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    Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.2 Mai-Août 2012

    LA SOSPENSIONE DELL'ESILIO: NARRAZIONI DI RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO IN AMBITO CLINICO


    Elisa Mencacci

    elisa.mencacci-1@unitn.it
    Dottoranda presso la Scuola di Dottorato di Scienze Psicologiche e della Formazione dell’Univ. Degli Studi Di Trento con un progetto di ricerca incentrato su narrazioni di rifugiati e richiedenti asilo in ambito psichiatrico. Laureata in Antropologia sociale dei saperi medici presso l’Univ.degli Studi di Bologna, collabora dal 2006 con il Centro di Studi e Ricerca G. Devereux.


    Introduzione

    “Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intaccare, modellare e assicurare i gesti, le condotte le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non soltanto quindi le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline giuridiche etc… la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura (…) e- perché no – il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi in cui migliaia di anni fa un primate – probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro – ebbe l’incoscienza di farsi catturare” (Agamben, 2006: 21-22).

    Uomini e donne provenienti da luoghi distanti, con alle spalle esperienze diverse e variegate entrano nei paesi della così detta “Fortezza Europa” con l’intento di trovare sicurezza in un luogo capace di offrire protezione dalle minacce vissute nei paesi di origine. Perché ciò avvenga il trascorso di queste persone deve essere riconoscibile ed inscrivibile in quel contenitore linguistico-burocratico che prende il nome di “rifugio”.

    Il termine latino refùgium “luogo di scampo e sicurtà per chi fugge” è strettamente connesso a quello di asilo: dal greco asylos “ sacro, inviolabile. Così venne anticamente appellato ogni luogo sacro, come gli altari, le tombe degli eroi, i boschi dedicati a una divinità e nel medioevo le chiese, i conventi e simili, dove si rifugiavano coloro che erano minacciati dal rigore delle leggi, od oppressi dalla violenza dei tiranni, e dal quale non si poteva togliere a forza chi vi si rifugiava”. L’istituzione dell’asilo, era dunque presente anche nell’antichità, contraddistinta allora dalla dimensione dell’ospitalità e della protezione. L’asilo cambia nel corso dei secoli divenendo con la Convenzione di Ginevra del 1951 un’istituzione sempre più ambivalente. Si concettualizza nel dopo guerra la figura del rifugiato politico, inizialmente cucita sulla figura del cittadino europeo in fuga dagli eventi del secondo conflitto mondiale e che attualmente sta attraversando un processo di naturalizzazione, reificandosi intorno ad immaginario di vittima traumatizzata proveniente da paesi storicamente subalterni.

    Rifugiati e richiedenti asilo approdano nei territori dell’accoglienza a seguito di fughe spesso istantanee, che non concedono il pensare a un preciso progetto migratorio e che lasciano dietro le spalle di questi attori il disordine di una dimensione personale impossibile da assestare. La fase migratoria che segue la fuga è spesso imprevedibile, faticosa, caratterizzata talvolta dall’ “incontro” con ulteriori esperienze traumatiche. Per quei fattori riconosciuti come di resilienza, questi soggetti resistono allo stress vissuto ed approdano in terra d’accoglienza ospitati da strutture di diverso tipo, da dormitori presenti nel territorio cittadino che garantiscono un’ospitalità esclusivamente per le ore notturne, ai più strutturati centri di accoglienza dove è possibile soggiornare per un periodo di circa sei mesi. Segue il percorso per il riconoscimento del diritto di asilo, durante il quale questi attori devono ripensare alla loro storia, ai motivi che li hanno condotti alla fuga e alla raccolta del maggior numero di prove disponibili per affrontare le varie Commissioni territoriali che emaneranno il verdetto.

    E’ stato osservato quanto proprio questa fase di attesa e di conseguente impotenza fosse il momento cruciale in cui il malessere esplodeva provocando in questi soggetti dei vissuti di sospensione, dove il corpo era presente, ma il pensiero era altrove. La sofferenza riportata da rifugiati e richiedenti asilo parlava di un’incapacità di coniugare il passato con il presente, il pensiero tornava prevalentemente nei momenti notturni a far visita ai luoghi di provenienza, capace di rievocare vissuti di dolore, ma ai quali comunque veniva attribuito un senso, in opposizione alla vacuità del presente migratorio che stavano attraversando nel quale non vi era la possibilità di dare una ragione all’esser-ci, se non attraverso il riconoscersi nella categoria macchiettistica di rifugiato.

    Attraverso questo elaborato, frutto di un iniziale resoconto di un più ampio progetto di ricerca, si intende riflettere sul rapporto tra esperienza di rifugio e il complesso ambito della salute mentale. Condotta all’interno di un Centro di Salute mentale di Bologna, l’indagine cerca di riflettere, con una modalità attiva, su le strategie più opportune per intervenire con persone provenienti da questo tipo di esperienza. Siamo all’interno di un setting già da anni strutturato secondo un taglio pluriprospettico, dove l’approccio medico-psichiatrico s’incontra con lo sguardo antropologico. Le due figure utilizzano l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale. Il setting ha preso forma nell’intento di fornire un servizio quantomeno sensibile alle particolari richieste che provengono da pazienti migranti, dunque da soggetti provenienti da luoghi altri. Si è fatto uso degli strumenti provenienti dall’antropologia della sofferenza sociale, disciplina attenta a investigare su quanto le dinamiche di potere e i meccanismi di posizionamento sociale possano essere considerati come veri e propri agenti patoplastici e della narratologia, quest’ultima usata con l’intento di leggere nei racconti clinici il modo in cui rifugiati e richiedenti rappresentano questa particolare esperienza di migrazione. Il vissuto di sospensione emerge come contenitore in grado di descrivere la condizione che questi soggetti vivono per gran parte del loro percorso. A giocare un ruolo importante sono i sistemi di accoglienza stessi, strutturati secondo logiche precise, tese a scandire il percorso per “divenire rifugiati” in fasi chiare e piuttosto rigide. I sistemi di accoglienza possono essere descritti come una giostra liminale, sopraelevata dalla realtà, dove questi soggetti entrano in un percorso teso in primo luogo a manipolare, cucire la loro storia in modo da riuscire a presentare la loro esperienza trascorsa in un modo adeguato e riconoscibile con il fine di riuscire ad entrare nei criteri stabiliti per essere considerati degni di ottenere la protezione internazionale.

