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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    NARRAZIONI E SALUTE


    Micol Bronzini

    m.bronzini@univpm.it
    Dipartimento di Scienze Sociali, Università Politecnica delle Marche.

    Contaminazioni disciplinari

    Alle narrazioni di malattia si accostano oggi discipline diverse: dall’antropologia medica, cui si deve l’iniziale esplorazione di questo campo; alla medicina, che mostra segnali di insofferenza verso il riduzionismo biologico e la presunta oggettività propugnata dal paradigma imperante dell’evidence based medicine; alle scienze sociali, e in particolare alla sociologia della salute che, pur nella eterogeneità di approcci che la caratterizzano, ha ormai consolidato il proprio interesse per le pratiche narrative, come modalità privilegiata per la comprensione dei vissuti soggettivi di malattia (illness).

    Nell’ambito dell’antropologia medica il successo delle narrazioni di malattia si deve principalmente ai lavori del gruppo di ricerca avviato presso il dipartimento di antropologia di Harvard dallo psichiatra-antropologo Arthur Kleinman, e dall’antropologo Byron Good (Kleinman 1980, 1988; Good 1992, 1999). Nel solco dell’approccio ermeneutico-fenomenologico, e in risposta al prevalente riduzionismo biologico, i due antropologi di Harvard inaugurano il filone interpretativo e costruttivista dell’antropologia medica, focalizzandosi sulla dimensione narrativa dei vissuti soggettivi di malattia, ossia sulle illness narratives, e sui modelli esplicativi ad esse sottostanti. Viene, dunque, indagato il modo in cui le persone attribuiscono un senso all’esperienza di malattia che le coinvolge, affidando alla narrazione il compito interpretativo di (ri)costruire tali significati. In quest’ottica, le storie di malattia mostrano il modo in cui la stessa irrompe nei vissuti, alterando e distruggendo il mondo della vita quotidiana, ma, al contempo, concorrono alle strategie con cui i soggetti si impegnano a ricostruirli. Per la tradizione interpretativa dell’antropologia medica “la biologia, le pratiche sociali e il significato interagiscono nell’organizzazione della malattia quale oggetto sociale ed esperienza vissuta” (Good 2006, 84). Pertanto, le narrazioni di malattia costituiscono anche “un metodo nell’indagine comparata tra culture riguardo all’esperienza della malattia” (Good 2006, 205). Dove, se si intende il termine “cultura” in una accezione ampia, tale indagine comparata può essere estesa anche al confronto tra le diverse culture “professionali”o tra queste ultime e le culture “profane” di riferimento.

    Come anticipato, le narrazioni di malattia hanno avuto negli ultimi anni una notevole diffusione, non solo nella ricerca sociale, ma anche nella pratica clinica, come strumento di conoscenza medica e approccio terapeutico (Charon 2001). Sul versante propriamente clinico, la medicina narrativa si riferisce alla crescente applicazione delle narrazioni in ambito sanitario (soprattutto ad opera della professione medica e infermieristica), come strumento per migliorare la diagnosi, la relazione e il processo terapeutico, nonché per valutare la qualità delle cure. In quest’ottica, Rita Charon, medico internista della Columbia University, ha dato impulso all’acquisizione da parte dei medici di competenze narrative, considerate necessarie nel bagaglio formativo del professionista sanitario, per ricostruire la relazione fiduciaria con il paziente. La Charon sottolinea, inoltre, le affinità tra pratica narrativa e pratica medica, entrambe fondate sulla dimensione temporale, sulla singolarità, sulla causalità, sulla intersoggettività e sulla dimensione etica.

    A partire dal contributo di Charon si è sviluppata, prima in America e poi in Europa, la cosiddetta narrative based medicine (Nbm), che si pone a volte in contrapposizione, a volte in chiave complementare alla evidence based medicine (Ebm). Virzì e altri sottolineano come la Nbm sia un “modello empatico in grado di favorire un’elevata aderenza al trattamento nel paziente e di offrire all’operatore una metodica per la rilevazione del vissuto soggettivo di malattia” (Virzì e altri 2011).

    Si tratta, dunque, della proposta di (ri)portare la dimensione narrativa dentro il paradigma della biomedicina, come risposta, da parte dei clinici, alla percezione dell’inclinarsi della relazione terapeutica e all’accusa di aver perso la capacità di accostarsi alla persona umana ascoltandone la sofferenza, come conseguenza di una medicina sempre più specialistica e tecnologica.

    A testimoniare l’interesse crescente che si registra anche nel nostro Paese per le competenze narrative in ambito clinico (come attestano le recenti pubblicazioni su questi temi, cfr Masini 2005, Marinelli 2008, Virzì e altri 2001. Questi ultimi, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Catania, hanno fondato la Società Italiana di Medicina Narrativa e la rivista “Medicina Narrativa”), va segnalata, tra le altre, l’iniziativa dell’Istituto superiore di sanità, che ha avviato un programma e un sito internet dedicato alla medicina narrativa (https://www.iss.it/medi/). In questa prospettiva, il fine pratico della medicina narrativa viene ben sintetizzato dalle parole di Marinelli (2008, 11) “la medicina narrativa si pone il compito di comprendere l’uomo ammalato, di conoscere alcuni aspetti per migliorare il percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale”. Aggiunge, sulla stessa linea, Masini (2005, 7): “il significato costruito nella relazione può essere una investigazione anamnestica più profonda, può implicare l’analisi di vissuti essenziali per la diagnosi, può produrre cambiamento nella diagnosi, può essere terapeutico in sé per il paziente, o contribuire al miglioramento, o alla accettazione della malattia e delle cure”.

