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        Marina Brancato (sous la direction de)
        M@gm@ vol.9 n.3 Septembre-Décembre 2011
MEDIATECHE DOMESTICHE: UNO SGUARDO AUTOBIOGRAFICO
Paolo Jedlowski
pjedlowski@unical.it
        Sociologo, Ordinario di Sociologia Generale presso la Facoltà 
        di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli L'Orientale 
        e docente di sociologia della comunicazione all'Università della Svizzera 
        italiana.
Nel loro articolo in questo numero di “M@gm@”, Olimpia 
        Affuso e Simona Isabella riassumono i risultati di una ricerca su quelle 
        che insieme abbiamo chiamato le “mediateche domestiche” [1]. 
        Si tratta delle raccolte di libri, dischi, video e così via che conserviamo 
        nelle nostre abitazioni, più o meno con ordine o alla rinfusa, riempiendo 
        scaffali e altri spazi. Oggetti che ci siamo procurati e che abbiamo “consumato” 
        leggendo, ascoltando o guardandoli, ma il cui uso e il cui significato, 
        e le pratiche che vi sono associate, non si limitano all’acquisto e neanche 
        al mero consumo: conservandoli li carichiamo di un valore diverso. Se 
        ci guardiamo attorno, sui nostri scaffali è inscenato una specie di “teatro 
        della memoria”: oggetti che rammentano per noi e che ci rammentano altro, 
        che a volte riprendiamo in mano ma che comunque segnano la nostra impronta 
        sull’ambiente, e che parlano di noi a chi venga in visita.
        
        Le ipotesi che hanno guidato la ricerca e i principali risultati sono 
        raccontati da Affuso ed Isabella. Quanto al metodo, abbiamo fatto uso 
        soprattutto di lunghe interviste narrative, realizzate con alcune decine 
        di persone di ambo i sessi, di svariate collocazioni professionali, di 
        età differenti, in diverse città. Ma queste interviste sono state precedute 
        da quelle che abbiamo chiamato “auto-interviste”: ciascuno di noi ha rivolto 
        a se stesso le domande che avrebbe poi rivolto alle persone da intervistare, 
        e ha scritto e condiviso con gli altri il testo che ne è scaturito.
        
        Gli scopi di questo procedimento di auto-indagine (piuttosto raro che 
        io sappia nelle ricerche sociologiche, almeno in modo esplicito) erano 
        molteplici. Si trattava di un aiuto a fare “mente locale” sul tema, sollecitandoci 
        a prendere atto della nostra stessa esperienza a riguardo. Era un modo 
        per cominciare a raccogliere informazioni: anche noi abbiamo a casa biblioteche, 
        raccolte di CD, DVD e così via, e potevamo cominciare ad osservare come 
        le ordiniamo, cosa ne facciamo, se buttiamo via qualcosa o lo spostiamo 
        e secondo quali logiche, e così via. Ed era un modo infine per tenere 
        sotto controllo le nostre proiezioni. Questa forse è la cosa metodologicamente 
        più rilevante. Uno dei rischi di chi fa ricerca infatti è quello di essere 
        attento, intervistando altre persone, soprattutto a quello che lo riguarda 
        personalmente: si coglie quello in cui ci si riconosce, e si trascura 
        l’alterità, la differenza. Esplicitare in via preliminare i propri atteggiamenti, 
        le proprie pratiche, le proprie preferenze, lascia così più liberi di 
        essere curiosi verso ciò che gli altri hanno da dire.
        
        Queste auto-interviste hanno un andamento narrativo. Si tratta di testi 
        autobiografici: limitati ovviamente dall’interesse per un tema specifico, 
        ma non dissimili nella forma da altre scritture autobiografiche. Credo 
        che pubblicarne una sia un modo di presentare la ricerca complementare 
        a quello scelto da Affuso e Isabella: nell’auto-intervista non vi è sistematicità, 
        a parlare è l’esperienza della ricerca mentre è in corso; chi la legge 
        può entrare, per così dire, all’interno del cantiere. Non mi pare corretto 
        però usare testi di altri: quella che presento così è la mia. E’ la prima 
        auto-intervista che abbiamo realizzato. E ha un posto un po’ particolare; 
        di fatto, ha preceduto la ricerca stessa: è stata l’occasione in cui ho 
        cominciato a immaginare la ricerca che poi abbiamo realizzato.
        
        Chi legga questo testo dopo quello di Affuso e Isabella vi ritroverà molte 
        cose, ma anche qualche differenza. Da un lato, il tema delle pratiche 
        di acquisto, che nel mio caso corrispondeva a una serie di domande che 
        pensavo avremmo fatto ai nostri intervistati, è stato poi sostanzialmente 
        escluso dalla ricerca. Dall’altro, nell’intervista a me stesso hanno un 
        ruolo poco rilevante pratiche di archiviazione connesse al computer e 
        in generale ai “new media” che poi, intervistando altri, ci sono apparse 
        fondamentali.
        