    Attraverso un lavoro di cucitura di lembi e segmenti del proprio passato, viene chiesto a queste persone di compiere contemporaneamente un atto auto-poietico e antropo-poietico (Remotti, 1999), dunque un lavorio di costruzione di sé per rientrare in una frangia di popolazione artificialmente e culturalmente costruita. Se le fasi del processo d’inserimento sono scandite dai tempi della burocrazia e dell’accoglienza, anche l’atto del ricordare e la possibilità che questo concede di rievocare il passato segue questa ritmica, i movimenti del pensiero sembrano essere modulati dalle fasi dell’inserimento in un processo che possiamo definire d’incorporazione (Csordas, 2003), attraverso cui i tempi del pensiero sembrano assorbire e riflettere il posizionamento sociale concesso dalla ritmica burocratica.

    L’estraneità dell’arrivo

    “Arrivate nella stazione di Bologna siamo scese dal treno, mi sono distratta un attimo, non mi ricordo di preciso a fare cosa, mi sono girata a cercare la signora che mi aveva accompagnato per tutto il viaggio, l’ho cercata con lo sguardo, ma lei non c’era più, era scomparsa. Mi sono ritrovata da sola nella stazione, di una città che non conoscevo, in un paese che non conoscevo, senza poter parlare una lingua che mi permettesse di comunicare, ero senza soldi, senza documenti, la signora teneva con sé i documenti e tutto ciò che ci era servito per arrivare in Italia. Ho avuto paura, mi sono sentita abbandonata. Ho dormito qualche giorno in stazione, senza mangiare e senza potermi lavare, poi una mattina ho incontrato una donna di un paese vicino al mio, le ho raccontato la mia storia, mi ha detto che potevo andare alla Caritas per mangiare e che dovevo andare in questura a fare la richiesta di asilo”.

    “Quando sono arrivata qui ho visto i bianchi gli ho chiesto – Dove sono? Mi ha detto che mi ha portata via altrimenti mi avrebbero uccisa. In aereo mi ha dato dei documenti, mi ha detto di non guardarli. Quando siamo scesi dall’aereo mi ha detto che andava a prendermi qualcosa da mangiare – e non è più tornato – io ho aspettato. Sono rimasta fuori due giorni. Tutti i bianchi quando mi avvicinavo per chiedere qualcosa mi allontanavano. Erano due giorni che non facevo la doccia, mi vergognavo, ho iniziato a puzzare”.

    Questi stralci di narrazioni, tratti da resoconti di due diversi colloqui clinici, rimandano alla fine di un viaggio e all’inizio di un percorso. Sono soprattutto donne provenienti dal continente africano che descrivono in questo modo il loro arrivo in Italia dopo la fuga da contesti in cui hanno dovuto affrontare esperienze spesso traumatiche e vissuti di persecuzione. L’arrivo nel paese dell’accoglienza inizia con un vissuto di smarrimento e di abbandono; è ricorrente nelle storie ascoltate la presenza di figure che, assunte le vesti di accompagnatori durante il corso di tutto il viaggio, improvvisamente scompaiono, in modo fugace, senza lasciare ne tracce, ne documenti, ne indicazioni. Faticosamente, queste persone arrivate in un luogo apparentemente sicuro, ma estraneo cercano un gancio per ancorarsi alla nuova realtà, qualcosa o più spesso qualcuno che possa offrire indicazioni minime, ma indispensabili per capire come orientarsi all’interno di una dimensione così nuova.

    “Ho ascoltato quello che mi ha detto la signora, che per fortuna parlava francese, mi ha spiegato dove dovevo andare, ma era sabato e tutto era chiuso, ho dovuto aspettare altri due giorni in stazione, poi il lunedì sono andata alla Caritas, lì ho potuto mangiare, prendere dei vestiti puliti, poi sono andata in Questura dove ho richiesto i documenti e poi in Comune dove mi hanno dato un posto in un dormitorio. Era affollato, in camera eravamo in tante. E’ stato difficile anche perché non potevo stare lì tutto il giorno, la mattina presto dovevamo uscire perché chiudeva e potevamo tornare solo la sera alle sette, giravo tutto il giorno, non sapevo dove andare e pensavo, pensavo, a casa a cosa stava succedendo e a come sarei riuscita a vivere qui”.

    “Ho visto questo signore nero, ho parlato nella mia lingua, mi ha risposto, gli ho spiegato la storia, gli ho chiesto dei soldi per tornare casa, mi ha detto che non poteva aiutarmi, gli ho chiesto se potevo nascondermi in casa sua, mi ha detto che non poteva, ma che poteva portarmi in un posto dove potevano aiutarmi. Mi ha portato all’ (nome dell’istituzione che si occupa della pre-accoglienza dei richiedenti asilo). Volevo che lui mi portasse con sé, mi ha detto che lì potevano trovare una sistemazione per me. Ho parlato con una signora lì dentro che mi ha fatto andare al (nome di un dormitorio a Bologna). Lì il giorno dovevo uscire per tornare la sera alle sette. Stavo lì davanti tutto il giorno, stavo lì fuori, anche se qualcuno mi diceva qualcosa -non capivo-, una volta ero lì fuori e piangevo, un signore mi ha toccato la spalla e ho reagito, gli ho dato uno schiaffo.