    Da questo punto di vista è evidente la forte spendibilità della medicina narrativa che, così intesa, sembra rispondere ad alcune delle sfide che oggi interessano i sistemi sanitari, a partire dalla presenza di un’utenza sempre più multiculturale, dalle esigenze di empowerment e dall’introduzione di programmi per il paziente esperto, alla valutazione della qualità dell’assistenza sulla base dalle esperienze dei cittadini, alla nuova partnership tra professionista e assistito, nell’ottica di una co-costruzione del percorso di cura, mediante la narrazione del medico e del paziente (ibidem, 32).

    Pur riconoscendo l’utilità di queste applicazioni, è opportuno sottolineare il rischio di una visione eccessivamente strumentale delle narrazioni di malattia, che ne riducano la portata, il loro essere più che strumenti, mezzi (intesi alla latina come “ciò che sta in mezzo”, un ponte, comunicativo, in questo caso) per la co-costruzione di senso dell’esperienza umana e per la comprensione della società. Le narrazioni di malattia sono anche un possibile terreno di confronto tra sapere “esperto” e sapere “profano”, tra “evidenza” e “rappresentazione”, oggettività e soggettività, disease e illness, dove, però, non si deve intendere ciascuna di queste coppie in modo dicotomico, quanto piuttosto in maniera complementare e interdipendente. Nelle narrazioni che coinvolgono medici e pazienti quest’ultimi negoziano con i primi i significati e i processi che li coinvolgono, come dimostra il “meticciato” linguistico, la mescolanza tra il linguaggio del disease [1] e quello dell’illness, spesso presente nelle storie di malattia raccolte, nelle quali i due registri si alternano nell’ambito di uno stesso racconto, o si sovrappongono ad opera di diversi narratori. I professionisti, sociali e sanitari, possono, dunque, essere formati ad accogliere e stimolare le narrazioni dei loro assistiti e a diventarne i primi lettori e coautori, quale occasione per co-costruire le rispettive conoscenze.

    Del resto il ricorso a una qualche forma narrazione è spesso una pratica implicitamente o esplicitamente diffusa nelle professioni di aiuto. Questa presenza abituale di varie espressioni narrative che, per usare le parole di Pellegrino (infra), “agiscono nella scena di cura”, sia in ambito sanitario che nel campo dei servizi sociali, se da un lato agevola il ricercatore che voglia intraprendere uno studio con tale impianto metodologico, dall’altro impone di chiarire la specificità della narrazione come strumento di ricerca sociale, rispetto alle aspettative di chi è già abituato a narrare la propria storia con altre finalità (la cura, la richiesta di aiuto, ecc.). Si pongono, inoltre, alcuni caveat in merito ai rischi che le cosiddette “buone narrazioni” influenzino l’operato dei professionisti che le raccolgono.

    C’è poi un ulteriore filone, ben noto alla pratica psicologica e psicoterapeutica, ma di crescente interesse anche per chi si occupa di cronicità, che guarda all’esercizio della scrittura narrativa come pratica terapeutica [2], come processo di cura, soprattutto nei casi che comportano una difficoltà di rappresentazione di sé. Questo approccio alle narrazioni esula però, almeno in parte, dagli interessi della presente riflessione in quanto sconfina in ambito strettamente clinico.

    Sentieri e sviluppi delle narrazioni di malattia nell’ambito della sociologia della salute e della medicina

    Sotto il profilo sociologico, le storie di malattia mettono in scena i significati sociali della malattia, il rapporto tra corpo, Sé e società. Anche quando prendono la forma di monologhi solitari, tali narrazioni non possono considerarsi, infatti, unicamente un elemento intrapsichico individuale. Innanzi tutto sociale è lo sfondo entro cui queste storie si collocano, in secondo luogo, le narrazioni rivelano i processi sociali da cui prendono corpo le storie di malattia: le pratiche di cura, le reti di capitale sociale e i contenuti da queste veicolati, la cultura di riferimento, i rapporti di potere ecc. Inoltre, le storie impiegano parole, metafore, espressioni che sono maneggiate socialmente e la stessa scelta di una forma narrativa piuttosto di un’altra è culturalmente e socialmente condizionata. Ma, ancor prima, la narrazione costituisce di per sé una forma di interazione sociale e, in quanto processo di attribuzione di significati intersoggettivi, costituisce a pieno titolo oggetto di studio della sociologia comprendente, pur non esaurendola.