        Le autobiografie sono comunque testi mobili. Appena rileggi quello che 
        hai scritto ti viene voglia di aggiungere, cambiare, ritoccare. Oggi, 
        che lavoriamo col computer, è particolarmente facile e viene con naturalezza. 
        Rileggendo questo testo autobiografico, così, ho desiderato di cambiarlo, 
        o se non altro di aggiornarlo. Ho resistito alla tentazione, tranne qualche 
        lieve intervento e qualche nota utile a renderlo più comprensibile. Ma 
        vivendo si cambia, e cambia continuamente anche il modo in cui si guarda 
        al passato. Oggi scriverei questo testo diversamente: con i video, alla 
        cui conservazione mi dichiaravo piuttosto estraneo, negli ultimi anni 
        ho sviluppato una relazione molto intensa; col passare del tempo è cambiato 
        velocemente anche il mio rapporto con i new media. Ma la ricerca stessa 
        ha cambiato la mia consapevolezza riguardo a molti dei punti toccati. 
        Adesso avrei molti più dettagli da raccontare: la memoria muta al mutare 
        della sensibilità del presente.
        
        Auto-intervista n. 1
        (febbraio 2006; maschio; 54 anni; docente universitario; sposato con figli; 
        luogo dell’intervista: Milano)
        
        Abito vicino a Cosenza, in una casa in campagna nei pressi del campus 
        universitario. Ma sono nato e cresciuto a Milano, dove abita ancora mia 
        madre, e ci vengo spesso. In questo periodo lavoro a Napoli, dove ho un 
        monolocale in affitto. Le case insomma sono molte: non ho un solo ambiente 
        domestico di cui parlare.
        
        Scrivo questa auto-intervista a Milano. E’ domenica, sono arrivato stamattina. 
        La casa in cui sta mia madre è quella dove abitavo da ragazzo. Non ci 
        sono molti oggetti miei (però c’è ancora una targhetta sulla porta di 
        quella che era la mia stanza: Paul’s room, anche se adesso la stanza è 
        una specie di tinello). Dormo in quello che lo studio di mio padre. Ci 
        sono ancora cose sue qui dentro, io alle pareti ho aggiunto qualche manifesto; 
        nella libreria qualche libro che mi serve quando sono qui.
        
        Nel pomeriggio esco, vado alla libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires. 
        Sono le sei di sera, è piena. Le sedie e le poltroncine nelle varie sale 
        sono tutte occupate. E’ da qualche anno che le Feltrinelli sono aperte 
        la domenica. Sono meta di piccole passeggiate, ci passi del tempo, leggi, 
        ti informi, magari incontri qualcuno che conosci, compri qualcosa. In 
        linea di principio, potresti anche fare incontri amorosi (come Calvino 
        aveva osservato). Ma i consumatori di libri guardano più che altro i banconi, 
        non si guardano gran che reciprocamente.
        
        Cerco due libri di cui mi sono portato la recensione dopo averla ritagliata 
        da un giornale. Un altro libro mi colpisce e lo compro senza che prima 
        lo conoscessi. Un altro lo soppeso, lo lascio per una prossima volta. 
        Compro in regalo un giallo per mia madre.
        
        Alla Feltrinelli spesso passo lunghi momenti a scegliere cosa regalare 
        ai miei figli. I libri sono regali speciali (più avanti dovrò dirlo: di 
        quelli che mi hanno regalato ricordo quasi sempre la persona, l’occasione, 
        la storia).
        
        Anche a Napoli, la Feltrinelli è il primo negozio dove sono entrato. Entro 
        sempre nelle librerie. Una sorta di spazio domestico altrove, riconoscibile, 
        amico; come quando ero studente e in ogni città facevo in modo di passare 
        dall’università del posto, come a dire in un luogo un po’ extralocale, 
        simile e collegato dovunque, in cui ero meno straniero che in altri posti. 
        (Soprattutto quando ero soldato, ricordo, e andare nelle università delle 
        città dove stavo in caserma era anche rammentare a me stesso che non ero 
        del tutto sperduto: ritrovarmi in un ambiente che mi era familiare e a 
        cui mi sentivo di appartenere, nonostante quello che vivevo come un esilio, 
        perché fare il militare fu un po’ come un esilio).
        
        Mi torna in mente quando ero ragazzo: anche allora, al pomeriggio, venivo 
        in corso Buenos Aires. Però allora la meta era un negozio di dischi. Ci 
        venivo da solo, ascoltavo qualche disco nel negozio, oppure cercavo qualcosa 
        che avevo sentito per radio. Li sceglievo con molta cura i miei dischi 
        (i long playing), non avevo molti soldi, ci andava tutta la “paga” settimanale 
        che mi passavano i miei. Ovviamente dei dischi si parlava con gli amici. 
        Ci si vantava di quello che si possedeva. Sui gusti reciproci si stilavano 
        severe classifiche di prestigio. La raffinatezza del gusto musicale era 
        un elemento di distinzione.
        
        Ricordo, sui quattordici anni, che un compagno della scuola di tennis 
        mi prestò i primi long playing dei Beatles: una scoperta, li registrai 
        sul magnetofono. Il primo che comprai io era Revolver.
        
