• Home
  • Revue M@gm@
  • Cahiers M@gm@
  • Portail Analyse Qualitative
  • Forum Analyse Qualitative
  • Advertising
  • Accès Réservé


  • Les lemmes de la maladie
    Pietro Barbetta (sous la direction de)
    M@gm@ vol.6 n.1 Janvier-Avril 2008

    ETEROTOPIE: IL CORPO FUORI DAL DISCORSO MEDICO



    Pietro Barbetta

    barbetta@mediacom.it
    Direttore della Scuola di Counselling del Centro Isadora Duncan (www.viamuratori.it); Professore di Psicologia Dinamica presso l’Università di Bergamo; Didatta di Psicoterapia presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Centro Siciliano di Terapia della Famiglia, European Institute of Systemic Therapies (Milano), Curso Intensivo de Terapia Familiar (Santiago di Compostella); Svolge attività di formazione, consulenza e supervisione clinica in Italia e all’estero (Argentina, Brasile, USA, Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera); È autore di numerosi saggi apparsi in lingua italiana, inglese, spagnola e portoghese.

    Agnese Bocchi

    Counsellor educativo, attrice, co-fondatrice del Laboratorio Multietnico di Dalmine, didatta della scuola di counselling del Centro Isadora Duncan, conduce gruppi di formazione in ambito sociale ed interventi di arte partecipativa.

    "Capita che vuoi parlare di qualcosa e che arrivi molto vicino a quello che vuoi dire, ma capisci anche che è così importante che ti sembra persino stupido mostrarlo.
    Allora è come se lo vestissi di qualcos’altro, perché scoprirlo ti sembra delicato, hai paura.
    E’ qualcosa di troppo grande.
    Non vorrei essere fraintesa o sembrare arrogante, ma credo che sia così.
    C’è qualcosa di molto più serio di quanto il pubblico in generale, può vedere.
    C’è, è lì, ma non è esibito, perché io ho voluto coprirlo.
    Ogni volta è come se ci fosse un grande conflitto tra quello che vuoi rendere chiaro e quello dietro che vuoi nascondere."

    (Pina Bausch)

    Il corpo non medico è, in primo luogo, un corpo sessuato. Come racconta Georges Bataille in Histoire de l’œil, la sapienza sessuale non si apprende per educazione. Non sui banchi di scuola, semmai sotto. Il discorso medico - razionale, asettico, asessuato - non è mai solo un discorso clinico (teorico-pratico), ma sempre anche un discorso morale. Riduce il corpo in organi che, come in una società socialista, svolgono funzioni specifiche. La bocca serve per ingerire, il naso per respirare, l’orecchio è dotato di particolari recettori che permettono di udire, l’occhio di discriminare la luce. Sette buchi nella testa sono meglio di un topo nella minestra.

    D’altro canto ci sono anche buchi e interstizi nascosti, segretamente dislocati, perlopiù coperti dalla biancheria, con funzione evacuativa, oppure sessuale. Sono quelli che si vengono a conoscere sotto i banchi di scuola, mentre l’insegnante spiega e descrive la funzione dei primi. Le parti del corpo coinvolte in questo processo conoscitivo sono, a tratti, le medesime che l’insegnante sta descrivendo. Così, attraverso l’olfatto, si apprende a conoscere la flatulenza, a distinguere la propria, non del tutto sgradevole, sebbene imbarazzante, dall’altrui, del tutto sgradevole. La socializzazione passa in gran parte attraverso queste esperienze, lo sanno bene i bambini encopretici, del tutto isolati. Attraverso l’udito si ascoltano i rumori dell’aria che viene espulsa, il suono convulso e fuori controllo di un qualcuno che sotto il banco compie strani movimenti, la vista ci permette di guardare, osservare cosa sta succedendo con quei movimenti. A scuola, sotto i banchi di scuola, accade tutto ciò.

    Col tempo si cresce e la scuola aumenta di ordine e grado. Con la crescita quanto avviene sotto il banco viene progressivamente portato sopra, minuziosamente analizzato, descritto, spiegato. Si comincia con l’educazione sessuale e, per chi fa medicina, si conclude con le lezioni di gastroenterologia, urologia, anatomia e ginecologia. Ciò che importa è che il corpo descritto, analizzato, spiegato perda progressivamente la sua carica erotica, diventi Körper, corpo morto.