    Nell’ambito della sociologia della salute, sono soprattutto gli approcci weberiani e husserliani a occuparsi dei processi di costruzione e comprensione, personale e intersoggettiva, dei significati dell’esperienza di malattia (illness). Le narrazioni di malattia tematizzano uno dei poli del cosiddetto triangolo terapeutico (Giarelli, 2009) - costituito dalla persona, dalla medicina e dalla società -, focalizzandosi sulla persona e sulla dimensione corrispondente della triade disease-illness e sickness, ossia quella della illness (Twaddle, 1968, 1994; Hofmann, 2002; Kleinman 2006). Il disease è, infatti, la malattia definita medicalmente come “malfunzionamento organico”, la illness è lo stato di salute interpretato soggettivamente come indesiderabile, la sickness è la malattia riconosciuta socialmente. I tre elementi della triade riflettono tre diverse prospettive sulla malattia: quella professionale, che si occupa della malattia in quanto fenomeno risultante da processi fisico-chimici e biologici, quella personale che si interessa della malattia come epifenomeno, come vissuto soggettivo e quella sociale, che definisce e legittima i comportamenti del malato in rapporto alla società. La sociologia della salute si occupa di tutti e tre i termini della triade, investigando in particolar modo, le relazioni, le tensioni, le influenze reciproche, le interdipendenze e i rapporti mutevoli che ridefiniscono continuamente gli spazi di intersezione [3]. Inoltre, riprendendo Hofmann (2002), ciascun elemento della triade presuppone un particolare tipo di agire: l’agire professionale, incaricato di identificare l’origine del disease, di spiegarlo e curarlo (tu cure e to care), l’agire narrativo chiamato a comunicare l’esperienza soggettiva della malattia, a comprendere e a prendersi cura (to care) della persona malata, l’agire politico deputato a definire i diritti e i doveri connessi al ruolo di malato. In questo frame teorico, le narrazioni di malattia non solo sono espressione di quell’agire comunicativo che dà accesso alla dimensione della illness, ma evidenziano al loro interno i casi controversi - in cui, pur in presenza di illness, manca una delle altre dimensioni (o entrambe) -, così come le contraddizioni dialettiche tra le tre prospettive.

    C’è poi uno scenario sociale che fa da sfondo alla attuale “svolta narrativa” che investe vari ambiti, compreso quello della salute: “dal punto di vista sociologico è possibile interpretare il fenomeno della narratività come forma espressiva di un contesto culturale in cui razionalismo, empirismo e realismo non riescono più a significare esplicative descrizioni del mondo capaci di dare nuovi significati all’interazione umana” (Masini 2005, 21). Da questo punto di vista la crescente diffusione di narrazioni di salute e di malattia può essere letta come una forma di resistenza all’iperspecialismo medico, alla perdita di capacità empatiche dei professionisti, ma anche all’analfabetismo emotivo (cfr Galimberti ) e all’estromissione sistematica della sofferenza dalla scena della vita quotidiana. Si assiste oggi a una spettacolarizzazione del dolore, alla rappresentazione di un dolore mediato e reso distante, di cui fanno sfoggio alcune “politiche del compatimento”, che nulla hanno a che vedere, però, con lo scambio comunicativo e intersoggettivo dell’esperienza di sofferenza e malattia.

    “Se riti e credenze hanno un vocabolario per il dolore (S. Natoli 2004, p.12), non così le routine istituzionalizzate della pratica medica e psicoterapeutica deputate a rimuoverlo. Pertanto, nel momento in cui la società conosce unicamente il dolore medicalizzato e allontanato dalla vista, non ha più un linguaggio per quella sofferenza che pur riappare e risulta incomunicabile. Si perde, però, in questo modo la dimensione del dolore come vissuto che reclama non solo la spiegazione ma l’attribuzione di un senso, lo spazio per una narrazione” (Orazi e Bronzini [4]).

    Si tratta allora di riscrivere la malattia e il dolore, oggettivati ed asportati selettivamente dal corpo malato, nel tessuto della vita. Questa è la strada percorsa dalla medicina narrativa, che profila una diversa competenza nei confronti della malattia e del dolore che restituisca loro uno spazio “pubblico”. Da questo punto di vista, la narrazione del proprio vissuto di sofferenza è innanzitutto un modo per (ri)elaborare la malattia come esperienza dotata di senso e per scambiarla simbolicamente con l’altro.

    La sociologia della salute e della medicina è chiamata, quindi, ad occuparsi di narrazioni di malattia come modalità per interpretare l’esperienza di malattia in quanto fenomeno umano e sociale, e i significati di tale esperienza, ma anche a riflettere sull’attuale svolta narrativa in ambito sanitario. Da questo punto di vista, se è vero, come sostengono in molti, che la svolta narrativa possa costituire una delle possibili risposte alla mercificazione della salute e della malattia, è più complesso da stabilire se rappresenti davvero il tentativo di invertire il processo di medicalizzazione della vita o se, al contrario, ne costituisca l’esito estremo, nella misura in cui la medicina si appropria anche delle narrazioni dei vissuti di malattia, con il rischio di imporre le sue interpretazioni.

