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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.10 n.1 Janvier-Avril 2012

    OGGETTI, MEMORIA E TRAUMA: NARRAZIONI E BIOGRAFIE INTORNO ALLE COSE


    Alessandra Micalizzi

    alessandra.micalizzi@iulm.it
    Assegnista di ricerca presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM e collabora da diversi anni con l’Istituto di Comunicazione, comportamenti e consumo GP Fabris. I suoi interessi di ricerca si muovono nell’ambito delle pratiche di condivisione delle emozioni attraverso narrazioni del sè, dirette, mediate e mediali.

    «L’uomo è legato agli oggetti ambientali dalla stessa intimità viscerale – mantenendo le dovute proporzioni – che lo lega agli organi del proprio corpo (…)» (Baudrillard, 1987, p. 35)

    1. “Cose nostre”: trame narrative di oggetti, memoria e identità

    Questo saggio è dedicato a un tema insolito. Nell’ambito delle scienze umane, diversi studi hanno sottolineato l’importanza del valore simbolico degli oggetti, interessandosi soprattutto della relazione tra cose e pratiche di consumo, dei processi comunicativi e delle strategie di costruzione dell’identità intorno e attraverso le cose. Tutto all’interno di un Sistema, comune alla cultura occidentale. Tutto all’interno dell’ordinario e dell’ordinarietà [1].

    Meno spazio è stato riservato al ruolo degli oggetti nelle circostanze straordinarie, nel tempo segnato da un profondo cambiamento individuale e o collettivo. Nelle prossime pagine cercherò di entrare nel merito di una ricerca empirica dedicata proprio al ruolo che gli oggetti hanno avuto nella particolare circostanza del terremoto in Abruzzo, avvenuto due anni fa.

    Prima di presentare la ricerca desidero soffermarmi su alcuni assunti teorici che fanno da sfondo alla parte empirica e che hanno guidato l’interpretazione dei dati.

    Il primo passo è chiarire bene l’accezione con cui utilizzerò il termine oggetti. Bodei (2009) distingue questo termine da quello più ampio e generico di cose, sottolineandone soprattutto la dimensione materiale [2]. Viceversa, al suo più comune sinonimo – cosa – riconosce una connotazione maggiormente simbolica e immateriale. Nell’uso corrente è più frequente considerarli concetti sovrapponibili ed è quello che farò nel corso della trattazione soprattutto per ragioni pratiche e discorsive.

    Non avendo molto spazio a disposizione, desidero concentrarmi solo su alcune riflessioni in merito agli oggetti, approfondendo soprattutto la dimensione simbolica, quella identitaria e, infine quella mnestica.

    Gli oggetti rivestono una certa importanza nella nostra vita, non solo per la funzione a cui sono preposti. Nella società moderna, le logiche di consumo dimostrano che le cose di cui ci circondiamo hanno in prevalenza un valore simbolico, tanto sul piano individuale quanto collettivo. In questa prospettiva, gli oggetti possono essere considerati “la parte visibile di una cultura”: sono, cioè, dotati di significati sociali, contribuiscono alla costruzione e alla preservazione delle relazioni e rappresentano un «mezzo di comunicazione non verbale per la facoltà creativa dell’uomo» (Douglas, 1984, 69). Come ricorda Baudrillard (1987) l’uomo cibernetico della Tarda Modernità ha così tanto bisogno di comunicare da trasformare in informazione perfino la materia. In questo modo, ogni bene può essere considerato un oggetto antropomorfico, in grado di esprimere e preservare l’impronta umana che le viene attribuita sul piano simbolico da una data cultura (ivi).

    La condivisione dei significati è frutto di un processo di appropriazione e addomesticamento della realtà (Mandish, Rampazi 2009; Mandich, 2010) che passa attraverso la familiarizzazione degli usi e dei significati riconosciuti alle cose che popolano il mondo della vita. Attraverso questi percorsi di significazione, si definisce la biografia culturale dell’oggetto (Kapytoff, 2005), ovvero l’insieme dei significati che gli vengono attribuiti, riconoscendo gli stessi come un costrutto culturale (Bartoletti, 2002:2007).

    Come dicevo poco sopra, il processo di appropriazione e di significazione avviene sia a livello collettivo – all’interno di una comunità – che a livello individuale, o sarebbe meglio dire interindividuale. Come suggerisce Leonini (1987), infatti, «gli oggetti costituiscono il sistema di segni attraverso i quali presentiamo noi stessi, giudichiamo e siamo giudicati dagli altri. Con e per mezzo delle cose costruiamo un’immagine di noi stessi che cerchiamo di sostenere e difendere nelle interazioni sociali» (ivi, p. 8). Da questo punto di vista, gli oggetti possono essere considerati, oltre che veicolo di simbolismi culturali, anche forme più o meno tangibili di espressione del sè.

    E questa relazione tra identità e oggetti è ben espressa dalle pratiche attraverso cui selezioniamo, conserviamo o eliminiamo gli oggetti che ci circondano. Perché, suggerisce Jedlowski (2009), così come le identità sono costrutti dinamici, allo stesso modo e in maniera simmetrica lo sono gli oggetti che scegliamo come compagni del quotidiano e che tendiamo a tenere con noi. Per lo meno per un dato periodo.

    Il tema della conservazione degli oggetti, invita a soffermarsi sull’ultimo aspetto, centrale per la trattazione che seguirà: il valore mnestico delle cose. La relazione tra oggetti e memoria risiede soprattutto nella loro materialità nel loro essere presenti nel tempo e nell’occupare un preciso spazio fisico. Proprio in virtù di questa caratteristica, il connettersi con il tempo e lo spazio, Baudrillard (1987) riconosce alle cose un ruolo antropologico connesso alla finitezza umana, al limite ultimo dell’esistenza. Gli oggetti, nella loro permanenza, avrebbero come compito ultimo quello di r-esistere – esistere ancora – oltre la vita del suo proprietario.

    Anche Bodei (2009) sottolinea questa caratteristica delle cose, definendole miniature di eternità capaci di racchiudere la pienezza possibile dell’esistenza. Detto in altre parole «le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, ne sono il prolungamento. Gli oggetti che a lungo ci hanno fatto compagnia sono fedeli, nel loro modo modesto e leale, quanto gli animali e le piante che ci circondano. Ciascuno ha una storia, un significato, mescolati a quelli delle persone che li hanno utilizzati e amati. Insieme formano, oggetti e persone, una sorta di unità che si lascia smembrare a fatica (Flem, p.42 cit in Bodei, 2009, p 25).

    Da un lato, infatti, gli oggetti possiedono un’aura mnestica, nella misura in cui «ricordano qualcosa, al di là dell’uso a cui sono destinati» (Jedlowski et altri, 2010, p. 62). Attraverso la materia, imprigionano le emozioni e i vissuti associati a precisi momenti di vita, oggettivandone il ricordo (Leonini, 1991).