        La discoteca a casa cresceva parallelamente alla mia libreria. Era importante. 
        Sentivo i dischi dopo pranzo, qualche volta quando studiavo, sempre, mi 
        pare, quando leggevo romanzi o guardavo riviste. Il problema era non alzare 
        troppo il volume: a casa mica ci stavo solo.
        
        Più avanti, nel periodo dell’università, compravo ancora qualche disco, 
        avevo qualche compagno esaltato per i Grateful Dead o per i Jefferson 
        Airplanes. Allora però il negozio era diventato un altro: anzi due, c’erano 
        due negozi molto specializzati vicino al bar Magenta. Lontano da casa 
        ma nella parte della città che allora sentivo più mia. Ovviamente i dischi 
        erano colonne sonore degli incontri amorosi. Di una ragazza, ricordo soprattutto 
        che sentivamo insieme Cat Stevens. In un altro periodo, i Pink Floyd. 
        Con mia moglie, più tardi, abbiamo ascoltato insieme a lungo Bob Dylan, 
        Janis Joplin, Joni Mitchell.
        
        Scrivendo mi accorgo di quanto parlare di “consumi mediali” sia riduttivo. 
        I dischi - e attraverso di loro la musica, ovviamente, ma l’oggetto fisico 
        in sé aveva il suo fascino e la sua importanza - erano colonna sonora, 
        erano emozioni, erano distinzioni e appartenenze, erano amici, amori, 
        legami, posti e profumi. Averli in casa era viverci insieme. Le stesse 
        “pratiche d’acquisto” erano cose complesse, lunghe, precedute e seguite 
        da tante altre cose [2].
        
        Quando i giradischi sono stati sostituiti dai lettori CD la mia discoteca 
        è finita. Avevo concluso l’università, cominciavo a lavorare; poi mi sono 
        trasferito a Cosenza. Alcuni long playing nella casa nuova li ho conservati 
        in una cassapanca. Altri li ho venduti. Qualcuno, all’inizio, lo registrai 
        su cassetta. Ho cominciato a comprare CD, ma per me non era più l’età 
        della musica, non ho più aggiornato le mie competenze, non ho sentito 
        quasi più la radio e non conoscevo più gruppi e cantanti. (Più avanti, 
        quando i miei figli sono cresciuti, ho avuto una specie di nuova socializzazione, 
        attraverso le cose che mi facevano sentire loro).
        
        Oggi, mi sembra che la musica mi emozioni troppo: non desidero più esserne 
        preso come evidentemente mi piaceva da ragazzo. In ogni caso la mia discoteca 
        in CD oggi occupa un misero scaffale della libreria. Altri CD li tiene 
        mia moglie, in camera da letto o nella casa che abbiamo in montagna. Alcuni 
        ci rammentano cose insieme, altri sono separati.
        
        Però la musica - o meglio, propriamente, le canzoni - ha una parte importante 
        nella mia memoria. Nella testa ho una sorta di juke box: canzoni per ogni 
        periodo, canzoni per commentare sentimenti. Non c’è però corrispondenza 
        fra le canzoni che ricordo e quelle che fisicamente conservo. (Anche se 
        è vero che recentemente ho comprato riedizioni di canzoni di Battisti 
        e Patty Pravo, o vecchie cose dei Beatles. Per la ricerca che faremo, 
        qui conta il concetto di “memorie comuni”: quei ricordi intimi che però 
        sono comuni anche ad altri, e che in gran parte sono proprio ricordi legati 
        al mondo dei media) [3].
        
        La mia libreria invece ha continuato a crescere con me. Ho buttato via 
        molto poco. (Quando mi trasferii da Milano a Cosenza, nell’ottanta, lasciai 
        qualche libro a Milano: ma pochi, ed erano tutte esclusioni consapevoli).
        
        E’ a strati. Senza sbagliarmi troppo, di quasi tutti i libri che ho potrei 
        dire in che anno li ho presi. Ha sempre avuto un ordine. I romanzi sono 
        per nazionalità dell’autore, e in genere sono ordinati secondo il periodo 
        in cui sono stati scritti. Ad esempio: gli scaffali di letteratura americana 
        cominciano con Melville, più o meno, e finiscono con Cunningham, in ordine 
        cronologico. Ultimamente sono cresciute le letterature extra-europee. 
        Ma per Francia o Inghilterra ho molti scaffali, l’Asia e l’Africa insieme 
        ne occupano poco più di uno. Gli scaffali di letteratura italiana sono 
        parecchi. Qualche anno fa ho estratto poesie e teatro e li ho messi a 
        parte.
        
        Anche gialli e fantascienza sono generi a parte: la nazionalità dell’autore 
        non conta. E’ sempre stato così. I gialli fra l’altro sono gli unici libri 
        che posso anche non conservare. Tranne qualche caso, sono materiale di 
        consumo che esaurisce la sua funzione quando il libro è finito. (Qualche 
        volta però elimino un libro anche perché mi pare stupido o cattivo. Non 
        lo voglio tenere con me, lo respingo: è molto raro ma capita).
        