    Il Leib, il corpo vivente, lungi dal venire reso silente dal discorso medico, continua a paralare. Spesso usa, in modo ironico, la terminologia scientifica. Solo la torce e la disloca al di fuori del discorso medico, la fa deragliare. Così l’uso della terminologia antica o che richiama la cultura classica - fellatio, cunnilingus, mentula, onanismo, sodomia, manustuprazione - la definizione delle disposizioni e delle posizioni - ferina, del missionario - la descrizione delle perversioni o, come si usa dire oggi scientificamente, parafilie - feticismi, frotteurismo, zoofilia - l’uso di tecnologie meccaniche - il vibratore, i feticci in puro lattice, le tecniche di chirurgia plastica - o chimiche - viagra, cialis - sono esempi di commistione e di sovrapposizione ironica che rendono ancor più critica ed eccitante la condizione sessuale del Leib.

    Vi è tuttavia un altro modo di descrivere il corpo, il corpo è un tema ricorrente e centrale nelle arti. L’architettura studia lo spazio per il corpo, la danza i suoi movimenti, il teatro, la scena della sua presenza, la musica le vibrazioni prodotte dal suono.

    Nel brano in esergo emerge uno dei tanti esempi possibili di intreccio tra figure femminili, corpo, arte, teatro. Prendiamo come esempio la figura di Eleonora Duse, e il suo divenire del teatro. La Duse, come le attrici del tempo, costruiva il personaggio lavorando sul testo e fuori dal testo, alla ricerca continua di dettagli capaci di definire psicologicamente la sua interpretazione. Allo stesso tempo la Duse faceva un lavoro su di sé: “le battute hanno una fodera”, diceva. Un sostegno interno invisibile al pubblico ma utile a farle cadere bene; l’attrice dava al personaggio qualcosa di suo, qualcosa che è al di là della parte che deve recitare. Il corpo prendeva vita in scena in un rapporto di tensioni col pavimento in continuo disequilibrio muovendosi in modo dissonante e a sorpresa costruendo così personaggi capaci di trasformarsi. Il corpo lavorava per movimenti minimi, microscopici creando intere scene a partire dal rapporto con un oggetto. Un corpo che sapeva utilizzare i silenzi sino a trasformare le pause in parti espressive. Costruiva un suo spettacolo parallelo a quello del testo, un sottotesto, una vera e propria drammaturgia di attrice che si potrebbe definire come “anticonvenzionalità nell’uso del corpo in teatro”; investendo come avviene per ogni avanguardia il livello del linguaggio modificandolo in modo significativo.

    Le innovazioni aperte in teatro dalla Duse e nella danza da Isadora Duncan hanno dato vita, soprattutto in Europa, a un nuovo tipo di scena. Un teatro ipotestuale, costruito in gran parte sul silenzio, sul movimento e sulla voce. Così la tradizione di Artaud, Kantor, Grotowski, Barba, del Living Theatre e di Bene, che si dispone a decostruire il testo e la configurazione dell’intrigo a vantaggio del gesto, del frammento gestuale o fonico; questa tradizione differente e spesso antagonista alla tradizione dell’impostazione del personaggio e dello studio della parte è una tradizione delirante. Permette all’attore di essere in-between, la stessa condizione del migrante così come lo descrive Homi Bhabha (Bhabba, 2003).

    Si tratta di una condizione che ha così fortemente influenzato il teatro da indurre persino la creazione testuale ad un cambiamento radicale, o forse è stato l’elemento testuale a imporre un cambiamento radicale d’impostazione alla scena, se pensiamo a Beckett, per esempio. La scenografia rifiuta sia la tela dipinta che la ricostruzione realistica dell’ambiente, diviene palcoscenico nudo o posizione del corpo, dell’attore-attrice.