    Dall’altro lato, lo scorrere del tempo segna la vita di un oggetto, la sua biografia, e riveste lo stesso di una patina [3] (Tanizaki, 1995), che non è semplicemente usura, ma puro potere memoriale che ha a che fare con i segni evidenti dello scorrere del tempo, con il suo essere passato di mano in mano, utilizzato da più proprietari per essere poi nel tempo accantonato.

    La pratica del conservare, dunque, intercetta tanto un valore identitario ed espressivo, quanto una funzione memoriale comunicando e preservando la memoria biografica del possessore, con-fondendosi con essa. Infatti, «è così che ciò che si conserva finisce per disegnare una sorta di autobiografia. Come ogni autobiografia, l’insieme di ciò che conserviamo è dinamico e ritoccabile; comporta aree frequentemente rivisitate e zone d’ombra; può essere rivolto a sé stessi o produrre una certa immagine di sé presso gli altri. E come ogni memoria del sé è intrisa di affettività e di relazioni con gli altri» (Jedlowski et altri, 2010, p.68).

    E naturalmente non si può tacere il ruolo centrale assolto dalla casa, come ambiente domestico capace di marcare l’ormai sfumato confine tra pubblico e privato, come luogo di espressione identitaria e di riscoperta di quella sicurezza ontologica di cui l’individuo della tarda modernità sente di essere privato (Giordano, 1997). La casa, in quanto contenitore di oggetti, diviene uno dei possibili mondi narrativi (Jedlowski et altri, 2010), uno di quelli che maggiormente intercetta le dimensioni identitarie e mnestiche di una storia di vita.

    La citazione proposta poco sopra introduce un’importante relazione esistente tra memoria, biografia e oggetti. Relazione che rappresenta il punto attorno a cui ruota il disegno di ricerca a cui sono dedicate le prossime pagine. Lo studio, infatti, si muove all’interno di un frame narrativo, partendo da due presupposti fondamentali. Il primo è che le narrazioni costituiscono il più funzionale e antico dispositivo della memoria (Sciolla, 2005). Il secondo riguarda la natura narrativa dell’identità e dell’esperienza umana: come costrutto alla base dei processi cognitivi di percezione di sé e del mondo circostante e come strategia primaria nella comunicazione ed espressione di sé nella relazione con l’altro.

    Da questo punto di vista gli oggetti, anch’essi dotati di una biografia che si confonde con quella di chi ne entra in contatto, possono essere considerati dei piccoli mondi narrativi, dei precipitati di storie legate alle memoria autobiografica. O più semplicemente la loro tangibile espressione.

    2. Narrazioni stra-ordinarie e memorie autobiografiche

    Quanto ho cercato di presentare brevemente fino a qui riguarda il rapporto con gli oggetti nella quotidianità, in quel tempo ordinario che “assorbe” l’individuo e le sue esperienze e che rende trasparenti i meccanismi di attribuzione di senso e di valore alle cose che gli appartengono.

    La rivalutazione del proprio mondo della vita avviene, invece, quando eventi importanti scuotono dal torpore quotidiano e costringono a ripensare a se stessi e alla propria esistenza sotto altra luce. Se proviamo a guardare a questi momenti da un punto di vista narrativo, potremmo definirli i punti di svolta.

    Lo sforzo autoriflessivo di rivisitazione di ciò che sembra “dato” assume tratti sociali - oltre che psicologici e individuali - quando l’evento stravolgente riguarda una comunità.

    Vorrei completare, dunque, l’inquadramento teorico della ricerca soffermandomi brevemente sulla relazione tra narrazione e memoria autobiografica e sul ruolo delle narrazioni nell’elaborazione di vissuti traumatici.

    La memoria autobiografica può essere definita come quella competenza cognitiva che consente di gestire le informazioni legate al Sé e all’identità (Smorti, Massetti, 2010). Come detto precedentemente, anche questo tipo di memoria è esplorabile attraverso la narrazione di sé ovvero attraverso il racconto della propria storia, in primo luogo, a se stessi (tra gli altri De Caro, 2005).

    Quando certi vissuti vengono schematizzati all’interno di script autobiografici questi andranno a costituire la memoria r-episodica (Namer, 1994), ovvero un repertorio narrativo riferito alla propria storia.

    Di altri eventi, invece, in genere collettivi e particolarmente significativi sul piano emotivo, si conservano le cosiddette flashbulb memory [4] (tra gli altri De Caro, 2005), ovvero percezioni del passato che sembrano rimandare all’impressione fotografica di una pellicola. In genere questi eventi vengono ricordati nei minimi particolari, rimanendo invariati nel tempo e rimandando a informazioni contestuali sulla persona che li ha vissuti direttamente o come testimone.

    Allora, di fronte a un evento traumatico possono generarsi narrazioni cristallizzate attorno ai frammenti impressi nella memoria, narrazioni che nel tempo possono depositarsi, dopo opportune negoziazioni, nella memoria r-episodica, come parte del proprio bagaglio di esperienze e come sedimenti autobiografici frutto di un percorso elaborativo.

    Le storie intorno ai contenuti della memoria autobiografica non sono solamente il frutto di un processo di trasposizione da dentro a fuori il soggetto che le ha vissute. Come in tutte le traduzioni, anche le narrazioni autobiografiche possono essere ritenute una ricostruzione degli eventi memorabili: «i ricordi autobiografici sono, insomma, inscindibili dalla narrazione; la forma narrativa che si utilizza per esporli ne influenza la stessa struttura e questa, a sua volta, influenza la struttura del ricordo successivo» (De Caro, 2005, p. 38).

    Tutti i percorsi autobiografici allora diventano delle strategie di ricostruzione della memoria alla luce delle esigenze del presente, dei suoi destinatari, dell’immagine che l’Io narrante desidera dare di sè, sotto la severa esigenza di restituire un’immagine coerente dell’identità personale (Smorti, 1994; Smorti, Massetti, 2010; De Carlo, 2005).

    La narrazione è una strategia efficace anche perché risponde a un istinto primordiale che appartiene alla nostra specie (ivi), a una sorta di urgenza narrativa che soddisfa un bisogno ontologico di assicurare la propria presenza (Di Fraia, 2005; De Martino, 1978), di riconoscersi nei propri riflessi narrativi.

    Nell’ambito di eventi traumatici e collettivi questa urgenza, sottolinea Benjiamin (1955), sembra interrompersi, sostituita dal silenzio e dalle dolorose ruminazioni cognitive del trauma (Paez, Pennebacker, Rimè, 1997; Pennebacker, 2003; Rimè 2008).

    Nel tempo, però, è sempre la narrazione come dispositivo di socializzazione dell’esperienza e di elaborazione del trauma a venire incontro al superstite, a salvaguardare la memoria degli eventi, a consentire di giungere a una ricostruzione mnestica comune. Sarà il racconto corale degli eventi a permettere di sedimentare nel tempo una memoria confermativa (Namer, 1994) dei fatti.