    Mi hanno spostato al (nome di un'altra struttura), ma anche lì dovevo uscire alle otto e trenta e tornare alle sei di pomeriggio. Una volta sono dovuta uscire di corsa, avevo l’abbonamento, ma l’ho lasciato lì e il controllore in autobus mi ha trovata senza abbonamento, io non capivo niente di quello che diceva e mi ha fatto una multa di sessanta euro. Adesso ho la Commissione, ho già depositato la mia storia in Questura nella mia lingua. La notte non riesco a dormire, mi addormento alle cinque, ma alle sette devo uscire. Ho dei capogiri tutto il giorno, passo le mie giornate in Sala Borsa (Biblioteca pubblica di Bologna), ma mi svegliano”.

    Sara e Olga, chiameremo così, le signore dai cui racconti sono estratti questi stralci di narrazione. Sara e Olga iniziano progressivamente ad entrare nel circuito dell’accoglienza. In questi brevi brani, descrivono la sospensione che deve necessariamente attraversare chi occupa una posizione d’ombra all’interno del tessuto cittadino, chi non è ancora in possesso di un luogo definito nel quale abitare e di un contenitore burocratico, in grado di legittimare il senso della presenza nel territorio. Dai colloqui svolti nell’ambito delle istituzioni tese alla cura della salute mentale, ai colloqui a cui si è assistito nel corso degli anni in cui si è svolta la collaborazione per vari progetti di ricerca, è emerso come il circuito dell’accoglienza sia scandito da tappe fisse, quasi rituali, che devono necessariamente essere attraversate da questi attori. Il percorso inizia con una breve e circoscritta fase che potremmo definire di “orientamento e di primo contatto” con una nuova dimensione, in questo caso svolta nelle sale di attesa della stazione, in altri casi nei pressi dei porti, la natura del luogo dipende non dalla scelta dei soggetti, ma della corrente delle tratte transnazionali.

    Quelli come Sara e Olga, a cui è stato consigliato di richiedere la protezione internazionale si dirigono in Questura. Nel fare la richiesta d’asilo viene consegnato un modulo in gergo detto C3 ossia il “ Verbale delle dichiarazioni degli stranieri che chiedono in Italia il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951”. Attraverso questo modulo, vengono posti al richiedente una serie di quesiti; alcune domande chiuse riguardano la religione, il nucleo famigliare, l’occupazione lavorativa; sul finire del foglio viene chiesto con una domanda aperta di spiegare le motivazione alla base della richiesta di protezione internazionale e si consiglia di allegare un resoconto della propria esperienza in carta libera che verrà poi tradotto dalla lingua madre in Italiano e depositato in vista della Commissione territoriale, istituzione attraverso cui i richiedenti asilo vengono riconosciuti idonei o meno per ottenere lo status.

    Inizia con la deposizione di questo documento il lavoro che i richiedenti asilo devono compiere sulla loro storia e attraverso questa per arrivare ad ottenere la protezione internazionale. Una cucitura di frammenti di ricordo, di sezioni di esperienze viene svolta insieme agli operatori e agli avvocati che supportano il richiedente all’interno dei dispositivi di accoglienza.

    “Entrati in una sala con un tavolo quadrato al centro, ci sediamo. Alla mia destra la mediatrice linguistica, accanto a lei Asif, seduta di fronte l’operatrice sociale che prende in mano un foglio bianco e traccia in orizzontale una sorta di linea del tempo, chiede poi ad Asif di collocare in corrispondenza di tacche verticali, distribuite sulla linea le tappe principali della sua vita relative alla sua richiesta di asilo. Asif è inizialmente vago, racconta la sua storia ma l’operatrice non ritiene preciso il racconto, Asif deve sforzarsi di collocare gli eventi in corrispondenza di date, e contestualizzare il tutto nella politica locale. Il signore è reticente, dice di aver scritto tutto quello che doveva nel primo documento depositato (C3), ma l’operatrice controbatte dicendo che il racconto è generico e non sufficiente, deve sforzarsi di essere più preciso. Asif prova a ritornare sugli eventi, ma il ricordo è troppo doloroso, si ferma e dice che non intende continuare, che quello che ha scritto è abbastanza e che racconterà solo davanti alla Commissione cosa gli è successo. L’operatrice prova a insistere dicendo che è lì per aiutarlo e che l’incontro con la Commissione deve essere preparato prima, perché le domande sono puntuali e che non può andare non preparato. Asif non intende continuare dice che solo l’aver provato a ricordare certe cose lo porterà a star male per una settimana”.

    L’incontro si chiude, viene consigliato ad Asif di provare a ricostruire la sua storia in un contesto più protetto come il centro di salute mentale presso cui è già in carico come paziente, assicurando che sarebbero stati rispettati i suoi tempi, Asif accetta.