        I saggi invece sono ordinati per materie e per temi. Sono un materiale 
        di lavoro. Di più: sono una memoria di lavoro. Se scorro la mia libreria 
        (copre tutti i lati della stanza in cui sto, nella casa di Cosenza) scorro 
        tutto quello che so. Non che conosca il contenuto di tutti i miei libri 
        (a parte che ovviamente non me lo potrei ricordare, diversi non li ho 
        letti interamente; e poi ce ne sono alcuni arrivati in omaggio che non 
        ho proprio letto), ma c’è quello che so potenzialmente, che posso ritrovare. 
        (Fra l’altro, molti libri sono sottolineati e appuntati: quando li riprendo 
        in mano è utile, so già dove trovare quel che serve. Solo di rado rileggo 
        da capo, e allora magari sottolineo cose differenti).
        
        E soprattutto c’è l’ordine. E’ un ordine mobile, e non sarebbe facilmente 
        spiegabile: molte scelte di collocazione sono personali. Ma è un ordine. 
        Credo che sia la stessa logica del teatro della memoria di Giulio Camillo, 
        quello di cui parla Francis Yates: non importa che ricordi tutto, ma importa 
        che tutto abbia una collocazione, che esprime una logica, e in cui tutto 
        dunque può trovare posto e venire ritrovato [4]. 
        Ovviamente un ordine alfabetico non servirebbe allo scopo. Fra la mia 
        libreria e la mia testa c’è una corrispondenza. E’ il modo in cui ordino 
        la stessa realtà: storia, temi, paesi. Se un libro non so dove collocarlo, 
        significa che non so come collocare quella certa sfera della realtà nella 
        mia mente.
        
        Di molti libri so chi me le li ha regalati. Per diversi, estrarli è come 
        accennare a una storia. Quelle che racconto volentieri e quelle che non 
        racconto a nessuno.
        
        Tanti romanzi li ho letti in viaggio. Non credo di rammentare quale viaggio. 
        Ma di solito riemerge, se li prendo in mano, una certa atmosfera, quasi 
        la sensazione che a quel momento si associava. Senza data e senza luogo: 
        un po’ come gli odori. (Fra l’altro i libri hanno odori: tutti quelli 
        che li amano lo sanno).
        
        La mia libreria è una prosecuzione di quella mia madre. I primi libri 
        me li regalava lei. Letteratura americana, soprattutto, nella Medusa di 
        Mondadori o - cominciavano a uscire allora, quando avevo intorno ai quattordici 
        anni - negli Oscar. Poi diversi libri glieli ho sottratti: lei li cerca 
        e scopre che me li sono presi io. Come l’Ulisse di Joyce, edizione Medusa 
        degli anni sessanta.
        
        Adesso sono i miei figli che saccheggiano la mia libreria, costruendo 
        pian piano le loro (dapprima nelle loro stanze a Cosenza, poi nelle case 
        dove vanno ad abitare. Regalo loro molti libri, li scelgo con cura. Che 
        mi portino via i miei invece non lo apprezzo tanto: in astratto ne sono 
        contento, a volte sono io a passarglieli, è bello che interessino anche 
        loro, ma avverto il buco nello scaffale. Sui libri sono egoista. A mia 
        moglie li sottraggo volentieri, li inserisco nel mio ordine; e faccio 
        storie se lei ne prende uno dei miei per usarlo a lezione e non me lo 
        ridà.
        
        Ovviamente per la saggistica il punto è che è anche il mio lavoro. Ma 
        con i libri ho sempre avuto un rapporto terribilmente intenso. Ho semplicemente 
        trovato un lavoro in cui il rapporto con loro poteva continuare. Ricordo 
        decenni fa una ragazza che diceva: ma hai libri anche sotto il letto! 
        (Non era vero: se mai, sotto il comodino).
        
        Ricordo l’ammirazione con cui guardai la libreria della mia insegnante 
        di lettere, al liceo, una volta che non so perché andai a casa sua: mi 
        sembrò enorme. In ogni casa in cui vado, spio i libri. Testa inclinata 
        a leggere i dorsi. Mio padre aveva un lavoro diverso: non lavorava coi 
        libri. E non leggeva romanzi. Conservava però libri che riguardavano i 
        suoi hobby: piante, alberi, le vie di Milano. E dai tempi della sua università 
        aveva conservato due manuali: ne ricordo uno di mineralogia, della Hoepli, 
        rilegato in marrone.
        
        Quotidiani e riviste non li ho mai conservati. Dovrei uscire io di casa, 
        se lo facessi. Ma da un po’ conservo i fumetti. Anzi, sono triste del 
        fatto che tanti (i Linus dei primi tempi!) li ho gettati. Dei fumetti 
        seriali, conservo quelli di Berardi, cioè Ken Parker e Julia (questo me 
        lo ha fatto conoscere mia figlia). Di altri, qualche numero uno o qualche 
        storia particolarmente ben riuscita. In Brasile ho comprato vecchi albi 
        di Flash Gordon in portoghese. Più recentemente, da che in Italia cominciano 
        a essere diffuse le graphic novel, ne acquisto diverse e le conservo (ma 
        queste sono edizioni più costose dei fumetti). Mia figlia ha conservato 
        nella sua stanza quasi tutto Dylan Dog. Mio figlio ha a lungo conservato 
        Topolino (ora nel ripostiglio, però se capita me lo riguardo io).
        