    Gli approcci più psicopedagogici allo studio delle narrazioni autobiografiche sottolineano come l’efficacia di questi percorsi espressivi e ordinativi del sé abbia maggiore efficacia quando condotta per iscritto: «il racconto scritto se accompagnato dall’esperienza di lasciarsi andare alla proprie emozioni, promuove l’insight e la capacità di distaccarsi progressivamente dai ricordi e dai vissuti dolorosi, implicando la costruzione di una storia più coerente e più organizzata e per questo più facile da elaborare» (Smorti, Massetti, 2010, p. 72).

    La cosiddetta narrazione espressiva (Pennebacker, 2003) rappresenta una strategia salvifica del proprio sé, a tutela della sua coerenza interna, che consente di superare le ruminazioni cognitive e il blocco del silenzio.

    Resta da chiarire il ruolo degli oggetti. Come ho cercato di sottolineare nel precedente paragrafo gli oggetti intercettano tanto la memoria, quanto la narrazione identitaria. Esperienze emotivamente forti possono generare il riconoscimento dei cosiddetti monumenti personali della memoria (Le Goff, 1979; Leonini, 1991), ovvero quelle cose «che costituiscono una testimonianza concreta e palpabile del passato personale e familiare» (Leonini, 1991, p. 53).

    Allo stesso tempo, in quanto mondi narrativi, gli oggetti sono forme di cristallizzazione di racconti autobiografici che, oltre a conservare, stimolano processi associativi nel possessore, aiutano a “fissare” nel tempo e nello spazio precisi vissuti.

    In questo modo, l’oggetto è la traccia di un processo di estroflessione della memoria, che la oggettiva, la preserva e al contempo ne costituisce un rimando.

    La domanda conoscitiva che accompagna la ricerca che presenterò nelle prossime pagine è se la permanenza dell’oggetto, intesa proprio come la sua resistenza nel tempo e nello spazio, possa avere un ruolo significativo nel processo di elaborazione di un trauma individuale e collettivo e di ricostruzione della memoria.

    3. Intorno alle cose che restano. La ricerca sul campo

    A partire da queste premesse, ho ritenuto interessante interrogarmi sul ruolo che hanno avuto gli oggetti per i superstiti che hanno vissuto il terremoto in Abruzzo. Perse o ritrovate, proprie, di altri o di tutti, le cose hanno un ruolo centrale per i sopravvissuti, tanto sul piano identitario quanto su quello culturale.

    Dalla data dell’evento in avanti, molti studiosi si sono occupati di analizzare il fenomeno, dalle più svariate angolature – fisiche, psichiche, sociali, geologiche, geografiche etc. Ma scarso peso è stato riservato agli oggetti. Questo è il motivo per cui considero il mio lavoro una ricerca esplorativa che necessita di essere ampliata per potere giungere a considerazioni più solide. Una ricerca che per il livello di profondità dell’analisi a cui sono giunta fino ad ora non permette di giungere a conclusioni definitive [5].

    Dall’obiettivo generale di comprendere il ruolo degli oggetti nell’elaborazione del trauma del terremoto, ho cercato di declinare degli interrogativi più operativi che si focalizzassero maggiormente su alcuni punti:
    - la relazione tra i superstiti e gli oggetti, rinvenuti e quelli perduti: le caratteristiche di tale relazione e le sue evoluzioni nel tempo, a seguito del terremoto e nelle fasi successive;
    - le motivazioni che supportano la relazione con alcune di queste cose;
    - i processi di costruzione di un significato simbolico attorno a precisi oggetti ritenuti dal singolo individuo come forme di espressione della memoria collettiva dell’evento, tutt’oggi in corso di definizione;
    - il ruolo dei media non solo come mediatori della relazione con il mondo al di fuori delle aree terremotate ma anche e soprattutto nella loro natura oggettuale, concreta, di cose che fanno parte del quotidiano e che viviamo come estensioni identitarie[AP1].

    Considerato il frame concettuale che utilizzo nei miei studi, in generale, e in questo, in particolare, ho optato per utilizzare un metodo narrativo. In modo particolare, ho diviso la ricerca sul campo, tutt’ora in corso di realizzazione, in due momenti differenti. Il primo basato su interviste epistolari, su cui entrerò maggiormente nel merito a breve, il secondo su racconti di vita raccolti attraverso interviste faccia a faccia. [6].

    Per quanto riguarda la prima fase, ho chiesto ad alcuni dei soggetti che si sono resi disponibili di intrattenere con me un rapporto epistolare, uno scambio di lettere secondo le modalità tradizionali. Come direbbe Benijamin (1968), con «anima, occhio e mano», i tre elementi fondamentali coinvolti nel processo narrativo [7] (ivi, p. 273).

    Questa scelta, tipicamente d’altri tempi, ha delle precise motivazioni, in parte facilmente intuibili alla luce delle premesse teoriche proposte nelle pagine precedenti.

    L’uso delle lettere per comunicare con i miei intervistati risolveva sicuramente un problema iniziale di carattere logistico nel raggiungere l’Aquila e le zone limitrofe. È altrettanto vero, però, che la scelta sarebbe potuta ricadere anche su metodi più pratici e più in uso oggi nella ricerca sociale, come ad esempio l’e-mail interview.

    Ho scartato questa possibilità per tre motivi. In primo luogo, la comunicazione tramite internet risulta doppiamente mediata: dalla scrittura e dal medium digitale. Questo, se da un lato può presentare alcuni vantaggi, soprattutto in riferimento alla privacy, dall’altro condiziona molto il setting della relazione epistolare. Sappiamo infatti che la comunicazione mediata, per quanto scritta, è in genere molto contratta e veloce (fra gli altri Maninni, 2005). Questo avrebbe in parte compromesso la riflessività e la profondità del testo prodotto dall’intervistato.

    In secondo luogo, per quanto la penetrazione di Internet sia elevata anche in Italia, l’uso del computer avrebbe potuto dissuadere alcuni intervistati dal partecipare alla ricerca, soprattutto perché alcuni di loro sono persone mature meno avvezze, all’uso delle nuove tecnologie [8].

    Infine, dato che la scrittura mi avrebbe privata di tutto il contorno non verbale della comunicazione, non ero disposta a perdermi gli indizi paralinguistici e meta comunicativi che potevano emergere dalla scrittura di getto a penna: le cancellature, la scrittura meno lineare, le pause [9] etc.

    Per quanto riguarda invece le motivazioni più di metodo, potrei sintetizzarle facendo riferimento alle tre funzioni che a mio avviso ha svolto lo scambio epistolare con gli intervistati [10]. Quest’ultimo, infatti, ha avuto una funzione elaborativa, dialogica e locativa.

