gruppi di ausiliari nell’ambito dei due corsi di riqualificazione in OSS. Il metodo di lavoro si è diviso in tre parti: la preparazione della lezione teorica, l’organizzazione del laboratorio esperienziale e la fase operativa.

    La prima fase comprendeva una base antropologica unita a concetti elementari della Comunicazione Transculturale, con particolare riferimento al Modello di Sensibilità Interculturale di Milton J. Bennet, composto da fasi etnocentriche ed etnorelative.

    La parte esperienziale, invece, consisteva nel selezionare le immagini, nell’incollarle e nel scegliere un titolo per poi riuscire a condividere, all’interno del gruppo, tutto quello che era stato messo su carta.

    Poiché la narrazione a se stessi e agli altri serve a dare un senso a ciò che accade e che viviamo ogni giorno nella relazione con l’Altro (in modo particolare quando l’Altro è altro da noi), abbiamo rivolto una serie di interrogativi agli operatori. Domande particolarmente significative, per esempio, sono state: «Nei confronti dell’altro, dove ti trovi? », «In che fase sei? Sei in una fase di apertura, sei in una fase di chiusura?». Una delle domande che pongo sempre all’interno di questi laboratori esperienziali è: «Di tutte le popolazioni che arrivano a Tor Vergata, qual è quella con cui vai meno d’accordo? Quella che più ti irrita quando arriva al pronto soccorso?». Ciò che emerge è molto interessante.

    All’interno di questi percorsi l’uso dell’immagine è preferenziale, in quanto meno strutturata. L’immagine, infatti, veicola la comunicazione delle nostre emozioni senza doverci mettere in gioco in maniera diretta, a eccezione dell’attimo della scelta, in cui essa parla con la nostra voce. Per questo motivo avevo precedentemente selezionato una serie di immagini: alcune evocavano direttamente i concetti che sarei andata a esporre nella lezione frontale del mio laboratorio; altre sono state spogliate da quei particolari che avrebbero potuto indurre a stereotipi e pregiudizi, cercando così di arricchire l’operatore di nuove chiavi di lettura. Le immagini selezionate rappresentano persone e situazioni appartenenti a diverse popolazioni, senza limitarsi a quelle etnie maggiormente presenti sul territorio romano.

    E’ stato necessario rielaborare alcune immagini, ritagliandole. Per esempio, immagini molto forti, come quelle che raffigurano infermiere praticanti infibulazione, possono essere modificate, in modo da rendere più facile l’identificazione con esse (in questo caso mostrando solo del personale al lavoro).

    Il materiale raccolto è stato accorpato e trasformato in un percorso fotografico.

    Nella fase successiva, dopo aver posizionato su un’ampia superficie le immagini ritagliate, è stata data la consegna agli operatori di scegliere un’immagine che rappresentasse la propria idea di paziente di Cultura Altra. Tale composizione sarebbe diventata lo schermo in cui proiettare l’interpretazione personale ed emozionale della consegna. In aggiunta alle immagini è stato richiesto di riportare delle descrizioni, basate sul proprio vissuto esperienziale.

    Il lavoro è stato infine sintetizzato attraverso la scelta di un titolo significativo, quale nuova cornice culturale. In questo modo è stato realizzato uno scenario originale e personale, dal retrogusto autobiografico. Il risultato finale ha portato all’elaborazione di una trama composta da diversi fili di tessitura: l’immagine, la narrazione e il titolo, che rappresentano una descrizione della vita di coloro che hanno compiuto il fotocollage.

    Infine, il lavoro è stato condiviso: ognuno ha spiegato la propria scelta dell’immagine e del titolo; qualcuno ha letto la propria descrizione.

    Laboratorio artistico, stereotipi e riconoscimento di se stessi

    Riporto qui come, attraverso l’attività artistica, si è potuto lavorare sui propri pregiudizi, sugli stereotipi e, soprattutto, su se stessi.

    Durante gli incontri, ho selezionato una serie di immagini a cui è stata data una nuova cornice di riferimento: per esempio, quando si prendono immagini da un giornale, vanno eliminate alcune parti come i titoli e le didascalie. Ritagliare le immagini in un certo modo è un processo che si apprende, anche attraverso un percorso di counseling interculturale.

    Questa è un’attività che dà l’opportunità di elaborare le proprie intuizioni trasformandole in pensieri compiuti, alleggeriti da stereotipi e pregiudizi. Per esempio, una dottoressa inizialmente ha detto: «Non mi sento rappresentata dalla pizza e dagli spaghetti». Mentre io, invece, sì, visto che sono campana di origine: spaghetti e pizza si; mafia decisamente un po’ meno!