    Questo episodio è frutto della trascrizione di un colloquio in cui si è prestato assistenza e supporto agli operatori del servizio legale che lavorano nei progetti di pre-accoglienza per rifugiati e richiedenti. L’episodio mostra la centralità dello strumento della narrazione ai fini di conquistare la protezione internazionale, ma la narrazione, come è possibile riscontrare dall’agire dell’operatrice sociale, non può essere libera, deve essere calibrata, cucita, il modo tale che l’esperienza soggettiva di questi attori riesca a riempire la sagoma predisposta dalla categoria di rifugiato. Preciso deve essere il raccordo tra date, vissuti e dimensione politica, alcune parti devono essere tagliate perché oscurano altre, che devono essere invece messe in luce, come gli eventi prettamente traumatici o gli episodi di persecuzione. Il lavoro che i richiedenti asilo devono fare non è semplicemente un lavoro di assemblaggio di trame narrative, ma un più profondo lavoro sul sé, un lavoro che possiamo definire sia auto-poietico che antropo-poietico (Remotti, 1999). A supporto del lavoro fatto sulle narrazioni vengono scritti per la Commissione territoriale certificati da parte di professionisti della medicina legale che attestano e riconoscono la natura di cicatrici e di segni sul corpi di questi attori insieme a certificati psichiatrici con diagnosi di Disturbo Post traumatico da Stress, che riconduce il malessere di queste persone a una dimensione patologica del ricordo, una disfunzione della memoria intaccata e ferita dalle esperienze traumatiche.

    Gli attori per divenire rifugiati devono passare attraverso un duplice percorso, da un lavorio identitario che riguarda la narrazione dell’esperienza, coinvolgendo la parte più intima dei vissuti personali a un lavoro più esterno, sul corpo, sui suoi marchi e le sue ferite, cercando d' intessere le storie con le tematiche supportate dagli immaginari: il trauma e la dimensione della vittima .

    La cornice antro-popoietica attraverso cui cerchiamo di leggere questo frammento di fenomeno socio-culturale, permette perfettamente di comprendere la dimensione del “fare” (poiein greco), del manipolare culturale sulla materia del soggetto.

    La prospettiva del “fare l’uomo”e in questo caso del fare il rifugiato, inquadra questo processo dentro una trame dialettica che si muove tra soggetto e contesto sociale, se la persona nel ruolo di richiedente asilo deve necessariamente lavorare intimamente sul suo trascorso anche gli operatori dell’accoglienza, che Nikolas Rose (Rose, 1992) chiamerebbe “esperti di soggettività” devono intervenire perché l’intimo di questi attori combaci e rientri nei criteri culturalmente stabiliti, rispettando il mandato sociale di cui sono investiti. Le tempistiche richieste per compiere questo lavoro non rispettano sempre i tempi del ricordo, Il brano precedente mostra come Asif viva nei termini di una violenza quel dover rievocare forzatamente dei vissuti dolorosi. I tempi che i dispostivi di accoglienza richiedono per la presentazione delle narrazioni sono piuttosto rigidi e non sempre in accordo con le tempistiche intime dei soggetti. I circuiti dell’accoglienza sono organizzati secondo fasi precise che proveremo brevemente a descrivere.

    Accenni ai dispositivi di accoglienza

    Nel territorio bolognese tale dispositivo rientra nel sistema chiamato Sprar (sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo) provvisto della struttura di una governance multilivello finanziata dal Ministero degli Interni, in accordo con il Comune e gestita da organizzazioni del privato sociale. Il sistema Sprar ha un servizio centrale a Roma che svolge il ruolo di supervisione e raccordo di tutti i progetti di accoglienza per richiedenti asilo compresi in tale sistema e sparsi in tutto il territorio nazionale. I progetti sono plastici nelle varie realtà cittadine, prendendo forma nelle diverse esperienze territoriali.

    Nel contesto bolognese il progetto si divide in due fasi; il così detto 1)Pre-sprar, e 2)Sprar. Il primo è nato dalle ceneri del precedente servizio per l’immigrazione del Comune, non prevede un luogo di accoglienza preciso, gli utenti quasi interamente richiedenti asilo alle prime armi nell’esperienza di contatto con i servizi territoriali e con le pratiche burocratiche vengono distribuiti dagli operatori nelle strutture di bassa-soglia sparse nel contesto cittadino, come dormitori o strutture messe a disposizione da istituti religiosi. Ciò che caratterizza la fase detta Pre- sprar è appunto la dimensione del Pre- quindi di attesa e di preparazione, sia all’evento iniziatico dell’incontro con la Commissione territoriale, istituzione che deciderà se il richiedente può o non può diventare rifugiato, sia all’ingresso nella parte più strutturata del progetto; lo Sprar appunto. Quest’ultimo prevede un posto in un appartamento condiviso all’interno di uno dei due centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, collocati nelle zone periferiche della città. Il progetto è pensato in modo tale che il soggetto beneficiario venga seguito dagli operatori sia nelle fasi di attesa immediatamente precedenti alla Commissione, che nelle fasi successive di attesa della risposta relativa al riconoscimento dello status. La finalità è quella di predisporre per gli ospiti un percorso di supporto, di aggancio alla realtà locale e di formazione all’integrazione nel contesto cittadino. L’equipe del progetto, composta da un gruppo di operatori sociali ha contatti e si avvale dell’ausilio di avvocati esperti in materia di asilo con cui lavorano in accordo nella preparazione dei richiedenti.

    E’ una preparazione, quella a divenire rifugiati, che si svolge in una dimensione liminale, sospesa, dove la dimensione dell’attesa è il vissuto che fa da fondo all’esperienza. I centri, come precedentemente accennato sono collocati in zone periferiche, marginali rispetto alla vivacità del centro cittadino, riportando queste persone a popolare le aree di confine anche in contesto di asilo.

    Per rendere più fruibile il ragionamento si ritiene opportuno scandire in modo chiaro le fasi del percorso di accoglienza:

    Arrivo – orientamento
    Primi contatti con le Istituzioni territoriali (Questura- richiesta di asilo- C3) Comune servizi sociali
    Pre-Sprar (servizio di supporto legale – lavoro narrazione – preparazione Commissione – inserimento strutture a bassa soglia)
    Attesa
    Inserimento progetto Sprar (Centro di accoglienza- lavoro sul recupero dei certificati medici - corsi di lingua- supporto incontro Commissione
    Attesa
    Incontro Commissione
    Attesa
    Risposta
    Attesa
    Tentativo d’inserimento nell’ambito lavorativo

    Le fasi dell’accoglienza assumono la ritmica di un rituale contraddistinto dalla doppia velocità dell’alternarsi di fasi di passaggio a interminabili intervalli di attesa.