    Sebbene chiedessi agli intervistati di non soffermarsi troppo sulla forma e di lasciarsi guidare dal flusso di coscienza, la scrittura di sé obbliga sempre il suo autore a una riflessione maggiore rispetto al racconto orale. La mediazione della scrittura costringe il soggetto a selezionare e mettere in ordine i vissuti che sta affrontando [11]. Scrivere di sé, allora, ha permesso agli intervistati di seguire un percorso elaborativo, che mi ha aiutata a cogliere il punto di vista personale di ciascun soggetto, pur nella ricostruzione di un vissuto che aveva interessato una comunità. Un percorso narrativo, dunque, estremamente individuale, personale e intimo.

    Allo stesso tempo, però, lo scambio epistolare mi ha permesso di inquadrare l’intervista all’interno di un rapporto diadico. Le buste, contenenti le suggestioni su cui riflettere, erano personalizzate sull’intervistato e portavano nel testo la traccia della mia presenza, attraverso riferimenti personali e l’uso della prima persona. Sin dalla prima lettera, infatti, ho cercato di costruire un setting che avesse una parvenza dialogica, lasciando l’intervistato libero di strutturare il suo racconto, ma senza che si dimenticasse della mia presenza, del mio essere parte di una conversazione con lui. Aspetto che probabilmente con un’altra forma di scrittura autobiografica – ad esempio il diario personale – avrei inevitabilmente perduto.

    Infine, le lettere hanno avuto anche una funzione locativa. Con questo termine mi riferisco soprattutto a tre aspetti della scrittura: il suo divenire un racconto oggettivato; conseguentemente il suo essere una forma di allocazione della memoria; infine e soprattutto in questo caso, la sua capacità di definire uno spazio “altro” rispetto al quotidiano e alle routine del tempo ordinario.

    La traduzione del pensiero in parole scritte determina l’oggettivazione del racconto: la scrittura di sé, cioè, separa l’Io narrante dall’autore del racconto e permette di renderlo osservabile e oggetto di ulteriori percorsi autoriflessivi (Demetrio, 2009; Olagnero, 2005).

    Allo stesso tempo, è nel connubio tra elaborazione e oggettivazione che la narrazione di sé si fa memoria. In questo senso la traccia lasciata dal sé attraverso la parola scritta diviene luogo, narrativo e, allo stesso tempo, preservativo del ricordo. Come suggerisce Sciolla (2005) la narrazione è un dispositivo della memoria, uno dei più antichi e dei più praticati dall’uomo.

    Infine, la scrittura di sé è un momento riflessivo che richiede un tempo e uno spazio appropriato. In questo modo, il foglio e la penna diventano strumenti di costituzione di un confine invisibile, ma percepibile, tra il narratore e il suo tempo ordinario, tra il sé e le routine di ogni giorno. Nella scrittura di sé si realizza quella straordinarietà riflessiva che difficilmente riusciamo a sperimentare nelle situazioni quotidiane. Straordinarietà che, in questo caso, riporta il pensiero all’evento traumatico, descritto proprio in questi termini dagli intervistati.

    La traccia era suddivisa in tre parti che, nel caso dello scambio epistolare, erano distribuite in tre buste differenti.

    Avendo coinvolto persone con le quali avevo avuto solo una conversazione telefonica preliminare, ho focalizzato la prima parte sulla raccolta di informazioni generali relative alla persona, al fine di iniziare a costruire un setting personale con il mio interlocutore. Il vero tema, però, era il racconto di vita legato all’episodio del terremoto. Sostanzialmente, ho chiesto agli intervistati di raccontarmi come avevano vissuto il 6 aprile, invitandoli a soffermarsi non solo sulla ricostruzione degli eventi ma anche sull’esperienza emotiva e psicologica che avevano vissuto.

    Sempre nella prima lettera veniva chiesto ai soggetti di riflettere sui momenti successivi e di descrivere il percorso che li aveva lentamente portati alla riconquista di una parvenza di normalità.

    Il secondo momento dell’intervista invece entrava maggiormente nel merito nell’oggetto della ricerca e chiedeva ai rispondenti di riflettere sulla relazione con gli oggetti. Al fine di accompagnare l’autore in questo percorso autoriflessivo, lo invitavo a iniziare il racconto dal rapporto con le cose in linea generale, provando a riflettere sul suo modo di definirsi rispetto all’attaccamento agli oggetti. Ciò che mi interessava capire era soprattutto in che modo il terremoto avesse cambiato il significato e il peso identitario delle cose, sia in riferimento al proprio sé che a quello degli altri significativi.

    Sempre nell’ambito della stessa lettera, ho chiesto agli intervistati di focalizzarsi sia sugli oggetti più importanti che erano andati perduti e sulle motivazioni del riconoscimento di questo valore, sia su quelli che, a seguito del terremoto, avevano assunto una nuova importanza.

    Questa ulteriore focalizzazione sugli oggetti legati al terremoto mi permetteva di soffermarmi sul carattere simbolico – nella sua accezione intersoggettiva (Marrone, Landowski, 2002) – e mnestico degli oggetti.

    Infine, l’ultima parte dell’intervista era dedicata alle cose riconosciute come oggetti della memoria. Riprendendo le riflessioni proposte da Le Goff (1979) e da Leonini (1991), era mio interesse comprendere quali fossero gli oggetti riconosciuti biograficamente e collettivamente – sempre da un punto di vista soggettivo – come capaci di imprigionare nella propria patina, le tracce del vissuto traumatico. Questa focalizzazione sugli oggetti della memoria mi permetteva di rispondere a due obiettivi conoscitivi: capire quali fossero i meccanismi di attribuzione di senso e le motivazioni soggiacenti l’investitura di un oggetto come parte della memoria (biografica e collettiva); comprendere se vi era effettiva rispondenza tra gli uni e gli altri, cioè tra quelli ritenuti significativi a livello individuale e quelli riconosciuti dalla comunità.

    Infine, un ulteriore approfondimento era dedicato ai media, nella loro accezione funzionale, come oggetti comunicativi, e in quella materiale, come cose concrete. Per i miei interessi di studio, questo aspetto aveva una rilevanza non secondaria. Molte delle ricerche sul terremoto, incluse alcune personalmente condotte [12], hanno preso in considerazione soprattutto la produzione di contenuti comunicativi intorno al terremoto. Nel caso specifico della riflessione che ho cercato di stimolare negli intervistati, invece, desideravo soffermarmi soprattutto sul ruolo di mediazione che questi oggetti hanno avuto tra dentro e fuori l’esperienza del terremoto e sul significato che questo contatto con la realtà perduta – cioè la realtà altra, per le vittime, di chi non ha vissuto il sisma – ha avuto nei momenti successivi alle scosse, soprattutto in quelli più vicini all’evento. In altre parole, desideravo considerare i media come oggetti a tutti gli effetti, come qualcosa che presenta una parte materiale, concreta e tangibile, e una funzionale, legata alle pratiche d’uso (in questo preciso caso contestualizzate all’interno del dramma).