    Quale dunque la differenza? La tradizione, prevalentemente americana, dell’Actor Studio è parte di un mondo professionale puritano in cui il lavoro intellettuale inteso come Beruf - termine che potremmo tradurre, non senza qualche forzatura, con professione - impone l’apprendimento di un insieme di tecniche posturali, d’impostazione vocale, di introspezione e di empatia con il personaggio da impersonare. Si parte da un testo, dalla configurazione del racconto e dalla funzione del personaggio. Maggiore la componente narrativa, maggiore la coerenza interna del personaggio. Ad accorgersene furono, in maniera differente, Dostoevskij e Pirandello. Il primo attraverso l’invenzione di figure polifoniche e pluridiscorsive, il secondo, in Sei personaggi in cerca d’autore, introducendo la massima tensione tra persona e personaggio. Entrambi, Dostoevskij e Pirandello, rendono le figure del racconto disfunzionali. L’effetto Dostoevskij è quello di renderci delle figure letterarie ambigue e ambivalenti. Di trasformare l’eroe in un soggetto fessurato, abitato dall’inquietudine, a tratti malvagio. I Sei personaggi sono invece un capolavoro di contrasto tra un capocomico che dà istruzioni ai suoi attori e le persone che gli attori devono impersonare che contraddicono le indicazioni del capocomico e protestano per essere ridotti al letto di Procuste del personaggio.

    Altri autori che trasformano la letteratura introducendo una forte tensione tra configurazione del racconto e ruolo del personaggio sono Joyce e Musil. Nell’insieme potremmo dire che il corpo della narrazione, quel corpo che ha nei differenti personaggi interni alla configurazione i suoi organi costitutivi, quel corpo viene degenerato. Diventa corpo isterico. Ecco allora la grande differenza. Con l’Actor Studio si imparano buone tecniche per l’attore professionista, l’attore è un corpo separato dagli altri corpi, elevato nel palcoscenico, chi impara queste tecniche al di fuori della scena può utilizzarle per vendere meglio un prodotto, conquistare un mercato, convincere un giudice durante un processo, plagiare una folla o anche, con i suoi occhi magnetici, ipnotizzare una paziente, come avveniva con Charcot al Teatro della Salpêtrière.

    Al contrario la decostruzione introdotta in letteratura e nel teatro europeo del Novecento parte da un corpo senza organi e da un insieme di frammenti che si connettono in maniera degenerata. L’organo frammentato non ha una funzione indefinita, svolge funzioni differenti in situazioni differenti, la relazione tra struttura e funzione permette ad una struttura di svolgere più funzioni e a una funzione di essere svolta da più strutture, come ci ha insegnato il metodo della condensazione dell’interpretazione dei sogni freudiana. Come in un bricolage, una vite può sempre venir buona e non è programmata necessariamente per una struttura determinata, così ognuno degli orifizi del nostro corpo, nel gioco degenerato della decostruzione, possono rappresentare l’Altro.

    Il teatro della frammentazione è ibrido e transprofessionale, non serve ad ipnotizzare, né a vendere spazzole. Esercita invece la medesima funzione che Francis Bacon aveva attribuito alle distorsioni presenti nella sua opera. Senza una trama narrativa, né una struttura concettuale, mostra nel dettaglio la distorsione che premette alla verità di emergere. In un’accozzaglia di rumori: la musica di una banda di ottoni e di tanto in tanto certi strilli acutissimi e irosi che hanno la stessa anatomia di un corpo umano dove unità e molteplicità convivono dove il tempo stringe e allarga lo sguardo con una lente d’ingrandimento, dove la mostruosità non è una mancanza, un deficit ma un eccesso di presenza scenica.