        Ho qualche dizionario, qualche enciclopedia. Ma è più mia moglie ad amare 
        le enciclopedie. Specie quelle che escono settimanalmente con i quotidiani 
        (veri suggerimenti di biblioteche domestiche, come le serie di “Grandi 
        classici” e simili; adesso peraltro escono con certi quotidiani ottimi 
        volumi di fumetti, che compro e mi conservo).
        
        C’è stato un periodo - negli anni ottanta direi - in cui avevamo in casa 
        molte cassette di musica. Ora sono accatastate un po’ alla rinfusa, impolverate. 
        Tornano utili quando le portiamo in macchina, le infiliamo nell’autoradio. 
        Ma anche in macchina il registratore ora viene sostituito dal lettore 
        di CD.
        
        Di film in videocassetta non ho mai fatto una raccolta sistematica. Ma 
        mi piace quando da un amico vedo scaffali riempiti ordinatamente di videocassette. 
        Più dei libri, mi pare che i film si prestino fra amici, o si noleggino. 
        Recentemente mi sono entusiasmato per i DVD. Ma mi secca questo cambio 
        di supporti: come per i dischi, quello che avevi prima non puoi più vederlo. 
        In ogni caso una videoteca in casa la vedrei bene. La mia fino a poco 
        tempo era piccola e casuale, sta crescendo adesso.
        
        Dalla televisione non ho mai registrato niente. Qualche volta lo ha fatto 
        mia moglie. Ma non so di nessuno che sistematicamente abbia raccolto cassette 
        di qualche programma. Di solito, si registra qualcosa se è programmato 
        in un orario in cui non puoi vederlo: allora lo registri e te lo vedi, 
        poi lo cancelli. Una memoria “a breve termine”, insomma.
        
        Ma l’anno scorso mia moglie ha acquistato tutti i DVD che riproponevano 
        una serie televisiva che le era piaciuta, Elisa. Di molte altre serie 
        TV adesso vengono editi i DVD. La faccenda è interessante. In generale, 
        la televisione si offre come un medium “di flusso”: non è previsto che 
        il pubblico conservi quello che vede. Per questo in un discorso sulle 
        “mediateche domestiche” la televisione sembra poco rilevante (nonostante 
        lo sia nel panorama dei media domestici, e nonostante faccia memoria, 
        ovviamente). Se mai, il rapporto con un programma si struttura come un 
        appuntamento ricorrente. Da che esiste il videoregistratore la possibilità 
        di conservazione domestica si è aperta, ma, come ho detto, non mi pare 
        che sia poi tanto utilizzata. Il riversamento di certi programmi in DVD 
        che puoi acquistare e conservare per bene, con tanto di titolo sul dorso 
        che sullo scaffale lo vedi e sembra un po’ un libro, cambia le cose. Ma 
        solo per certi programmi succede. Si tratta quasi esclusivamente di fiction 
        seriale che ha avuto molto successo. Un successo particolare: ambienti 
        e personaggi che il pubblico desidera “tenere con sé”.
        
        Poi c’è il computer. Ci lavoro, e quanto alla memoria ci conservo più 
        che altro quello che scrivo io stesso. Cerco di costruire “cartelle” ordinate, 
        ma ogni volta che si cambia il computer è un problema. Inoltre c’è il 
        problema delle copie: pile di floppy disk, ora sostituiti dal cosiddetto 
        “pennino”.
        
        Dalle scorribande in Internet ho cominciato da un po’ a trattenere qualche 
        immagine: può servire per un corso, per un libro. E’ una nuova mediateca. 
        Dei siti che visito in Internet il computer (non solo il mio: anche gli 
        altri a cui mi connetto) serba memoria automaticamente. Ma questo mi infastidisce. 
        Una memoria indesiderata, una conservazione di tracce che non dipende 
        da me e che permette potenzialmente di rintracciarmi. D’altro canto, organizzo 
        anch’io la mia cartella “siti preferiti”: una sorta di memoria di connessioni 
        possibili.
        
        Ma sul computer ho cominciato anche a conservare le fotografie. Come se 
        gli album di foto si trasferissero dentro al computer. Non so se le fotografie 
        famigliari possano rientrare in un discorso sulle mediateche domestiche. 
        Rientrano nell’idea più generale delle “mnemoteche”, l’insieme delle teche 
        della memoria che in casa serbiamo. Certo, sono prodotti che si conservano. 
        E hanno significati ampi e profondi. Sono prodotti domestici: ma per l’appunto 
        prodotti, la differenza con le altre cose fin qui nominate è che sei tu 
        (o qualcun altro come te, che conosci) ad averle scattate, non sono cose 
        che si comprano. Sono prodotti culturali domestici per l’autoconsumo. 
        Come le cassette in cui registri un concerto che fai con tua figlia. O 
        le videocassette che tanti conservano del matrimonio.
        