    Le narrazioni di malattia rappresentano anche il terreno di incontro tra sociologia della salute e sociologia del corpo: all’interno degli approcci interpretativi di recente si è affermato, infatti, l’interesse per “l’esperienza incarnata della malattia”, dove il corpo “diventa una biografia fenomenologica, una nuova via per interpretare il dolore, la sofferenza e la malattia” (Pandolfi, 1990, 255, citata da Good 2006). Questa attenzione all’embodiment della malattia trova nelle narrazioni dell’esperienza di malattia il proprio campo elettivo: le storie di malattia mostrano come quest’ultima sovverta i caratteri del mondo della vita quotidiana, in primis la soggettività del corpo che da agente diventa improvvisamente agito (dalla malattia), oggetto di costante attenzione e preoccupazione, estraneo. Tuttavia, nel processo narrativo il corpo non è solo l’oggetto centrale di tali storie ma, come ricorda Rita Charon, ne è anche coautore. Attraverso la narrazione il corpo si sottrae al processo di oggettivazione cui lo sottomette la malattia: quel corpo divenuto un confine e un elemento di chiusura al mondo nell’irruzione della malattia, torna ad essere un veicolo di significati.

    Salute, malattia, corpo e mondo della vita quotidiana

    La patologia, che la medicina reifica e localizza nel corpo, per chi vive quel corpo come condizione e fondamento della propria esperienza dell’essere nel mondo, diventa una modalità di quello stesso essere nel mondo. La malattia, infatti, mette profondamente in discussione ciò che caratterizza il nostro rapporto con il “mondo della vita quotidiano”: la naturalezza dell’esperienza del mondo e la sua credibilità, l’accettazione non problematica della convenzionalità di tale mondo, la percezione di indivisibilità del sé, l’idea di comunicabilità e di reciprocità di prospettive, di un comune orizzonte temporale e di senso, l’intenzionalità dell’agire, l’illusione di invulnerabilità (Schutz 1979). Quando la malattia provoca un “mutamento nell’esperienza incarnata del mondo della vita”, quest’ultimo ne risulta cambiato, appare improvvisamente estraneo (Good 180).

    Se questa è la portata distruttrice della malattia, gli approcci fenomenologici partono proprio dalla narrazione dell’esperienza di malattia per ricostruire il mondo della vita, in chiave intersoggettiva e dialogica. Narrare la propria storia di malattia contribuisce a ricomporre una biografia “spezzata” dall’insorgere della stessa e a restituirle un orizzonte di senso: attraverso il racconto si recupera la continuità del proprio vissuto, ricollegando in modo coerente frammenti d’esistenza. Chi narra non intende, però, solo dare coerenza al proprio passato e tenere unito quel senso del sé che l’irrompere della malattia mette così a dura prova, ma desidera anche offrire una direzione, o più direzioni, al proprio futuro. Se il dolore e la sofferenza oggettivano, condannando alla corporeità, chiudendo l’originaria apertura al mondo, alle relazioni sociali e alla prospettiva temporale, un tentativo di contrastare questo processo distruttivo passa proprio attraverso la narrazione, che oggettiva a sua volta la malattia e riattribuisce un senso all’esperienza del mondo.

    Alla stessa logica non è estranea la medicina, nella misura in cui è intenta a diagnosticare, a dare un nome oggettivo all’esperienza soggettiva di malattia, a esternalizzare la patologia rispetto al vissuto del sofferente e a localizzarla spazialmente. Tuttavia nella misura in cui la malattia non riguarda unicamente il corpo, ma anche il rapporto che il corpo media con il mondo, è altresì necessario uno sforzo di oggettivarla simbolicamente dandole un luogo e un tempo nella storia della vita personale. “La narrativizzazione è un processo di localizzazione della sofferenza nella storia (e nel contesto politico, culturale e sociale nda), di collocazione degli eventi in un ordine temporale dotato di senso (Good 2006, 197)”. È questo un modo per opporsi alla forza con cui la malattia tende a coincidere con il proprio sé, schiacciando il tempo e lo spazio, che raggiunge il massimo nell’espressione “io sono malato”. Quando questo tentativo fallisce, la malattia, così come il dolore cronico descritto da Good (ibidem, 185), “resiste all’oggettivazione e minaccia la struttura della vita quotidiana”.

    In questa prospettiva, nominare la malattia è, allora, un processo costitutivo ed evocativo, è il primo atto con cui la si oggettiva, è il primo passaggio per poterla affrontare. Il potere implicito nell’atto di nominare è ben noto alla cultura occidentale (da Polifemo in poi) e non solo, come dimostra il caso dei Dinka studiato da Lienhardt e riportato da Good (2006, 197 ss) [5]. Non sorprende, pertanto, la richiesta che proviene da chi è afflitto da una sofferenza che le si dia un nome [6]. Come ricorda ancora una volta Byron Good (ibidem): “Attribuire un nome all’origine del dolore significa afferrare il potere di alleviarlo”.

    Nel momento in cui il malato racconta la sua storia, anche quando quest’ultima è incentrata sulla malattia, egli, per un attimo, torna a essere il protagonista della sua vita sottraendola alla presa della malattia stessa. Separarsi simbolicamente dalla propria malattia attraverso la sua narrativizzazione non è solo un modo per ricostruire il mondo della vita e delle relazioni intersoggettive, ma può rappresentare il primo passo nella via della guarigione. C’è allora una dimensione ulteriore delle storie di malattia, già richiamata in precedenza, che guarda al narrare come a un processo di cura, se non di guarigione.