    In teatro a volte capita che il maschile e il femminile si confondano per incontrarsi al margine, come se le tele e le fotografie di Hussar iniziassero a camminare, i dipinti di Dalì a respirare e i salti in banco di Picasso facessero piroette. In tre ore di training in sala prove il corpo si muove nello spazio e fende l’ aria, le dita dei piedi si sfregano fra loro, il corpo oscilla cade giù e danza senza una parola; il volto non si rilassa ma, avvolto da rughe, scompiglia i capelli e il corpo danza. I gomiti chiacchierano fra loro, oscillano, le braccia cadono improvvisamente come pezzi di legno di un manichino. Il corpo si piega con le braccia sulle ginocchia, il fiato corto, il viso paonazzo. Si riprende contatto con i piedi scalzi sul pavimento, come se si controllasse il respiro, si appoggiasse la testa sulla spalla. Il corpo si muove, si modella, riprende forma, le gambe si tendono, il busto ciondolante ricomincia a muoversi in modo deciso nello spazio. Niente sonoro. Come se il gioco si allargasse in un cerchio magico di corpi grassi e grossi in un esplosione di parole mancate di chi non possiede lingua. Il corpo si allunga come uno stoccafisso partendo dalla punta dei piedi sino ai polpacci alle gambe al bacino al busto e su sino alle estremità delle mani e di nuovo il ritmo nel cammino. Le ossa scricchiolano e le vertebre si srotolano una ad una come perle di una collana, il colon brontola sussurrando vendetta, la milza singhiozza, in bocca non c’è più saliva i rigoli di sudore cadono sopra una maglia di marmo o sulle note di un violoncello.

    L’illuminotecnica superando il tradizionale ruolo di illuminare l’ambiente diventa linguaggio espressivo. Il testo si evolve in una drammaturgia sempre più aperta all’intervento attoriale o costruibile a priori come montaggio di testi diversi. Oppure, come nel teatro di Kantor, il regista calca la scena come un burattinaio che muove i suoi attori o un direttore d’orchestra che scandisce il tempo dell’azione, un’azione ripetuta infinite volte, come in una melodia musicale. L’attore-attrice sono l’elemento centrale in ogni ricerca teatrale, attenti indagatori delle emozioni per nutrire il personaggio e capaci di estraniarsi dallo stesso, per indicarlo allo spettatore, come in Brecht, oppure si tratta dell’attore-attrice ricomposto nella sua unità corpo-spirito, capace di usare anche un corpo divenuto strumento espressivo.

    Come conseguenza anche la regia lascia spazio a nuove ricerche e potrà essere così disegnata dalla presenza, spesso attiva, del pubblico, come nel Living Theatre. Il teatro ha imparato ad esistere anche senza spettacolo, si trasforma in modo da non poter essere definito teatro, ma da quello trae modalità, pratiche, sfumature e si trasforma in altro in una forma che permette di dar voce all’espressione completa del corpo che danza, alla ricerca di atti poetici all’arte del corpo nelle sue variegate sfumature e nei suoi continui avvicinamenti ed allontanamenti dalla scena definendosi nell’istante che si compie in un sottile filo di sentimenti, tecniche, ribaltamenti. In questa direzione vanno le esperienze di Jacob Levy Moreno, di Bob Wilson, o di Oiseaux Mouche. A tutto ciò ci siamo ispirati quando abbiamo pensato, insieme agli altri componenti del Centro Isadora Duncan, ai Gruppi Isadora Duncan, ove la drammaturgia è scritta a più mani o meglio viene narrata a più voci mentre il corpo dell’attrice si dispone al gesto significante.

    Si tratta di un lavoro intorno alla parola vuota, all’immaginario. Per questo ha destato particolare interesse in un gruppo di giovani che hanno vissuto una condizione di ritiro autistico, schizoide o depressivo. Che, per ragioni di neurodiversità, oppure per condizioni esistenziali avverse, sono state vittima di relazioni moleste, come il bullismo, o si sono ritirate dalla realtà, rifugiandosi in un piccolo angolo della cornice che inquadra la vita quotidiana. Alcuni di loro sono riusciti a trasportare questo piccolo angolo fuori dallo spazio domestico della loro casa, fino al Centro Isadora Duncan, dove l’angolo si è animato, è stato reso collettivo e si è trasformato in uno spazio di produzione teatrale. Un teatro senza testo, un teatro spontaneo, come nell’esperienza argentina di Maria Elena Garavelli, un teatro della cura. Rizomatico, che produce azione per produrre, non per il prodotto, che si muove in maniera da costruire linee di derivazione creativa che non intende altro che se stessa. Una linea di fuga, come scrive Dante Augusto Palma (Palma, 2006), che aspetta i fuggitivi, che tuttavia sono coloro che la costruiscono. L’identità che si costituisce costituendosi.