        O come i diari, i quaderni di appunti, le agende con su nomi, indirizzi, 
        magari foto, cartoline, segnali: memorie domestiche, tracce buone per 
        uno storico che si interrogherà nel futuro. C’è chi conserva tutto questo 
        e chi no. Cantine e solai di autobiografie involontarie.
        
        Le mail sono tonnellate. Le elimino e svuoto periodicamente il cestino. 
        Poi ci ripenso: una volta c’erano le lettere su carta, e quelle che volevi 
        le conservavi in un cassetto, dentro una scatola; adesso dovrei selezionare 
        fra le cose infinite che vanno buttate quello che vale la pena di conservare, 
        costruire per questo delle cartelle nel computer. Non l’ho mai fatto. 
        Addio. Come conversazioni a voce, perdute.
        
        Cerco però di salvare gli indirizzi nella cartella “rubrica”. Non so cosa 
        faccia chi va frequentemente in chat lines, in forum e simili con Internet: 
        conserva qualcosa? Cosa? Per quanto? Poi c’è il telefonino. Il mese scorso 
        ho cancellato tutti i messaggi che avevo conservato fin lì. Volevo “ripulirlo”, 
        non riempire troppo la sua memoria. Ma è stato strano, quasi doloroso: 
        erano tracce minuscole di appuntamenti, di viaggi di uno o dell’altro 
        dei miei famigliari, di scambi di affetto, di qualche lavoro. Tutte cose 
        che nella mia memoria erano più o meno svanite. Tracce di questo tipo 
        aiutano il ricordo personale: quando le vedi, qualcosa si riattiva (non 
        sempre: e l’effetto allora è ancora più forte: ero io questo? ho fatto 
        così?). Ma chiedono un “ripasso” frequente, altrimenti il ricordo deperisce, 
        scompare nel cestino del tempo, del troppo che ovviamente che non possiamo 
        fare a meno di dimenticare.
        
        Il “ripasso”, come l’ordine, è strumento fondamentale della memoria. Per 
        questo in famiglia si guardano e si riguardano le foto, si raccontano 
        e si raccontano di nuovo le medesime storie. Così le identità si ancorano 
        a qualcosa, una storia comune sedimenta e diventa di tutti.
        
        Sappiamo che i ricordi di prodotti mediali oggi si intersecano inestricabilmente 
        con i ricordi individuali. Ma è vero anche per le memorie famigliari. 
        Memorie e mediateche domestiche hanno congiunzioni forti. Ad esempio, 
        i libri che io o mia moglie abbiamo letto ai figli, quando erano bimbi. 
        Ciascuno di noi lo ricorda, ma lo ricordiamo spesso anche insieme, quando 
        raccontiamo con piacere a noi stessi la nostra storia comune. In questo 
        caso, i libri in questione non so più dove siano: consumati così tanto 
        da essere penetrati in noi, in quanto oggetto materiale si sono persi. 
        Qualcuno sta in montagna, qualcuno da me, qualcuno in una libreria dei 
        ragazzi. Anche certi film visti insieme a casa sono rimasti nella nostra 
        memoria comune. Molti Disney come Mary Poppins, ad esempio. Ne parliamo 
        e ci sentiamo uniti. Allora non li avevamo in cassetta: però sono stati 
        programmati tante volte dalle TV. Ci sono film che averli visti insieme 
        ci lega, non necessariamente tutti e quattro: come Il padre della sposa 
        lega me con mia figlia: quando uno dei due lo rivede in una TV, da qualche 
        parte del mondo, ci telefoniamo.
        
        Ancora: i manifesti sulle pareti. Ne ho in tutte le case (anche nello 
        studio in università; quando sono arrivato a Napoli, la prima cosa che 
        ho fatto è stato personalizzare la stanza appendendo qualcosa di mio). 
        Questi li ho acquistati (qualche volta me li hanno regalati). Rammentano 
        un episodio, un viaggio, oppure parlano di qualcosa che ami o che hai 
        amato in un certo periodo. A volte, compensano il fatto che molti testi 
        mediali non sono fatti per essere conservati, ma per essere consumati 
        sul posto e in un momento: programmi TV, spettacoli teatrali, concerti, 
        anche i film (a meno che non hai la cassetta); così la foto dell’attore, 
        del cantante, o di una scena del film, la conservi sul manifesto, ti serve 
        a ricordarlo, a restarci in compagnia, e a dire agli altri che sono quelli 
        i tuoi gusti.
        