    Per quanto riguarda il campione, l’intenzione del progetto di ricerca è quella di raccogliere non meno di 25 interviste, cercando di rispettare una distribuzione equa tra epistolari e faccia a faccia. Al momento ne sono state condotte 12 con il metodo narrativo-epistolare [13], su cui si concentrerà la riflessione proposta nelle prossime pagine. Il reperimento, infatti, è stato un momento particolarmente complicato per due motivi. Personalmente, non ho alcun legame con l’Abruzzo per cui, a parte poche conoscenze, non ho potuto avvalermi di contatti pregressi per raccogliere le disponibilità degli intervistati. Inoltre, il tipo di metodo impiegato richiede una certa sensibilità del soggetto rispondente verso la scrittura, a cui in parte il nostro tempo ci ha diseducato. Infatti, per quanto la scrittura di sé sia una pratica alla portata di tutti, non sempre incontra il favore delle persone, soprattutto per il timore di essere giudicati per la forma o per una sorta di pudore estremo verso l’espressione di sé.

    Invece non ha rappresentato un problema chiedere gli indirizzi fisici a cui inviare il materiale. In via del tutto pregiudizievole, temevo che le persone non avrebbero dato informazioni così personali a una sconosciuta che faceva irruzione nelle loro vite tramite un contatto telefonico. E invece la disponibilità che ho incontrato mi ha stupita. Attribuirei questa apertura sicuramente a tratti culturali, tipicamente italiani; allo stesso tempo, però, le parole di accoglienza che ho ricevuto hanno messo in luce una forte e incontenibile urgenza narrativa rispetto all’accaduto. Diversi intervistati hanno fatto riferimento a un bisogno interiore di tornare su quei vissuti, con la mente e con il cuore: l’intervento dello Stato è stato tempestivo ma anche limitato nel tempo e questo ha lasciato in molte persone un senso di irrisolto su cui occorre tornare. Mi ha commosso sentirmi dire da alcuni di loro «grazie a te, per questa possibilità che mi dai di raccontare il mio terremoto». Un raccontare inteso non solo come momento catartico elaborativo, ma anche come traccia nella memoria della propria storia.

    Mi è parso di cogliere un bisogno, forse poco sottolineato e inespresso, di essere parte del processo di definizione della memoria collettiva dell’evento che rimane un fatto eclatante, traumatico, degli abruzzesi e di tutti gli italiani.

    Dunque, agli obiettivi che ho elencato poco sopra, si aggiunge quello che mi è stato affidato dagli intervistati, autori di racconti di vita “veri” e commoventi: dare voce alla loro esperienza.

    4. Tracce e scosse: alcuni risultati

    Non vi è lo spazio per soffermarmi dovutamente sui risultati, sia pure parziali, del mio studio. Non ho modo di entrare nel merito di ciascun degli interrogativi conoscitivi che ho illustrato nel paragrafo dedicato alla presentazione della ricerca. Per questo motivo preferisco focalizzare l’attenzione solo su alcuni elementi emergenti, più di carattere trasversale, che andranno dovutamente approfonditi nella seconda parte della ricerca, e presentare, nella fase conclusiva, alcune riflessioni sul metodo.

    Il tema centrale dell’intervista era, come detto, la relazione con gli oggetti, termine utilizzato nell’accezione più ampia. Sin dai primi momenti dell’intervista, infatti, ho specificato che lasciavo libero il soggetto di declinare il termine secondo il suo modo di intendere il mondo delle cose.

    Il primo aspetto su cui intendo soffermarmi è proprio l’accezione con cui è stato adoperato il termine, nella maggior parte dei casi. Emerge chiaramente dai racconti degli intervistati che il terremoto ha scosso le loro vite, ha stravolto l’ordine normale delle cose e niente, a prescindere dalle apparenze, tornerà come prima. Quasi tutti tendono a marcare un preciso ordinamento contenitivo di tre cose realmente importanti: la propria città nei suoi luoghi più significativi; la casa e soprattutto ciò che essa rappresenta; le cose domestiche, ciò che è contenuto dentro la propria abitazione (più di qualsiasi altro oggetto posseduto, usato o conservato altrove).

    La città è la scena e il contenitore della storia di tutti gli aquilani. Segnata dalle crepe, privata dei segni della sua storia, espropriata agli stessi abitanti, la città è sempre sullo sfondo dei racconti nelle varie interviste. In modo particolare prevale questo senso di disconoscimento di alcuni luoghi ritenuti familiari, completamente modificati dalle scosse e resi irriconoscibili, che contrasta con il tentativo di aggrapparsi alle apparenze, a quei calcinacci che hanno resistito, anche se successivamente ritenuti inagibili. Le persone che generosamente hanno preso parte alla ricerca raccontano di un bisogno latente di ripercorrere le vie del centro, le strade più familiari per rendersi conto in prima persona di cosa fosse accaduto:

    «la facciata della chiesa è distaccata, le case intorno sono come bombardate, non oso nemmeno immaginare il paese dentro com’è. C’è polvere, come nebbia, passo davanti casa vecchia dei miei, la casa dove siamo cresciuti io e mio fratello, e sembra intatta. Non riesco a crederci, come può avere retto quella casa? Scoprirò inseguito che all’interno non c’è più nulla, è crollato tutto sono rimasti soltanto i muri esterni. Sorte che hanno avuto molte case. Da fuori sembra tutto a posto» (Patrizia).

    La città rimanda alla propria identità, al senso di appartenenza a un territorio, e rappresenta soprattutto il contesto più familiare della propria narrazione autobiografica.

    «Ciò che ho perso è la città, la sicurezza di un’isola felice se vuoi anche la quotidianità di sapere che tutto era lì dove è sempre stato e dove ora invece non c’è nulla. Non so se sia corretto dire che ho perso un’identità. Ciò che so è che mi sono sentita svuotata(..) forse è più corretto parlare di certezze che crollano» (Sara)

    L’immagine della memoria contrasta con lo stimolo visivo che si apre di fronte ai loro occhi.
    Se la città e i suoi luoghi sono “oggetti” prevalentemente culturali, cose su cui si intreccia la biografia di ogni aquilano con quelle di una specifica tradizione, di una comunità, la casa è il meta-oggetto che incarna i tratti identitari più forti, la cosa che genera il maggiore costo emotivo. Perché «la casa, così come i cimeli degli antenati rappresentano oggetti a cui la patina del tempo e le biografie particolari conferiscono significati singolari, li rendono insostituibili, non scambiabili» (Bartoletti, 2002, p. 71). Perché, in fondo, come sottolinea un’intervistata,

    «la casa è un libro, di cui alcune pagine sono di pietra, altre di legno, altre di colori, dei colori delle cose, degli oggetti che vi sono stati messi dentro. La casa è un oggetto, un manufatto umano in cui si è proiettata l’esistenza di ognuno come uno specchio» (Lia).