    Narrazione, trauma e cura

    Basta consultare un qualsiasi manuale di retorica o di storia della retorica per venire a sapere che la retorica classica era divisa in cinque parti, tra cui la dispositio che, riguardava in generale la messa in ordine delle cose che si dovevano dire durante l’orazione. La dispositio a sua volta era strutturata in quattro parti, tra cui la narratio, che era l’esposizione dei fatti. La narratio avrebbe dovuto essere un’esposizione obbiettiva, ma nessuno ci ha mai creduto e il termine lo dimostra. Basta consultare un buon dizionario di latino per scoprire che il verbo narro “narrare, raccontare, comunicare” (…) ha due sinonimi gnarigo e gnaro. Ora gnarigo, gnaro e narro derivano da gnarus o narus che apparentemente non ha a più a che fare con il narrare ma col sapere. (G)narus, è colui che sa, che ha cognizione di una cosa, che è pratico di una cosa. (Piasere, 2008:168)

    Leonardo Piasere, nel tentativo di spiegare etimologicamente l’origine e il senso della narrazione pone l’accento sulla dimensione del sapere, della consapevolezza. Dall’esperienza di ricerca e assistenza alla clinica è emerso come per questi pazienti sia ambiguo l’atto del narrare, un’ambiguità che si gioca sulla consapevolezza dell’utilità dell’atto stesso e la volontà di far scivolare il ricordo nell’oblio. Se la narrazione ha come capacità principale quella di tessere i frammenti dell’esistenza in una struttura plastica, permettendo al soggetto narrante di ordinare i vissuti in uno schema narrativo, il processo diventa complesso quando certi brandelli di esperienza, come in questo caso quelli traumatici non sono integrabili nella consequenzialità dei vissuti interni. Nonostante non si consideri il trauma come l’elemento focale della sofferenza di questi soggetti nel contesto d’immigrazione, è indubbio che esso generi una frattura nell’esperienza provocando spesso dei fenomeni di rimozione o di sospensione del pensiero conseguenti all’innalzamento delle difese della psiche. Ciò avviene perché la mente cerca di costruire degli argini tesi ad evitare che la violenza di un evento inconcepibile risulti sovrastante ed annichilente per la personalità del soggetto. La rimozione evita al pensiero di trasformare l’orrore in esperienza, distaccando l’individuo dalla dimensione del dolore. Questo tipo di esperienze estreme prendono però le forme di brandelli di ricordo incontrollabili che s’insediano autonomamente nel pensiero. Il trauma ha la capacità di interferire sulle funzioni mnesiche, riducendo la capacità di concentrazione e provocando spesso un’interruzione della continuità esperienziale andando a ledere il senso dell’identità del soggetto (Giordani, 2009).

    Russel Meares, nel suo lavoro psicoterapeutico con soggetti che hanno vissuto esperienze traumatiche, introduce il concetto di “alienazione” ( Meares, 2005) per spiegare come gli eventi traumatici vengano collocati dalla psiche in una dimensione estranea e scollegata rispetto all'ordinario flusso di coscienza. Vedremo in seguito come la rigidità e la sequenzialità siano le caratteristiche principali dei racconti di coloro che hanno dovuto vivere esperienze di questo tipo; una rigidità che rende la trama fissa, immobile come sei i racconti assumessero la conformazione di “mnemotecniche”, dunque di pratiche contenitive per quei ricordi che non possono essere assorbiti dall'intimità del Sé. Meares usa la metafora della “collana di perle” per descrivere questo tipo di “narrazioni” dove gli eventi raccontati si presentano singoli, staccati gli uni dagli altri.

    Processi di cura nell’ambito della salute mentale

    Nel primo appuntamento presso il Centro di Salute Mentale, il setting è composto dal medico-psichiatra di riferimento, dalla figura con formazione antropologica, dal mediatore linguistico e dall’operatore sociale del centro di accoglienza che accompagna il paziente e interviene se necessario, mettendo in luce gli aspetti che nel quotidiano sono riscontrati come più problematici. Alla fine del colloquio viene stabilito il tipo d’intervento più opportuno; se il disagio del paziente non è riconducibile a una dimensione psicopatologica, ma a più lievi vissuti di sospensione e frammentazione s’interviene con dei colloqui di tipo narrativo e di supporto, che s’intervallano all’attività clinica.