        Mia moglie ha due fotogrammi di Casablanca in cartolina che le ho spedito 
        dall’America tanti anni fa. Io ho un manifesto di un film di Wim Wenders 
        che mi segue in tutte le stanze che ho avuto in università. Nell’ufficio 
        a Napoli ho Troisi con la bicicletta in Il postino di Neruda (veramente 
        l’ha messo un mio collega, ma l’ho fatto mio). Si affianca a riproduzioni 
        di Klee, a mappe geografiche, a manifesti di convegni. A casa, ancora 
        Klee, una foto di Milano sotto la neve che ha scattato un’amica, il manifesto 
        di una mostra di cui ricordo con chi l’ho visitata. Sono altri elementi 
        delle mediateche domestiche. Dicono qualcosa all’ospite a proposito di 
        me, dei miei gusti o delle mie appartenenze. Se ho scelto quei manifesti 
        e non altri, è perché hanno un significato. Che ovviamente può cambiare 
        nel corso del tempo: a volte, l’unico significato che resta è quello di 
        alludere ad un tempo passato, a qualcosa che hai amato una volta, una 
        sorta di frammento di autobiografia appeso al muro.
        
        Ma non c’è dubbio: per me la mediateca fondamentale resta la biblioteca. 
        E’ l’esempio o propriamente il paradigma per ogni altra forma di conservazione. 
        E’ la mia storia. Sono momenti felici, di rilassamento e di raccoglimento 
        interiore, quelli in cui ci entro dentro, sposto libri, li sfoglio, li 
        riscopro, cambio un affiancamento (è importante accanto a quali libri 
        sta ciascuno!). E’ sporca, strabordante. A qualche scaffale è difficile 
        accedere a causa dei mobili (e i libri nella fila di dietro!). Mi piacerebbe 
        avere una casa più grande solo per poter avere una libreria più bella. 
        Home is where the heart is: così si dice. Home è per me sicuramente il 
        posto dove sta mia moglie. Dove i miei figli ritornano. Dove gli oggetti 
        hanno i posti che sai e le cose sono familiari, dove c’è tutto quello 
        di cui altrove, scoprendone la mancanza, dici “accidenti, l’ho lasciato 
        a casa!”. Ma per me è anche dove stanno i miei libri.
        
        Esco dalla stanza in cui mi trovo ora, nella casa di mia madre a Milano. 
        Aggirandomi per le altre stanze vedo libri, quadri, foto, calendari. Tutto 
        amalgamato assieme ai mobili, alle pareti, agli oggetti che usiamo. Un 
        insieme solidale. In un certo senso, tutto qui è memoria. Rimanda al passato 
        e lo prosegue nel presente, prefigurando gesti, movimenti nello spazio, 
        discorsi che riprendono nei luoghi a loro deputati.
        
        Se pensi alle case senza le persone - ma case abitate, intendo - sembra 
        che conservino un’anima, o più d’una. L’abitudine lega la percezione di 
        oggetti a figure che vi si muovono in mezzo. Usare le cose le dota di 
        un’aura.
        
        Le “mediateche” - libri, video e quant’altro che portiamo all’interno 
        delle nostre case - corrispondono a un arredamento della quotidianità 
        e insieme ad un addomesticamento di ciò che le è estraneo [5]. 
        La voce di Hemingway è ripiegata nelle pagine di Il vecchio e il mare 
        ed è pronta ad uscirne facendo risuonare l’acqua lungo lo scafo a contatto 
        con il mio tappeto. Le scale di Bach aspettano dentro al loro CD il momento 
        in cui si confonderanno con il rumore delle pagine del giornale sfogliato 
        in poltrona. L’estraneo si fa domestico. Il perturbante non turba. Collezionato, 
        ordinato o affastellato che sia. Addomesticato.
        
        Ma, per finire questa “auto-intervista”, devo nominare la memoria del 
        pendolare. Devo parlarne soprattutto perchè, quanto a me, sono un pendolare 
        congenito. Il pendolare è uno che ha più posti dove abitare. In genere, 
        hanno funzioni diverse. Ma dove stai metti comunque qualcosa di te.
        
        Nel mio caso, nelle stanze in università ho succursali delle mie mediateche: 
        libri (quelli più legati al lavoro ordinario), riviste (idem); file che 
        ho solo su quel computer; manifesti. Qui a Milano qualche cosa ho messo 
        (e del resto tutto quello c’è mi ricorda qualche cosa). Anche a Napoli 
        ho messo su una piccola casa: di nuovo oggetti eccetera. L’ho già detto: 
        per me il primo gesto di addomesticamento di uno spazio è appendere un 
        quadro o un manifesto. (E mettere un cavatappi nel cassetto in cucina).
        
        Ma spostarmi settimanalmente fra Cosenza e Napoli (e aggiungi i viaggi 
        a Milano come questo, per non dire di convegni, riunioni e simili) mi 
        crea qualche problema. Quando rientro a Cosenza, ogni volta, dormo molto. 
        E’ che pendolare stanca. In senso psicologico più ancora che fisico. Perchè 
        l’orientamento nelle azioni - mi pare - ha bisogno di una riconoscibilità 
        degli ambienti, di “segnaposti”. E faccio fatica a tenere assieme ambienti 
        diversi. Come se - nonostante il piacere che mi procura spostarmi - avessi 
        bisogno di una certa continuità, di vedere attorno a me cose che si ripetono, 
        che stanno, e non cambiano. Cambiare ambiente mi disorienta, letteralmente.
        