    In questo caso particolare, mi interessava esplorare il lato narrativo e mnestico dell’abitazione. Come ricorda Tarpino (2008), «anche nel piccolo universo domestico le immagini si traducono in parole, imbastiscono racconti: mobili, ninnoli, piccoli attrezzi compongono la lingua figurata di una retorica dell’intimo. Dove passato e presente, memoria e sguardo, si confondono in un’unica immagine» (ivi, p. 45).

    L’allontanamento momentaneo o definitivo – almeno fino a questo momento – ha un costo emotivo non indifferente. A quel meccanismo di appropriazione del quotidiano, a quella addomesticazione (Mandich, Rampazi, 2009; Mandich, 2010) che rende tutto familiare e ordinario, sopito in un tempo e in uno spazio in cui siamo completamente immersi, si sostituisce la disappropriazione improvvisa dettata dal terremoto. Le scosse strappano in maniera ingiusta e illegittima ciò che appartiene agli aquilani, cose più o meno importanti, che sono profondamente intrecciate con le loro biografie, che gli appartengono, dice Baudrillard (1987), fatte le dovute proporzioni, come gli organi del corpo.

    Il bisogno di ritrovare nella propria casa il riflesso dell’immagine familiare è tanto forte da causare una focalizzazione – agli occhi di chi non l’ha vissuta – assurda per il particolare. Mi racconta un’intervistata: «risalgo su a casa, la corrente va e viene, e trovo mio padre in mezzo al salone, con la scopa in mano che tenta inutilmente di ripulire il pavimento» (Patrizia).

    Lentamente, nel tempo, seguirà un processo di riappropriazione della propria vita, della propria casa, anche quando non è più la stessa. In questo processo hanno un ruolo centrale gli oggetti. Per quanto tutti gli intervistati prendano le distanze dalla dimensione materiale delle cose, è attraverso gli oggetti che mettono in atto quel processo di appropriazione di ciò che non è familiare, di quelle case anonime e tutte uguali in cui ci si sente estranei.

    Perché gli oggetti sono riflessi identitari, sono forme espressive del sé a cui il nostro tempo e la nostra cultura ci ha abituati, perché «gli oggetti sono compagni di vita silenziosi» (Lia).

    Ma la riflessione più interessante riguarda le cose in senso stretto. Indipendentemente da quelle su cui ciascun intervistato si è soffermato nel racconto. L’esperienza tragica che gli abruzzesi hanno vissuto il 6 aprile 2009, come alcuni di loro sostengono, non è stato semplicemente un trauma ma un memento dell’inesorabilità della finitezza umana. Essere stati così vicini al confine ultimo dell’esistenza, ha costretto a una rivalutazione della propria vita e di ciò che è da ritenersi importante. Posto che quasi tutti hanno subito delle perdite affettive molto grandi [14], nella riflessione sugli oggetti molti di loro sostengono di non avere riflettuto sulle perdite fisiche, pur riconoscendo che in alcuni casi sono state significative.

    Anche le persone tendenzialmente possessive e visceralmente legate agli oggetti, affermano di non essere stati interessati nell’immediato al recupero delle cose. Era la vita la cosa a cui ci si è aggrappati con tutta la forza. La propria e quella delle persone care.

    «Mi stupisco, a posteriori, della mia totale indifferenza verso gli unici beni di consumo per me di vitale importanza, cibo e totem: i dischi (vinili, cd, cassette) e i libri. Fino a quel giorno li ho tenuti in ordine rigorosamente alfabetico rapportandomi a questi microcosmi di suono e sapere con un approccio tra il devozionale e il feticista (…)» (Paolo).

    Dalle parole degli intervistati non mi è parso di cogliere un attaccamento alla permanenza dell’oggetto: non si è verificato un eccesso di investimento affettivo ed emotivo intorno alle cose che erano rimaste. Piuttosto, la strategia prevalente è l’interiorizzazione dell’oggetto (Giordano, 1997), che in questo caso coincide con la sua sublimazione in ricordo, con la dissociazione tra materia e segno, tra oggetto e bene [15]. Questa forma di elaborazione della perdita segue due percorsi diversi. Da un lato, infatti, essa riguarda le cose materiali, gli oggetti che non si trovano più, quelli inghiottiti dalle macerie. Il trauma diventa quasi uno spartiacque nella memoria in cui è possibile distinguere un prima e un dopo e in cui gli oggetti possono avere un ruolo di “fissazione” di precisi eventi, di specifiche persone affettivamente significative o meglio ancora di specifiche fasi della propria storia autobiografica. Piccoli mementi del sé narrativo in costante evoluzione, ma desideroso al contempo di lasciare tracce, che rendono visibili il percorso nel suo insieme.

    Dall’altro lato, l’interiorizzazione ha a che fare con le cose immateriali. Avendo lasciato libero di scegliere di declinare il termine nell’accezione più vicina all’intervistato, molti di loro hanno focalizzato l’attenzione su sentimenti, valori, affetti, annoverandole tra le uniche cose che contano veramente: «oggi le mie cose sono quelle che porto dentro, i ricordi, i profumi, le sensazioni, le emozioni, i cambiamenti, il futuro» (Lia).

    In passato mi sono occupata di perdita ma da altri punti di vista [16]. Dalle ricerche sul campo è emerso quasi unanimemente che il dolore per la perdita di una persona cara fa cadere una maschera. Apre gli occhi e li purifica dalle apparenze, dai mille filtri sociali, da ciò che ci viene indotto culturalmente. Oggi, alla luce di questa ricerca esplorativa, mi sento di dire che la perdita nella sua accezione più ampia, soprattutto se improvvisa e traumatica, genera una rivelazione: determina un nuovo ordinamento delle cose, aiuta a ricercare in cose meno ordinarie il senso ultimo della vita.

    Per quanto riguarda gli oggetti della memoria, vorrei soffermarmi su quelli più biografici [17]. Le persone che sono riuscite a tornare a casa o quelle che continuano a frequentarla senza poterci abitare in maniera stabile, convivono con alcuni segni evidenti del terremoto che non sono solo tracce dell’accaduto, sono anche continue e fastidiose intrusioni nel tempo ordinario. Un segno sul muro o una crepa sul lavandino, come ci racconta un’intervistata, ricorda agli abitanti della casa il terremoto: sono il segno di una precarietà che si riflette anche nel processo di ri-costruzione identitaria.

    È difficile distinguere l’oggetto che è espressamente della memoria, dall’oggetto transizionale, che ha consentito la riappropriazione della propria esistenza aiutando a rendere nuovamente familiare un posto nuovo o irriconoscibile. Un esempio è offerto da Patrizia. Lei ha dovuto lasciare, e lo ha fatto faticosamente, la sua casa. Oggi vive in una delle residenze provvisorie. Mi racconta che nel tentativo di personalizzare la sua nuova abitazione, ha utilizzato come fiorirera delle vecchie tubazioni trovate in giro. Lei non lo ha esplicitato, però mi pare di cogliere in questa conversione di un residuo del terremoto in un oggetto domestico, un tentativo di interiorizzare l’esperienza vissuta, di farla propria, attraverso un oggetto che è in fondo un oggetto biografico della memoria, un segno del terremoto che potrebbe essere semplicemente un resto da discarica, ma che per l’intervistata è traccia di un vissuto. Quel tubo l’ha colpita, le ha sussurrato “prendimi”, e la sua creatività l’ha portata a tradurlo, a riconvertirlo in un oggetto domestico, che, guarda caso, ospita la vita (delle piante).