    I colloqui di tipo narrativo vengono posti a cadenza settimanale o bi-settimanale, ogni due colloqui ne è previsto uno in co-presenza con il medico psichiatra. Il setting rimane invece compatto per tutta la durata del percorso terapeutico per quei casi dove lo stare emotivo della persona è stato intaccato in modo più profondo dall’esperienze traumatiche o dagli eventi che possono aver caratterizzato il percorso migratorio. Vista la delicatezza delle tematiche che sottostanno ai vissuti di questi pazienti e il potenziale di sofferenza che può scaturire da un processo di riesumazione del ricordo, è stato deciso dal medico di riferimento di contenere il recupero della memoria traumatica in uno spazio terapeutico fisso e rigido che si snoda in quattro appuntamenti a cadenza settimanale che si svolgono nella medesima fascia oraria, nel periodo immediatamente antecedente all’incontro con la Commissione. Strutturando l’intervento in questo modo viene permesso alla memoria di riportare alla luce i ricordi dolorosi all’interno di un contenitore terapeutico dotato di argini precisi, capaci di tutelare il resto del pensiero e del quotidiano dal potenziale pervasivo di queste memorie. Posizionare l'intervento nel periodo immediatamente precedente all’incontro con la Commissione permette di sfruttare la dimensione motivazionale di quel momento particolare, portando il soggetto a significare il doloroso processo di rievocazione in un’ottica strumentale. Diverse sono le fasi che i richiedenti asilo devono attraversare nel loro percorso per divenire rifugiati e per inserirsi nel contesto ospitante, si è precedentemente tentato di mostrare come queste fasi, che abbiamo considerato di passaggio, siano piuttosto cadenzate e intervallate da periodi di attesa. Nel corso di questo lavoro di ricerca e di assistenza alla clinica, si è notato come non tutte le fasi attraversate da questi soggetti siano favorevoli ad un processo di rievocazione, si è infatti osservato che questi soggetti vivono il colloquio con la Commissione come un vero spartiacque tra il passato e il futuro, di conseguenza lavorare sul passato in un momento in cui il soggetto si sente appartenente ad una nuova dimensione risulta inadeguato. Le persone, sentendosi in una dimensione altra, mettono in atto delle resistenze nel venire trascinate verso ricordi che oltre ad essere dolorosi, risultano anche non collocabili nel nuovo, in quando spesso i periodi che seguono “l’importante incontro” sono contraddistinti oltre che dall’attesa anche da un mal tollerata inattività, visto il difficile ingresso nel mondo del lavoro. Risulta dunque difficile in queste fasi di sospensione integrare il passato con il presente, senza un nuovo scorrere del quotidiano diventa problematico anche un processo di elaborazione dell’esperienze trascorse.

    Primo colloquio

    Bilal ha diciannove anni, arriva accompagnato dall’operatrice sociale del centro d’accoglienza dove risiede che lo segnala al servizio di salute mentale per una forte insonnia manifestata dal ragazzo stesso. Bilal decide di affrontare il primo colloquio da solo, senza l’ausilio del mediatore linguistico. Inizia a raccontare faticosamente di essere arrivato in Italia da un paese dell’Asia Centrale quasi due anni fa, quando era ancora minorenne e di essere stato ospitato per un anno in una comunità per minori non accompagnati. Titubante, dice che l’esperienza è andata bene, per circa sette mesi è andato a scuola, è stato poi inserito in una borsa lavoro che è scaduta dopo sei mesi. Compiuta la maggiore età viene inserito, ancora privo del riconoscimento di protezione internazionale nel progetto cittadino per richiedenti asilo. Parla a stento, le frasi sono secche e brevi, fatica ad argomentare la sua condizione. Gli viene chiesto dal medico di spiegare i motivi per cui ha fatto richiesta di un colloquio, risponde che da qualche mese non riesce a dormire, il medico incalza, chiedendo se nell’arco di quest’ultimo periodo è accaduto qualcosa che ha destato in lui delle preoccupazioni e se aveva già avuto in passato questo tipo di problematica. Bilal risponde che quattro mesi fa’ si è chiusa la sua esperienza di borsa lavoro, che da allora non percepisce stipendio, passa le sue giornate in casa e che era la prima volta che si presentava il problema. –“Cosa hai pensato tu quando è iniziata l’insonnia?” chiede il medico –“Che avevo problemi con la mia famiglia” risponde, “Come è composta la tua famiglia?” –“ Ho mia madre che vive con i miei due fratelli più piccoli, e due sorelle più grandi che sono sposate e vivono in un’altra città, mio padre non so dov’è, è dovuto andare via, poi sono andato via anche io”, gli viene chiesto di spiegare cosa lo preoccupa al momento. “Niente, la situazione è brutta, ho paura che i miei fratelli più piccoli siano costretti a partire come è successo a me e a mio padre”, viene nuovamente incalzato, Bilal riprende il racconto –“I vicini volevano la nostra terra, noi non volevamo dargliela. I vicini avevano più potere, hanno minacciato, sparato. Il babbo è partito perché aveva subito minacce”. “Perché hanno voluto che tu partissi?” Chiede il medico “Perché hanno sparato su di me. Prima mi hanno minacciato, hanno detto che avrebbero fatto a me quello che hanno fatto a mio padre, poi hanno sparato, ma non mi hanno preso. A mia madre non possono fare niente perché è una donna, solo i figli maschi possono fare i contadini”. Il medico chiede se c’è la possibilità che la madre mandi altrove anche gli altri due figli più piccoli, il ragazzo risponde di si –“ Non possono sopportare le cose che ho sopportato io, sono troppo piccoli. Due anni fa, dopo che sono andato via io, hanno iniziato a minacciarli, da allora stanno male, hanno problemi al cervello”, “Cosa è stato fatto?”. – “Sono stati portati in ospedale. Adesso sono a casa, non fanno nulla”.Viene spostato il racconto sul tema del viaggio. “Il viaggio è stato brutto, un mio amico mi ha aiutato a partire, sono passato dall’Iran alla Turchia, poi subito in Grecia, ma non avevo niente, per un periodo ho dormito fuori, poi da qualche amico, non c’èra lavoro in Grecia, non potevo rimanere. Mi sono imbarcato su un camion, sono passato dalla Slovenia e poi a Bologna”. Come ultima domanda il medico chiede se Bilal ha memoria delle situazione politica del suo paese durante l’infanzia. Il ragazzo risponde timidamente “C’èra la pace”.