        Quanto al tempo del tragitto in treno fra le due città, difficilmente 
        mi guardo attorno. Porto con me un libro, un fumetto (a volte il lavoro: 
        una tesi da leggere, ad esempio). Il treno in effetti, se ci badi, è il 
        luogo in cui è massima la concentrazione di lettori (come in metropolitana). 
        Ora molti hanno il computer portatile, qualcuno ha l’I-Pod (come prima 
        il walkman), ma la logica è la stessa: porti con te una bolla, non prendi 
        atto che sei in un altrove. E’ già abbastanza che hai lasciato un posto 
        e vai in un altro: è una difesa.
        
        Quanto ai luoghi concreti fra cui si pendola, mi chiedo se anche gli altri 
        fanno quello che faccio io: sostanzialmente, cercare di renderli simili, 
        per quanto è possibile. In ogni caso, il pendolare porta con sè il suo 
        kit. Il portafoglio con i documenti; l’agenda; il telefonino; se il viaggio 
        è più lungo lo spazzolino da denti, le pantofole, la sveglietta per il 
        comodino... Vi è un certo piacere. A volte, in questi anni, ho sentito 
        che il posto in cui stavo meglio era il treno: uno spazio interstiziale, 
        addomesticato solo quel tanto che basta.
        
        Libro, occhiali, penna e un quadernino; il nécéssaire a portata di mano: 
        quotidianità portatile, tascabile. Ma anche appiglio di memoria a cui 
        agganciare la mia identità, i legami, le abitudini. Quanto alle mediateche, 
        qui sono soprattutto il telefonino e il computer portatile a contare: 
        porti con te rubriche e contatti, file, dati, foto. Il “pennino” del mio 
        computer, nel mio caso, è letteralmente una mnemoteca portatile, porto 
        con me ciò che mi potrebbe servire, dovunque accedo ai miei depositi mnestici 
        esteriorizzati.
        
        E’ evidente qui ciò che, probabilmente, sarebbe più palese se intervistassi 
        dei giovani: elettronica e telematica hanno trasformato o stanno trasformando 
        ampia parte delle mediateche e più in generale delle mnemoteche: diventano 
        qualcosa a cui si accede in modo diverso che attraverso il teatro della 
        memoria costituito dai tuoi scaffali domestici.
        
        Tuttavia, qualche ordine personale anche questi accessi lo dovranno avere. 
        O almeno credo. L’idea che la memoria abbia qualcosa a che fare con un 
        ordine è forte e ha molto di plausibile. Anche se è vero che ogni memoria 
        ha sempre anche qualcosa di anarchico, di renitente a ogni ordine.
        
        C’è una dialettica fra ordine e disordine che forse è consustanziale a 
        ogni memoria. E forse una ricerca sulle mnemoteche domestiche - e anche 
        sulla loro sezione, le mediateche, peraltro così difficile da delimitare 
        - dovrà usare questa idea come filo rosso. Che è in fondo il filo rosso 
        della quotidianità: addomesticamento del mondo e costante tendenza del 
        mondo ad essere selvatico.
        
        Note
        
        1] La ricerca, svolta grazie a 
        un finanziamento MIUR (PRIN 2006), è riportata per esteso nei capitoli 
        3, 4 e 5 del volume collettivo curato da Giuliana Mandich: Mandich 2010. 
        Alla ricerca, coordinata dal sottoscritto, hanno partecipato Olimpia Affuso, 
        Annalisa Buffardi, Marina Brancato, Gianpaolo Iannicelli, Simona Isabella, 
        Lia Luchetti, Fedele Paolo e Lello Savonardo.
        2] Di consumi mediali, fruizione 
        e pratiche d’acquisto parla la sociologia dei consumi culturali: per una 
        rapida introduzione rimando a Jedlowski 2003, che su questo punto faceva 
        da base alla ricerca.
        3] Il concetto di memorie comuni 
        proviene da Perec 1978; per il suo uso sociologico: Jedlowski 2002.
        4] Il riferimento è a Yates 1966.
        5] Il concetto di “addomesticamento” 
        proviene dalla fenomenologia. Come scrive Mandich: “addomesticare significa 
        assorbire nell’esperienza quotidiana, fare propria, una parte della realtà 
        (che si presenta dapprima come nuova, straniera o selvaggia), rendendola 
        familiare” (Mandich 2010, p. 9). Vedi anche Jedlowski 2005.
        
        Bibliografia
        
        Jedlowski, P. (2002): Memoria, esperienza e modernità, Milano, Angeli.
        Jedlowski, P. (2003): Che cosa sono i consumi culturali, in Fogli nella 
        valigia, Bologna, Il Mulino.
        Jedlowski, P. (2005): Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza 
        e routine, Bologna, Il Mulino.
        Mandich, G. (a cura) (2010): Culture quotidiane. Addomesticare lo spazio 
        ed il tempo, Roma, Carocci.
        Perec, G. (1978): Mi ricordo, tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
        Yates, F. (1966): L’arte della memoria, tr. it. Torino, Einaudi, 1972.
 
 
      
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