    Questi temi risultano meritevoli di ulteriori riflessioni e percorsi di ricerca: da un lato, infatti, sembra configurarsi una malattia incarnata, che trova voce attraverso il corpo del sofferente, dall’altro si assiste a una narrazione che oggettiva la malattia e che mira ad espellerla. In queste due diverse forma di narrazione si ritrova eco della carica di ambivalenza della malattia, percepita ora come altro da sé su cui non si ha il controllo, ora come parte di sé, espressione di quel corpo che è assieme “vittima e carnefice”. Dare voce alla propria esperienza di malattia può essere un modo per “normalizzarla”, per far sì che qualcosa che viene percepito come estraneo sia ricompreso nel proprio orizzonte di senso, oppure, al contrario, per distanziarsi da essa. In questo sembra possibile ravvisare una differenza significativa tra le diverse storie di malattia, sulla cui possibile comparazione si rinvia a futuri approfondimenti di ricerca.

    Un confronto tra i due saggi

    Sullo sfondo sin qui delineato si possono collocare i due contributi che compongono questa sezione e che presentano numerose analogie, oltre a interessanti specificità. Entrambi i saggi propongono analisi approfondite dei materiali narrativi prodotti dalle ricerche delle due autrici, senza sottrarsi, al contempo, a alcune centrali questioni epistemologiche e metodologiche.

    Alla riflessione epistemologica si rifà Pellegrino, quando chiarisce la propria posizione in merito al dibattito sulla natura dei testi narrativi e dei significati che in essi vengono generati, riconoscendo il carattere negoziale delle pratiche discorsive, “che non arrivano a definire fatti o condizioni oggettive”. Tale posizione appare in sintonia con il costruttivismo narrativista, secondo il quale la narrazione “genera significati molteplici la cui interpretazione è regolata da una continua negoziazione sociale” (Masini, p. 17), senza avere la pretesa che ciò consenta di accedere all’autenticità dei vissuti.

    Entrambe le studiose pongono, poi, particolare attenzione alla dimensione auto-riflessiva delle ricerche basate sulla raccolta e l’analisi di narrazioni. Pellegrino sottolinea come il ricercatore sia impegnato in una continua riflessione sui materiali raccolti, a cominciare dai dispositivi discorsivi che utilizza, attraverso la quale egli stesso si modifica, esperendo quella che Good definisce come “la scoperta personale da parte del lettore di una significazione e di nuovi significati nell’esperienza della lettura di un testo, e il mutamento personale provato dal lettore in seguito a tale comprensione” (Good 2006, 221). In proposito Pellegrino ricorda che “gli intervistatori sono sempre parte del ”, cui fa eco Vellar nell’affermare che “il ricercatore e i soggetti studiati partecipano alla costruzione della realtà stessa”. In particolare, quest’ultima dedica un’ampia introduzione a ricostruire l’emergere della epistemologia riflessiva in campo sociale, esplicitando la propria scelta di una “narrazione processuale”, attraverso la quale il ricercatore indaga anche la propria soggettività come strumento interpretativo della realtà in esame.

    Sul versante metodologico, entrambe le autrici si soffermano a descrivere nel dettaglio le tecniche scelte per la raccolta delle storie di malattia e gli utilizzi delle stesse; in ciò emerge una prima differenza significativa: nel caso di Pellegrino le narrazioni di malattia sono state sollecitate dalla stessa ricercatrice attraverso interviste discorsive; i materiali indagati da Vellar sono, invece, il risultato di una selezione di testi scritti (post biografici presenti nei blog e nei forum e testi a stampa) non sollecitati [7].

    Le autrici descrivono poi come siano state individuate storie che rispondessero ai requisiti narrativi (in particolare al requisito della temporalità), selezionando dal materiale iniziale solo quelle provviste di una struttura narrativa ben definita, che si sviluppasse a partire da un rottura biografica iniziale, con la ricostruzione di sequenze di cura e l’individuazione di un finale, seppur provvisorio.

    Per l’analisi dei materiali selezionati entrambe le autrici si rifanno alle categorie analitiche sviluppate da Greimas (1984, 2001) e Gergen (1994) e rielaborate poi da Cardano (2007), con l’individuazione di un antefatto, una crisi, un contratto, una fase di competenza, una performanza e una sanzione, nonché di una traiettoria del racconto che consenta di attribuirlo a uno specifico genere letterario (tragedia, saga eroica, romanzo cavalleresco). Pellegrino si serve, inoltre, sia dell’analisi qualitativa sia dell’analisi lessicale delle corrispondenze multiple e della cluster analysis per tracciare diversi profili narrativi, che illustrano efficacemente modi specifici di intendere le cause del proprio male e il percorso di cura intrapreso.