    Il colloquio viene chiuso con una riflessione capace di rimandare al paziente il senso della sua sofferenza, contestualizzata nella fase che lui sta attraversando. L’attesa, protratta nel tempo, viene letta come condizione difficilmente tollerabile in giovane età. Bilal non sta lavorando da diversi mesi, il non riuscire a mandare un contributo economico alla famiglia rimasta a casa acquista una doppia valenza, sia di frustrazione sia di impossibilità di alimentare il legame con i suoi cari. In accordo con il medico di riferimento viene deciso di intervenire tramite uno lavoro narrativo in grado di riportare Bilal a riscoprire chi era “in tempo di pace”, prima che il concatenarsi di quegli eventi dolorosi lo trascinassero in una fuga obbligata dal suo paese. I colloqui svolti sono stati in tutto sei, nei primi due si è cercato di riportare il ragazzo sulle sensazioni e i vissuti che avevano contraddistinto il suo stare nel passato. Nel mentre è stata comunicata al ragazzo la data dell’incontro con la Commissione; in vista dell’evento è stato svolto un lavoro sul recupero della memoria con l’intento di rafforzare il ricordo come strumento mediante il quale rivendicare il diritto alla protezione internazionale. Negli ultimi due colloqui sono state toccate tematiche legate al presente del contesto migratorio. Per il lavoro di ricostruzione narrativa è stata utilizzata la traccia emersa nella priva visita, come fosse canovaccio da cui partire per poi costruire il resto del racconto.

    Il percorso è iniziato con il riportare Bilal nei locali della sua abitazione nel paese di origine; la casa viene descritta con una corte centrale, condivisa da altre famiglie che avevano figli delle sua stessa età, che ricorda più spensierati di lui. Sereno è il periodo l’infanzia fino ai nove anni, quando i vicini di terra appartenenti al partito al governo, avverso a quello del padre, iniziano a minacciarlo per impadronirsi dei campi di famiglia. Il padre per due anni resiste alle tensioni, successivamente per scelta del suocero, parte, e di lui vengono perse le tracce. Quasi contemporaneamente alla fuga del padre, le minacce si ripercuotono su Bilal, che eredita dalla figura paterna, oltre al ruolo di capofamiglia anche l’impossibilità di reagire agli eventi.

    Racconta a stenti, di quando ogni due o tre giorni i “nemici”, come lui li chiama, arrivavano con fucili e bastoni, picchiandolo e minacciandolo di morte. Resiste come il padre per un paio di anni alle pressioni, in seguito la madre stremata dalla condizione gli impone la partenza. Il viaggio viene organizzato nell’arco di quindici giorni, secondo i consigli di un compagno di classe che aveva contatti con i trasportatori e dopo otto mesi Bilal si trova in Italia. Ospitato da una comunità per minori non accompagnati, scopre nel corso di una telefonata con la madre che le minacce si sono riversate sui fratelli più piccoli che non riuscendo a resistere allo stress hanno iniziato a manifestare problemi di salute mentale. Bilal riesce a mandare qualche soldo a casa nonostante lo scarso guadagno percepito da una borsa lavoro. Si intervallano momenti di scarsa attività a momenti di disoccupazione, riesce a prendere la licenza media ed entrare nel centro di accoglienza per richiedenti asilo, nuovamente una borsa lavoro di pochi mesi in una pizzeria, nuovamente nessuna assunzione. “Mi sono sentito preso in giro” dice. Bilal alterna fasi d’investimento a momenti di disillusione, amplificando il vissuto di passività che fa da sfondo alla sua storia.

    A seguito di un lungo periodo di inattività emergono i primi segni di malessere, in concomitanza con una telefonata della madre che gli comunica il peggioramento della salute dei fratelli, la situazione lo mette in allarme riportandolo al passato, inizia ad essere insonne e le preoccupazioni monopolizzano il suo pensiero. E’ in questo momento che si presenta al centro di salute mentale, seguendo il consiglio dell’operatrice sociale di riferimento.

    Per Bilal è stato difficile lavorare sulla sua storia. Le frasi erano brevi, doloroso ritornare su qualunque evento del suo trascorso, necessitava continuamente di essere incalzato, il pensiero risultava bloccato, come se qualunque sensazione non riuscisse ad emergere. Anche gli eventi positivi del suo passato risultano schiacciati, come se qualunque slancio emozionale fosse stato messo a tacere. Il vissuto di passività che contraddistingue la sua esperienza, viene amplificato dall’inattività e dall’essere privo per un lungo periodo del riconoscimento dello status, generando in lui quel vissuto di sospensione che impedisce al Sé di ricollocarsi nella nuova dimensione del presente migratorio. In questa condizione risulta difficoltoso tessere qualunque tipo di memoria, specialmente quelle di carattere traumatico, per cui il potenziale di dolore racchiuso dall'evento traumatico stesso è tale da non poter essere riassorbito dal restante flusso d'esperienza.

    “Incapaci di integrare memorie traumatiche, essi sembrano aver perduto anche la capacità di assimilare nuove esperienze. E' come se... la loro personalità si fosse definitivamente fermata ad un determinato punto, e non si potesse ampliare più di così per l'aggiunta e l'assimilazione di nuovi elementi” (van der Kolk et al. 1996: 53 in Meares, 2005: 77).

    Sono partito a Maggio 2007, da (nomina una città del suo paese di origine) e sono arrivato al confine con l’Iran. Ho impiegato due giorni. Siamo partiti in cinque ragazzi. La persona che ci istruiva non era con noi, l’ho pagato per arrivare in Grecia, lui ci aspettava in Grecia e suo nipote era nel (nomina la città di provenienza) che ci dava istruzioni. Entrati in Iran siamo rimasti quattro o cinque giorni nella prima città Zahedan, poi a Theran altri due giorni, tutto il viaggio è stato fatto in autobus tranne un paio d’ore in a piedi, passato il confine. In Iran ci aspettavano delle persone per accompagnarci. Da Theran in camion fino alla Turchia. La prima città della Turchia non me la ricordo, poi siamo stati a Istambul e poi verso la Grecia. In tutto in Turchia siamo stati otto-nove giorni, poi sei-sette ore in barca, siamo arrivati a Rodi e lì siamo rimasti tre o quattro giorni in una campo profughi, ma non ci hanno preso le impronte, da lì siamo partiti per Atene, sotto consiglio dei trasportatori. Quando sono partito non sapevo niente, non avevo progettato niente rispetto alla meta.