    5. L’IO e l’orma secca [18]. Riflessioni a margine di un metodo

    Vorrei concludere con alcune riflessioni a margine di un metodo che, pur essendo basato su una pratica piuttosto datata, di fatto, che io sappia, non è largamente impiegato, nemmeno nell’ambito della prospettiva narrativa [19].

    Ho già detto che la scelta della forma epistolare possiede i vantaggi legati alla scrittura di sé, marcando la presenza di un lettore attento che interagisce con l’autore, seppure in differita, attraverso lo scambio epistolare.

    Allo stesso tempo, l’avere utilizzato la mediazione della corrispondenza mi ha aiutata a entrare nelle loro vite in punta di piedi. Distribuendo il nostro scambio in tre contatti, ho costruito lentamente una relazione con gli intervistati, dosando la mia presenza e la profondità della richiesta del tipo di racconto che mi aspettavo da loro. Le storie con cui sono entrata in relazione sono quelle che Jedlowski (2010) definisce “storie ad alto rischio”, sono quelle focalizzate sulla ricerca di sé, a cui nella quotidianità difficilmente si lascia spazio. La scarsa conoscenza che mi legava agli intervistati ha facilitato il costituirsi di una intimità profonda. Ciascuno di loro si è sentito libero di raccontarmi la sua storia, protetto dalla certezza dell’assenza di un legame affettivo, dalla certezza di una relazione accostabile a quella tipica del viaggio in treno in cui si condivide il percorso con persone sconosciute a cui inaspettatamente si rivelano tratti intimi della propria storia. Come sostiene l’autore «a permettere racconti che si sporgono sulle dimensioni più enigmatiche o a volte francamente traumatiche dei propri vissuti è il fatto che la narrazione non avrà conseguenze» (ivi, 2010, p. 23). Non avrà conseguenze, se non quelle pedagogiche e auto-terapeutiche tipiche della scrittura di sé.

    Non posso però tacere i limiti che ho incontrato e che in parte sono già emersi nella descrizione del metodo. La ridotta intrusione del ricercatore presenta, in primo luogo, una minore possibilità di controllo sul percorso narrativo intrapreso dall’intervistato. Per quanto si possano fare rilanci successivi attraverso altre lettere di approfondimento, l’autore del racconto ha già fatto le sue scelte e il suo sguardo si muoverà inevitabilmente all’interno del frame concettuale tracciato nelle prime lettere.

    Questo implica il fatto che il ricercatore avrà a disposizione un materiale molto eterogeneo, più di quanto possa esserlo nel caso di interviste in profondità svolte secondo le modalità tradizionali.

    Altro aspetto critico evidente è la durata dello scambio. I metodi qualitativi, in generale, richiedono più tempo rispetto ad altri strumenti perché si prefiggono livelli di profondità maggiori che richiedono abilità esplorative da parte del ricercatore. Nel caso del rapporto epistolare i tempi si allungano perché lo scambio non avviene in maniera estemporanea ma è mediato dalla scrittura. Una scrittura particolarmente costosa in termini emotivi perché focalizzata sul sé e soprattutto su un evento traumatico. Una scrittura che, come ho già detto, è fatta di allontanamenti, interruzioni, ritorni. Tutte strategie per filtrare e limitare l’impatto emotivo del racconto, sul sé prima ancora che sul futuro lettore.

    Infine, l’altro limite ha a che fare con la natura della narrazione che desideravo raccogliere attraverso il rapporto epistolare. Ero pronta a dovermi scontrare con le resistenze, consce o inconsce, messe in atto dagli intervistatori, ma immaginavo che, considerata il caldo interesse mostrato da molti di loro, una volta accettato di partecipare, si sarebbero attenuate.

    Invece avevo sottovalutato la profondità delle ferite ancora vive nella memoria e nella storia dei miei interlocutori. Come Benjiamin ha ben descritto, il trauma produce silenzio. Di fronte al dolore per le perdite subite allo shock generato dalle scosse, è difficile raccontare di sé. È difficile finché quel racconto non diventa esperienza, non si fa memoria (Jedlowski, 2000:2009).

    Anche gli aquilani che mi hanno raccontato le loro storie hanno subìto di primo impatto un blocco. La difficoltà di raccontarsi, di esporsi al mio sguardo. Perché la scrittura gli imponeva un percorso elaborativo e ordinativo troppo doloroso e complesso. A distanza di due anni[AP3], gli eventi ancora non sono del tutto sedimentati nella vita dei protagonisti. Manca una narrazione corale, sia pure fatta di compromessi. È più una ricerca affannosa di mettere le cose a posto, di restituirgli un ordine. E in questo tentativo faticoso, al momento, non c’è molto spazio per il racconto di sé, se non a costo della rottura dei propri equilibri.

    Qualcuno di loro mi confessa di avere sofferto. Nonostante l’interesse a contribuire alla ricerca, prevaleva la presa di coscienza di non avere mai dedicato un tempo alla riflessione personale. Il fatto di non avere mai dovuto parlare in prima persona del terremoto, di avere focalizzato l’attenzione su problemi più importanti, primari, li ha in qualche modo preservati dal dolore di un viaggio interiore tra le macerie che sono rimaste dentro.

    Nonostante tutto, alla fine di questo primo percorso, posso dire che prevale la voce. Il silenzio è stato vinto dalle parole che mi hanno regalato. Dice Cyrulnik (2009, p. 46):

    «Uno spaventapasseri si sforza di non pensare: è troppo doloroso costruire un mondo interiore ricolmo di rappresentazioni atroci. Si soffre meno quando si ha legno al posto del cuore e paglia sotto il cappello. È sufficiente tuttavia che uno spaventapasseri incontri un uomo vivo che gli infonda un’anima, perché sia di nuovo tentato dal dolore di vivere».