    Entrambe le autrici, forse non a caso donne, pongono attenzione alla dimensione di genere delle narrazioni: nel caso di Vellar, sono tutte voci al femminile che esprimono le difficoltà nel rispondere a pressioni sociali ambivalenti. Nelle storie di disagio mentale raccolte da Pellegrino alla comparazione tra profili narrativi femminili e maschili, si aggiunge anche l’analisi delle differenze attribuibili al titolo di studio. L’autrice individua, quindi, diverse modalità esplicative della malattia e diverse chiavi di lettura, di cui propone una tipizzazione. Tali profili narrativi risultano, dunque, socialmente condizionati (dal genere e dal titolo di studio), così come paiono legarsi alla storia di cura della persona narrante, che non è mai, però, soltanto una storia individuale, ma prende forma nel contesto delle relazioni sociali. Come ricorda Good, riprendendo il lavoro di Kleinman “Le interpretazioni della natura di una malattia implicano sempre la storia del discorso che ne forma l’interpretazione e il loro contesto è sempre quello delle relazioni di potere locali” (p.84). Il riferimento al contesto sociale e culturale è costante sia nelle narrazioni del male mentale presentate da Pellegrino che nelle narrazioni dei disturbi del comportamento alimentare (dca) di Vellar. Culturale è la responsabilizzazione rispetto alla incapacità di rispondere adeguatamente alle pressioni di una società prestazionale, così come la ricerca di dispositivi simbolici per assorbire le ambivalenze e la complessità circostante, di cui parlano i pazienti psichiatrici intervistati da Pellegrino. “L’inedita pressione performativa di contesti socio-culturali in trasformazione che appaiono irrisolti”, richiamata da Pellegrino, compare anche nell’interpretazione delle storie di anoressia. Del resto la cultura, come ricorda sempre Vellar, non solo “modella i sintomi” ma offre anche le modalità di espressione della sofferenza (in questo caso per interpretare e dare coerenza al passaggio dal mondo infantile a quello adolescenziale e da quest’ultimo a quello adulto).

    Quanto alle specificità di ciascun contributo, i due saggi differiscono, innanzi tutto, rispetto all’individuazione di punti rottura biografica, relativi alla perdita dell’oggetto di valore (la salute) [8]: nelle storie dei dca sono presenti due punti di svolta, il primo, più nitido, da cui prende avvio la storia di malattia (almeno dal punto di vista esterno [9]) coincide con il mancato riconoscimento del proprio corpo o della propria immagine allo specchio. Il secondo, più sfumato, è contrassegnato dalla consapevolezza del tradimento delle promesse di perfezione attraverso le pratiche di controllo del peso corporeo e dal disvelamento delle ambivalenze del disturbo alimentare. Nelle narrazioni analizzate da Pellegrino, come chiarisce l’autrice, sembra mancare un vero e proprio punto di svolta iniziale che dia avvio alla storie di malattia, si tratta spesso di una lunga esposizione a eventi, per la quale pare improprio ragionare in termini dicotomici di salute/malattia [10].

    Diverso è anche il modo in cui si declinano il rapporto con il mondo e le dinamiche di potere, all’insegna della richiesta di appartenenza, accettazione, comprensione dell’umana imperfezione nel caso del disagio mentale, della contrapposizione, della volontà di controllo e della ricerca di perfezione nelle narrazioni dei disturbi alimentari. Sebbene il conflitto individuo-società sia presente in entrambe, nel primo caso appare subito, nel secondo maggiormente agito.

    In entrambi i contributi si coglie, invece, un cambiamento dell’oggetto di valore durante lo sviluppo di alcune storie di malattia: dalla normalità alla conquista di sé nelle quest narratives (nel senso di Frank 1995) di Pellegrino, dalla perfezione al benessere nei racconti pro-recovery di Vellar. Comune ad entrambe è, anche, il carattere oscillante delle narrazioni, nelle quali la riconquista dell’oggetto di valore appare ora più vicina, ora più lontana, a seconda del punto del racconto in cui ci si colloca.

    Un aspetto che colpisce nel raffronto tra le storie del disagio mentale e quelle dei disturbi alimentari è la diversa forza della narrazione nel costruire il sé narrante. Nel primo caso, seppure in presenza di sindromi dissociative e depressive che intervengono nella percezione del sé, si coglie una identità che si sviluppa attraverso il racconto, anche se a tratti in modo più frammentato a tratti con maggiore fluidità. In alcune delle storie di vita con disturbi alimentari sembrano, invece, individuabili due diverse voci narranti, tanto da mostrarsi come storie di alterità, di crisi dell’unità identitaria [11]. Se, come sostiene Vellar, nei disturbi alimentari si cela proprio la difficoltà di costruire una identità coerente, si comprende come mai sia così presente “l’urgenza narrativa” (Cardano 2006, Poggio 2004), il ricorso spontaneo alla pratica discorsiva, che è il cuore di quel processo di simbolizzazione e d’interazione sociale costitutivo dell’identità.