    Arrivati ad Atene abbiamo dormito per strada per un mese, poi ho conosciuto delle persone del mio paese e subito sono andato in casa di queste persone, ma mi trattavano male perché volevano dei soldi e io non li avevo. Sono andato a casa di un altro signore del mio paese e lì sono rimasto per cinque/sei mesi, non lavoravo, pulivo casa e cucinavo. Mi sono messo in contatto con un afghano che organizzava il trasporto in camion fino all’Italia - mi aveva detto che in Italia si stava bene, era un camion frigo, ma i frigo erano spenti. Abbiamo fatto Romania, Ungheria, Slovenia in camion. Arrivati a Trieste la polizia durante un controllo ci ha trovato dentro un camion e ci ha rimandato in Slovenia, dove ci hanno messo in galera per dieci giorni, poi siccome eravamo minorenni ci hanno portato in comunità minori dove siamo stati un mese, non avevo soldi ma ci davano da bere e da mangiare. Gli educatori erano bravi ma io volevo venire in Italia. Potevamo uscire dalla comunità, così nel girare abbiamo trovato un signore che per settecento euro ci ha portato in camion direttamente a Bologna. Ho dormito fuori per tre/ quattro giorni, poi ho raccontato tutto a un signore del mio paese che quando ha sentito che ero minorenne, mi ha portato un Questura.

    Attraverso questo stralcio di racconto, tratto dal lavoro narrativo svolto con Bilal ai fini della Commissione territoriale, viene descritta dal ragazzo la partenza dal suo paese, l'attraversamento repentino di confini e territori, fino all'arrivo in Italia. Gli eventi vengono descritti in sequenze lineari, ma rigide fisse, quasi ritmate, questo estratto avrebbe i presupposti per essere considerato un a parte di narrazione ma, mancando di plasticità e vitalità, assume una fisionomia che possiamo definire resocontale.

    “La natura meno complessa del resoconto rispetto alla narrazione è implicita nella definizione di dizionario che evidenzia il fatto che il resoconto è senza elaborazione filosofica (…) le cose che sono successe vengono raccontate come se non avessero avuto accesso a quella forma di attività mentale non lineare che è alla base del flusso di coscienza (…) mentre la forma narrativa di dialogo ha una qualità spontanea, influenzata dai movimenti della vita interiore, la libertà del resoconto è ridotta. La sequenzialità del resoconto è ridotta. La sequenzialità è imposta dal fuori, dall'ambiente, incluso dall'ambiente somatico. Non si osserva una capacità da parte del soggetto di vagare nel tempo; egli è intrappolato nel presente. Il dialogo è dominato dalla memoria episodica: il passato remoto, che dipende dalla memoria autobiografica, non viene quasi mai menzionato” (Meares, 2005: 173).

    Conclusioni

    Affrontato l'incontro con la Commissione Bilal non vuole più parlare del suo passato, vorrebbe sentirsi altrove, ma l'attesa dell' esito e lo stato di disoccupazione non gli permettono di poter progettare il suo quotidiano e di poter pensare al suo futuro, è nuovamente sospeso Nei colloqui vuole affrontare solo il senso di blocco che vive nel presente, la frustrazione di non essere da nessuna parte. Bilal attraversa quella condizione che Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso, riprendendo Binswanger chiamerebbero “a mezza parete”, sintetizzando la condizione dell'alpinista che trovandosi bloccato nella scalata della montagna è impossibilitato a tornare indietro e incapace di andare avanti.

    Con questo scritto si è cercato di riflettere sul vissuto di sospensione che vivono i richiedenti asilo nei territori ospitanti. Una sospensione che assume una duplice forma; una sospensione da se stessi e in se stessi, data all'impossibilità di potere integrare nella propria parte più intima il potenziale di dolore legato alle esperienze traumatiche, per cui i ricordi di tali esperienze rimangono alienati, come descrive Meares, in aree estranee rispetto alla plasticità del flusso di coscienza, e una sospensione dettata dai tempi burocratici, dalle procedure dell'accoglienza e dalla difficoltà a costruirsi un percorso proprio nel paese d'arrivo.

    :-“Questo mese è andato un po’ così, mi devo fare coraggio. Sono molto contento di come l’avvocato ha difeso il mio caso durante il ricorso a Torino (…). Mi sento fiducioso, da quando sono tornato da Torino ho preso le medicine una sola volta, ho meno pensieri. In un mese dovrei avere la risposta.
    :-“Poi dovrai buttarti sulla lingua. Da quanto tempo sei arrivato in Italia?”
    :-“Da due anni, aspetto la risposta della Commissione per avere lo stimolo. Fino ad ora la mia mente era impegnata in mille pensieri, preoccupazioni (…) avuta la risposta della Commissione avrò la tranquillità per concentrarmi sulla lingua. Quando mi guardo oggi sono contento perché penso di essere stato salvato. I documenti servono anche per farmi trovare lavoro e Dio mi aiuterà anche in questo. I documenti servono anche per farmi sentire una persona, non uno inutile che cammina solo per strada e non sa dove andare. (…) Ho sentito i miei figli, sanno che ho dei problemi, ma gli ho detto che appena li risolverò potranno venire da me”.

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