    Un aspetto fondamentale del lavoro è stato porre le basi per una partecipazione condivisa tra tutti i componenti del gruppo, in modo che potessero sentirsi liberi di esprimersi, dal momento che spesso, di fronte a un lavoro di tipo artistico, le persone si inibiscano sentendo di non essere sufficientemente capaci.

    Un altro obiettivo importante raggiunto è stato quindi quello di favorire la libertà espressiva, l’integrazione e la collaborazione di ognuno, concretizzando così la possibilità di sperimentare una virtuale relazione empatica con il paziente.

    Il passo successivo ha riguardato il mettere in pratica l’educazione alla scelta delle immagini, suggerendo dei riferimenti: ad esempio spunti autobiografici o semplici elementi in grado di sciogliere e affinare la capacità di ricerca delle parole più adatte per esprimere pensieri e sentimenti. All’interno di questo passaggio si è cercato di sfruttare la forza evocativa delle immagini per far emergere i vissuti degli operatori in un contesto così denso di significati, come quello sanitario.

    In questa fase è stato importante spiegare perché certe immagini possano ben rappresentare alcune tematiche, mentre altre ne simboleggino di diverse.

    Il risultato è stato un materiale artistico, che ripercorre un cammino che passa dall’io al voi, dall’io al tu, dall’io al Noi (Edelstein, 2013).

    Il laboratorio artistico, infatti, si colloca in questo caso tra due realtà: cosa vorrei essere capace di esprimere e cosa invece esprimo, cosa vorrei che l’altro fosse capace di esprimere e cosa invece esprime. Esplorare questo dualismo porta a riflettere e a considerare che posizioni diverse possano coesistere, che ognuna possa avere una propria ragione d’essere e che non esista un’unica e omologata modalità di espressione.

    Il tema centrale del nostro laboratorio è stato quello del riconoscimento: per riconoscere l’altro devo essere in grado di conoscere me stesso. Mi riconosco se mi conosco e anche per riconoscere l’altro devo conoscerlo in relazione alla sua cultura di appartenenza, alla fede religiosa, al ruolo familiare, all’orientamento sessuale e, in generale, alla realtà ambientale in cui vive.

    Il non riuscire a conoscere e il non sentirsi riconosciuti possono produrre un sentimento crescente di frustrazione, di intolleranza, di aggressività e di razzismo. La consapevolezza di questa rischiosa evoluzione nei rapporti con la persona di Cultura Altra (insieme alla consapevolezza che ciò possa essere evitato) è stata una scoperta raggiunta con il lavoro artistico individuale all’interno del gruppo.
    Tutti i partecipanti hanno infatti recepito l’importanza di dare spazio alla propria sensibilità creativa, al fine di mettere in scena una propria idea originale, rubando frammenti di immagini, inserendole in una nuova cornice ed elaborando un pensiero scritto per dare vita a un nuovo e diverso modo di conoscere.

    E’ inoltre importante notare come, alla fine del laboratorio, gli operatori fossero affaticati, ma soddisfatti; la fase più difficile, a detta di molti, è stata proprio la scelta delle immagini nelle quali riconoscere l’Altro e riconoscersi.

    Il prodotto finale: la pubblicazione

    Concludere il laboratorio artistico, percorrendo la strada della pubblicazione, ha significato un ulteriore riconoscimento per tutto il gruppo. La pubblicazione attuale vuole appunto dimostrare quanto e come l’attività artistica consolidi il recepimento del contenuto esposto nelle ore di formazione teorica e renda questa esperienza densa di significati.

    Abbiamo voluto ampliare inoltre la forma del prodotto finale: la persona che per prima ha letto questa raccolta, un infermiere, ha chiesto il permesso agli operatori di poter aggiungere a ciascuna immagine un petit onze. Esso consiste inun componimento poetico molto rigido, perché usa solo 11 parole: sulla prima riga c’è una parola, sulla seconda due, sulla terza tre, sulla quarta quattro e sulla quinta si torna a un’unica parola. Il risultato finale consiste quindi nell’immagine, affiancata dalla descrizione e dal suddetto componimento poetico.

    La realizzazione di questa raccolta è stata possibile grazie a tutte le persone che hanno donato la loro competenza, la loro professionalità e il loto pathos, sopratutto considerando la mancanza di un servizio interculturale strutturato, all’interno del Policlinico Tor Vergata di Roma.



    Bibliografia

    Edelstein, C. 2013, L’epistemologia del “Noi” nel modello sistemico pluralista: il riconoscimento dell’Altro come processo circolare, dinamico e riflessivo nei percorsi di aiuto, in Riflessioni sistemiche, vol. 8. (Rivista elettronica ad accesso libero: https://www.aiems.eu/presentazione.html).

    Collection Cahiers M@GM@


    Volumes publiés

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com