    Note

    1] Si pensi al testo di Leonini (1987) che rappresenta un caposaldo della letteratura italiana su questi temi e che riporta come sottotitolo “il ruolo degli oggetti nella vita quotidiana”. Cfr riferimenti bibliografici.
    2] L’autore motiva questa distinzione a partire dall’etimologia del termine a cui riconosce un’origine più recente rispetto alla parola “cosa”. “Oggetto”, infatti, risalirebbe alla scolastica medievale e significherebbe letteralmente “ostacolo che si pone innanzi”, definizione che marca in maniera incisiva la componente materiale.
    3] Per una riflessione più approfondita sul concetto di patina da un punto di vista socio semiotico si rimanda a Fontanile J. (2002), La patina e la connivenza, in Landowski E., Marrone G. (a cura di), La società degli oggetti. Problemi di intersoggettività, Meltemi, Roma, p. 71-96.
    4] Il concetto è stato utilizzato per la prima volta da Brown e Kulik in riferimento a episodi tragici e collettivi come l’assasioni di Kennedy e di Martin Luter King.
    5] Considerato il taglio metodologico del contributo, i risultati che commenterò negli ultimi paragrafi sono da intendersi come suggestioni interpretative da approfondire e verificare con ulteriori analisi.
    6] Le difficoltà di reperimento e i tempi inaspettatamente più lunghi della prima fase, hanno rallentato il processo di ricerca e alla data in cui scrivo il presente contributo il secondo momento della ricerca è in una fase embrionale. Le considerazioni che saranno proposte nelle prossime pagine possono considerarsi parziali e suscettibili nel tempo a rivisitazioni, riguardando solo la raccolta delle intervista via lettera.
    7] L’autore, con questa espressione, in realtà parafrasa il pensiero di Paul Valery in riferimento alla produzione artistica in generale e lo applica a quella narrativa, e in modo particolare a quella orale. In modo particolare sostiene che «influenzandosi reciprocamente essi determinano una prassi. Oggi questa prassi non ci è più consueta. La parte della mano nella produzione si è fatta più modesta, e il posto che teneva nella narrazione è vuoto. (Poiché la narrazione, nel suo lato materiale, non è già solo opera della voce sola. Nell’autentico narrare interviene bensì anche la mano, che coi suoi gesti, sperimentati nel lavoro, sostiene in cento modi le parole)» (Benjiamin, 1968, p. 273). Se proviamo a riflettere sul nostro tempo, soprattutto in riferimento alle nuove tecnologie è facile comprendere come la mano del gesto ha sicuramente perso il suo posto, ma la mediazione della scrittura oggi è molto più presente anche nelle semplici narrazioni quotidiane. Nell’ipotesi di un percorso epistolare la mano riconquista la sua centralità in un racconto pensato, ponderato e, mi sia concesso, superiore rispetto allo scambio mediato nelle conversazioni di ogni giorno.
    8] Va precisato che, sebbene nella prima lettera abbia fatto esplicito riferimento all’uso della penna, una parte degli intervistati ha comunque utilizzato il computer per scrivermi, riportando i testi in word. In alcuni casi si è trattato di estremo pudore, dato che ritenevano la loro grafia impresentabile; in altri, a dire loro, è stata più una scelta pratica, soprattutto fra i più giovani, essendo praticamente abituati ormai all’uso del pc per qualsiasi forma di produzione scritta.
    9] Alcuni intervistati mi hanno risposto a più riprese e mi hanno permesso di cogliere anche questo aspetto indicando la data delle varie interruzioni, aspetto che un file in word non permetterebbe di segnare. A volte anche l’uso di una penna diversa fa ipotizzare l’interruzione della scrittura e la prosecuzione in un momento o in un luogo diverso.
    10] Considerata la qualità e la profondità dei racconti che queste persone hanno condiviso con me, riterrei più appropriato definirli autori dello scambio epistolare. Dato che però nel linguaggio metodologico colui che è parte di un dialogo finalizzato alla raccolta di informazioni è un intervistato mi trovo costretta, in questo contesto, a utilizzare il termine più comune e consono per la sede del contributo.
    11] Interessante notare che il concetto di ordine ha una doppia valenza che, nel caso specifico del terremoto, risulta particolarmente calzante. L’ordine – specialmente nella scrittura di sé – rimanda all’idea del tempo e dunque a un processo di selezione e di messa in fila degli eventi, per quanto rispetto a una personale visione e percezione della temporalità. Allo stesso tempo, però, l’ordine siamo soliti farlo anche nello spazio, nella distribuzione materiale delle cose che ci circondano. Le scosse del terremoto hanno compromesso per i superstiti, tanto l’ordine narrativo, temporale, quanto quello spaziale dei propri ambienti familiari. Sappiamo anche che intervenire su entrambi – ordine temporale e quello spaziale – ha degli effetti terapeutici.
    12] Cfr Micalizzi A. (2010), Instabilità terrestri e storie straordinarie nella Rete: tra lutto collettivo e solidarietà, in Fassari L, Boccia Artieri G. (a cura di), Giovani Sociologi 2009, p. 33-56, Scriptaweb, Napoli.
    13] Tra le persone che hanno accettato di partecipare a questo scambio epistolare solo tre sono uomini. Questo parrebbe confermare due aspetti legati tanto alla narrazione, quanto alla memoria. Alle donne va riconosciuta una naturale propensione alla narrazione di sè (Cavarero, 1997), così come alle donne è riservato il compito di custodire la memoria, quella familiare e autobiografica, di cui si fanno testimoni attraverso la narrazione (Mandich, 2010).
    14] Anche le persone che non hanno perduto un familiare diretto, hanno comunque vissuto il lutto per la morte di conoscenti, vicini di casa, persone importanti che facevano parte del loro intorno sociale. Per cui è evidente che la perdita degli oggetti ha assunto una rilevanza relativa per loro soprattutto nel primo periodo.
    15] Bene può essere considerato un altro sinonimo di oggetto, nell’uso comune. Esso a mio avviso in questo caso è particolarmente efficace poiché in italiano ha anche un altro significato: esso designa un tipo di affettività.
    16] Cfr Micalizzi A. (2009), Il lutto e la rete: ambienti digitali ed elaborazione collettiva della perdita. Uno sguardo etnografico, in La critica sociologica, n.173, Fabio Serra Editore, Roma-Pisa, p.53-71.
    17] Ho detto che Leonini (1991) e Le Goff (1979) hanno utilizzato l’espressione monumenti personali della memoria per riferirsi ad oggetti personali che assurgono a memento biografico. Questi oggetti, a mio avviso, differiscono da quelli che presenterò nelle prossime pagine poiché presentano una funzione mnestica esplicita. Sono il risultato di un processo sedimentativo che nel caso del terremoto in Abruzzo non è ancora avvenuto.
    18] Il titolo del paragrafo parafrasa il pensiero di Zojia (2009) che riconosce alla competenza umana della scrittura un ruolo fondamentale: come traccia e come oggettivazione dell’Io. «Con la scrittura la parola si trasformò in segno di un assente, orma secca da cui il piede si è allontanato» (ivi, p. 35).
    19] Mi pare di potere scorgere sostanzialmente due impieghi dello scambio epistolare nell’ambito delle scienze umane (in senso lato): il primo è tipicamente giornalistico e rimanda alla forma documentale e impegnata che in parte tocca gli ambiti del sociale; l’altro è terapeutico e trova spazio soprattutto all’interno della letteratura pedagogica sulla scrittura di sé. Si veda a questo proposito il contributo di Ferrari (2001:2010) e del suo metodo epistolare nelle situazioni d’aiuto.

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