    Da questo punto di vista, l’analisi che Vellar propone delle narrazioni di disturbi alimentari richiama da vicino l’esperienza del dolore cronico descritta da Good, e l’invito di quest’ultimo a considerare la narrazione come risposta al difetto di simbolizzazione che contraddistingue simili condizioni di sofferenza. Brian, il ragazzo di cui Byron Good raccoglie la storia di vita con dolore cronico, trova nella pittura la via per “una forma simbolica di costruzione del mondo e di auto-oggettivazione” (p.198). Similmente, nelle esperienze delle giovani donne riportate da Vellar è il blog il luogo in cui si esprimono queste connessioni simboliche e metaforiche. In entrambi i casi viene richiamato esplicitamente il ruolo della simbolizzazione nella guarigione “grazie a questa separazione tra soggetto e oggetto nell’esperienza, nasce anche la possibilità di creare una forma di esperienza a loro congeniale, e di emanciparsi simbolicamente da ciò che altrimenti subirebbero passivamente” (Lienhardt citato da Good, p. 199). Mentalizzare e rappresentare simbolicamente la sofferenza, come fa Vellar, attraverso l’utilizzo del linguaggio poetico e narrativo, è un modo per evitare che quest’ultima sia confinata nel corpo, senza possibilità di essere “scambiata” con il mondo circostante.

    Tale esigenza di oggettivazione narrativa, come presa di distanza dalla malattia e inizio di un processo terapeutico è richiamata più volte nel contributo di Vellar, a partire dal modo stesso in cui l’autrice avvia la narrazione della ricerca: “Ma questi sono i sintomi di un male che ha una storia, una storia che comincia nella prima infanzia”. È la malattia ad avere una propria storia. A raccontare questa storia, per distaccarsene, è finalizzata la narrazione. In questo si può ravvisare una tensione costante, e irrisolta, tra la storia della malattia e la storia di malattia, genitivo soggettivo e oggettivo che ben esprime tutta l’ambivalenza del rapporto tra sé, corpo e malattia.

    Ciò che maggiormente disorienta nell’esperienza della malattia, è scoprire una autonomia del corpo che ne rivela la natura ambivalente di corpo oggetto/passivo e soggetto/agente. La narrazione consente, allora, di osservare dall’esterno la propria storia diventandone allo stesso tempo narratori e lettori. Come nel gioco di specchi di Escher narrare e scrivere la propria storia è come guardarsi allo specchio mentre si narra: se nello specchio chi soffre di dca vede un corpo che non accetta, attraverso la narrazione prende corpo un altro sé che si guarda riflesso nello specchio narrativo e non si riconosce. Le voci discordanti raccolte da Vellar sembrano dirci, però, che è ugualmente possibile restare intrappolati in questo gioco di contrapposizioni, così come staccarsi dall’immagine oggettivata di sé per riconquistare il proprio benessere.

    Ma, come ricorda ancora Good, affinché questo processo possa promuovere la guarigione, una simile simbolizzazione della propria esperienza di sofferenza deve essere messa in circolo socialmente e ritualizzata. Questo è il ruolo che, seguendo Vellar, sembrano avere i blog pro-recovery e che manca, invece, nell’esperienza di Brian, così come manca nelle narrazioni del cluster maschile con basso titolo di istruzione nel saggio di Pellegrino. In questi ultimi, proprio come nel caso di Brian, si cerca altrove, nell’identificazione di una disfunzione organica o di un trauma psicologico, così come nell’ancoramento al proprio lavoro, una possibile simbolizzazione del proprio male.

    Nel suo contributo Vellar sottolinea più volte, dunque, il ruolo della narrazione, in particolare dell’autonarrazione, come strumento di cura. L’evidenziare la duplice natura dei materiali narrativi - oggetto di analisi per il ricercatore sociale, ma al contempo possibili elementi di una strategia di coping per chi si racconta - solleva un problema etico ineludibile anche per il ricercatore sociale che non si propone di utilizzare la narrazione in chiave terapeutica: cosa succede al narratore mentre si racconta e dopo che ci ha consegnato la sua storia? Un simile interrogativo sollecita una riflessione etica che vada ben al di là del problema della natura sensibile dei “dati” raccolti o del rispetto del “patto narrativo”, e che non si esaurisca neppure nella questione della legittimità della richiesta che l’intervistatore fa al suo interlocutore di riaprire un vissuto di sofferenza. Se si considera la narrazione un processo di co-costruzione di significati, è pur sempre presente un’asimmetria di fondo nella misura in cui il ricercatore è (o dovrebbe) essere preparato alle implicazioni di una simile pratica, i suoi interlocutori no e questa differenza va tematizzata e indagata nelle sue implicazioni etiche.

    Il lavoro di Vellar ha anche il merito di mostrare come una stessa narrazione possa essere attribuita a generi diversi, a seconda del punto di vista che si assume sulla storia narrata (interno o esterno) [12]. La distanza che i relativi grafici mostrano tra le due traiettorie (ascendente o discendente) può essere letta come esemplificativa della distanza comunicativa tra narratore e lettore (ad es. paziente e professionisti sanitari/familiari). Tuttavia, nel momento stesso in cui l’uno e l’altro narrano la propria storia e si ascoltano reciprocamente, prende forma una nuova narrazione che, se non altro, può rappresentare un ponte co-costruito a colmare tale distanza.