    Né possiamo omettere la storia dell’insorgenza di questa esperienza che, per una di noi, viene da una lunga collaborazione con Silvia Briozzo - che pure pratica l’attività dei Gruppi Isadora Duncan - in ambito teatrale e nell’intervento di arte partecipativa, attraverso la costituzione del teatro multietnico di Dalmine e un’esperienza di lavoro in Kosovo con persone che avevano subito il trauma postbellico e per l’altro dall’incontro con la psicoterapeuta brasiliana Maria Lúcia Coelho, che gli ha insegnato una serie di tecniche di psicodramma, con la regista argentina Maria Elena Garavelli, con la quale ha condiviso alcune esperienze di teatro spontaneo, con il lavoro di arte partecipativa che già conducevano insieme Silvia Briozzo e Agnese Bocchi, e con Michel Jeannes, che attraverso un lavoro artistico con i bottoni a Lione, ha costruito il concetto di zona d’intenzione poetica.

    I Gruppi Isadora Duncan si differenziano dallo psicodramma di Moreno perché non prevedono il coinvolgimento diretto della persona nell’azione teatrale. La persona ha il compito di raccontare una storia, con l’aiuto del consulente - che a seconda delle circostanze può essere uno psicoterapeuta o un counsellor - la storia assume i dettagli necessari per la messa in scena. Il consulente ha in mente, in primo luogo, lo spazio scenico e le possibilità espressive dell’attrice. Sa che deve aiutare la voce narrante a fornire i dettagli necessari affinché l’attrice si possa esprimere, il suo compito è aumentare il numero di possibili scelte espressive da parte dell’attrice, seguendo l’imperativo etico proposto da Heinz von Foerster: “aumenta il numero delle scelte possibili” (Barbetta, Tofanetti, 2006). L’attrice, o le attrici, incominciano a muoversi quando ritengono di avere sufficienti materiali espressivi, dapprima con gesti quasi impercettibili, difficilmente differenziabili dagli usuali movimenti del corpo, in maniera minimalista. Piano piano i gesti e i movimenti attoriali si mostrano, differenziandosi dal setting. A questo punto la conversazione tra il consulente e il narratore si va spegnendo per lasciare spazio alla scena teatrale, che prende il sopravvento, come in un’eccedenza che ammutolisce.

    Da qui in poi emerge la scena teatrale vera e propria, che può durare soltanto alcuni minuti. Il gruppo dei narratori, che si succederanno nel raccontare le loro storie, diventa il pubblico che osserva. Come nella definizione aristotelica si assiste alla catarsi delle passioni. Il narrante si trasforma in un osservatore di quel frammento della propria vita messo in scena, assume da esso una distanza ironica e immaginativa. Al termine della messa in scena il narrante, con gli altri componenti del gruppo, potrà commentare la scena, descriverne gli effetti, le affezioni avute e i sentimenti suscitati da quelle affezioni. Poi si ricomincia. Come si può osservare gli incontri non hanno obiettivi al di fuori degli incontri stessi, un rizoma (Deleuze, Guattari, 2003) curativo.


    BIBLIOGRAFIA

    Pietro Barbetta, Dario Toffanetti (a cura) Divenire umano. Von Foerster e l’analisi del discorso clinico, Roma, Meltemi, 2006.
    Homi Bhabha The Location of Culture, London, Routledge, 1994, tr. it. Roma, Meltemi, 2003.
    Gilles Deleuze, Felix Guattari Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Minuit, 1980, tr.it. Roma, Cooper-Castelvecchi, 2003.
    Dante Augusto Palma “Política e identidad de las minorías”, in Tomás Abraham y El Seminario de los Jueves (a cura) La MáquinDeleuze, Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 2006.


    Collection Cahiers M@GM@


    Volumes publiés

    www.quaderni.analisiqualitativa.com

    DOAJ Content


    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

    Directory of Open Access Journals »



    newsletter subscription

    www.analisiqualitativa.com