    In ultimo, una riflessione sulla necessità di una maggiore comparazione tra narrazioni di malattia appartenenti ad ambiti tematici diversi: il campo del disagio mentale, nelle sue diverse espressioni, si è rivelato un terreno fertile per questo tipo di ricerca sociale per la sua maggiore familiarità con la narrazione della sofferenza. Ma in un contesto caratterizzato dell’invecchiamento della popolazione e dalla diffusione di malattie croniche, sembra utile mettere ulteriormente alla prova gli strumenti di analisi sviluppati dalla medicina narrativa, estendendoli maggiormente anche a questi ambiti. In merito si suggerisce l’opportunità, nei futuri sviluppi della ricerca, di comparare le narrazioni di malattia di persone che hanno esperito un esordio e/o uno sviluppo acuto della stessa, con quelle narrazioni in cui la perdita dell’oggetto di valore è stata graduale, non così chiaramente identificabile ex post e la (percezione di) riconquista dello stesso altalenante (ad esempio, malattie croniche e forme di disagio mentale).

    In conclusione, sul versante metodologico preme sottolineare come l’analisi delle narrazioni di malattia possa avvalersi degli sviluppi consolidati dell’analisi qualitativa nelle scienze umane e sociali, tanto quanto dell’analisi narratologica. Tale combinazione può evitare un eccessivo appiattimento sui testi narrativi, che sottovaluti la natura interattiva della narrazione; come sostiene Good (2006, 220) “le narrazioni e i rituali sono processi intersoggettivi che richiedono degli esecutori e un pubblico (…) per costituire una narrazione, la storia deve essere fatta propria dal lettore o dal pubblico. Un’appropriazione di questo tipo non è solo una ricezione passiva del messaggio di un autore (…) piuttosto, seguendo Iser (1978, 21) il lettore riceve (il messaggio del testo) componendolo”. Come ricorda ancora una volta Good questo è tanto più vero nel caso delle narrazioni di malattia, nelle quali l’io narrante si trova ancora dentro la storia, spesso alla ricerca di letture alternative e di quella “coniugazione della realtà al congiuntivo” di cui parla Bruner (2003). C’è, dunque, una intersoggettività nella quale le narrazioni prendono corpo e della quale gli strumenti della ricerca sociale possono dare conto: “la narrazione va quindi valutata alla luce della relazione che si va costruendo mentre la narrazione procede. Quello che il paziente racconta è: una selezione, un riadattamento, una co-costruzione” (Bert, Quadrino, 2002).

    Note

    1] L’utilizzo della terminologia medico-sanitaria è ricorrente, dalle definizioni anatomiche, ai nomi degli ausili, all’esatta denominazione degli esami diagnostici. Ciò non sorprende, nella misura in cui prendere confidenza con il linguaggio del disease, in parte già significa aumentare la propria competenza sulla malattia, spesso nella speranza (o nell’illusione) di un’equivalenza tra competenza e controllo. Ma fa parte anche di quel tentativo di oggettivare la malattia come strategia di distanziamento che verrà analizzata nel paragrafo seguente.
    2] Questo approccio è supporto da spiegazioni neurologiche.
    3] In particolare, le riflessioni sulla medicalizzazione della vita mettono a tema la danza interattiva tra le tre dimensioni, e le tensioni che la contraddistinguono.
    4] M. Bronzini, F. Orazi, Curare il dolore, paper presentato al Convengo “Le nuove sfide della salute e della medicina nelle società del XXI secolo” , Congresso nazionale Ais, settembre 2007.
    5] Nel rituale dei Dinka del Sudan descritto da Lienhardt, i membri della tribù invocano la divinità che possiede la persona malata invitandola a rivelarsi, a dire il suo nome, “Qual è il tuo nome? Perché lo stai tormentando?”.
    6] Non è questa la sede per approfondire come dietro quella stessa richiesta possa avanzare il processo di medicalizzazione della vita e cresca il potere della professione legittimata ad attribuire tali nomi.
    7] Si può parlare, quindi, nel primo caso di riproduzioni, nel secondo di reperti selezionati (Cardano 2011), materiali, dunque, dotati di un differente profilo epistemico, di cui le autrici mostrano di saper tener conto.
    8] Si veda Greimas (1998) citato da Cardano M. (2007), 2007 «E poi cominciai a sentire le voci...». Narrazioni del male mentale, in Rassegna Italiana di Sociologia, anno XLVIII, num.1, pp. 9-56.
    9] In merito si potrebbe discutere se tali narrazioni possano configurarsi come storie di malattia o storie di alterità, come ha osservato uno dei discussant, tuttavia, si è indubbiamente in presenza dell’esperienza di una perdita del proprio ben-essere.
    10] Come ci si può porre, ad esempio, nei casi estremi, in cui sia improprio parlare di “restituzione alla normalità” perché quest’ultima non è stata mai vissuta come tale; quando si riscontra, cioè, l’idea della perdita, ma come condizione esistenziale, rispetto alla quale viene a mancare l’antefatto?
    11] Va, però, ricordato che tali narrazioni sono state raccolte con modalità differenti, che possono influire nella forma della storia; va, inoltre, precisato che nel primo caso si tratta di pazienti che hanno alle spalle un lungo percorso di cura nel quale si è potuta strutturare una certa narrazione di sé, mentre delle seconde non si conosce l’eventuale percorso di cura intrapreso.
    12] In particolare, nel testo, una stessa tipologia narrativa viene rappresentata come una romanzo cavalleresco assumendo il punto di vista del narratore o come una tragedia, assumendo il punto di vista del lettore esterno.

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