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    M@gm@ vol.3 n.4 Octobre-Décembre 2005

    LA VOCE DEI SILENZI, LE PAROLE DEL DISAGIO, LA DIVERSITÀ DELLE DONNE: UNA RIFLESSIONE SU DONNE E CITTADINANZA MULTICULTURALE


    Monica D'Argenzio

    senegal@inwind.it
    Antropologa culturale, etnologa; laureata in Sociologia con indirizzo etno-antropologico; Mediatrice culturale presso Ass. Senegalese di Napoli.

    “Siamo indù che hanno attraversato le acque nere; siamo musulmani che mangiano la carne di maiale. E di conseguenza […] apparteniamo almeno parzialmente all’Occidente. Abbiamo un’identità allo stesso tempo plurale e parziale. A volte ci sembra di cavalcare due culture; altre volte ci pare di cadere fra due sedie”
    (S. Rushdie, Patrie immaginarie, 1990; pag. 20)

    Accompagnavo spesso Kuna, donna senegalese di 30 anni e madre di 5 figli, al consultorio dalla pediatra per i controlli periodici dell’ultimo nato [1]. La mia presenza serviva da interprete e per badare alle restanti “pesti”, in modo che lei potesse dedicarsi completamente alla visita. Mi colpiva il comportamento della mia amica che, alla presenza della dottoressa, lasciava il piccolo sul lettino e mettendosi da parte aspettava immobile “senza muovere un dito”. Il mio stupore nasceva dal fatto che, anche io madre, al suo posto non avrei mai permesso ad una estranea di spogliare e vestire mio figlio con quei modi che, agli occhi apprensivi e possessivi di una madre, appaiono sempre troppo rozzi. Mi sarei limitata a fare in modo che quelle mani avessero svolto il necessario compito medico, lasciando a me l’onere di gestire testine e braccia così delicate. Kuna, al contrario, appariva tranquilla, non faceva domande, non chiedeva peso ed altezza del figlio né se la crescita stesse procedendo nella norma.

    Le prime volte sono restata in silenzio pensando che non fosse mio compito parlare se non quando mi veniva chiesto di tradurre. Del resto mi turbava anche l’atteggiamento della pediatra che non dava nessuna spiegazione né informazioni sul bambino, si limitava a riportare i dati sulla scheda del piccolo paziente. In occasione di una delle tante visite, ho deciso di rompere quel silenzio e stranamente ho sentito un senso di forte disagio nel prendere la parola. Con grande sorpresa mi sono resa conto che se il mio imbarazzo era legato al fatto di fare domande al posto di altri, la dottoressa viveva la condizione opposta quella, cioè, di non aspettare altro per poter parlare. Era, insomma, imbarazzata di fronte ad una madre “altra” e non sapeva come gestire il suo ruolo nei suoi confronti. Non che abbia esplicitato apertamente questi suoi dubbi, ma dalle tante cose che disse nel corso della visita, mi resi conto di ciò. Sul momento considerai quella donna dal camice bianco un groviglio di “ignoranza e falsità”, oggi riflettendo a distanza di tempo capisco che si trattava di una “mala cultura”, di cattiva informazione e soprattutto di un forte senso di disagio.

    Sulla strada del ritorno chiesi spiegazioni a Kuna sul perché di determinati suoi comportamenti. Confesso che non ero molto contenta nel farlo perché credo che ogni donna debba vivere il suo essere madre secondo il proprio percorso esistenziale e anche attraverso dei codici culturali che inevitabilmente le appartengono. Ma volevo capire il significato dei suoi silenzi e della sua apparente passività, specie se la rapportavo al modo di essere in casa come donna energica e molto attenta ai suoi piccoli. Poche parole sono bastate per rappresentarmi il suo mondo, un universo femminile fatto di tradizione, insegnamenti materni, esperienza diretta, e convinzioni su “noi-altri”. “Ho deciso di raggiungere mio marito, qui in Italia, solo per i nostri figli, per farli crescere diversamente. Qui è tutto buono, scuole buone, ospedali buoni e dottori bravi. Ho visto morire molti miei fratelli piccoli; le mie sorelle più grandi non riescono a fare bambini e mia madre diceva sempre che non siamo fortunati. Quando dottoressa vede mio bambino io che posso dire? Niente! È lei il dottore io sono solo sua madre”. Mi sono sentita spiazzata…

    Dal ricordo di questo breve episodio ho maturato una serie di riflessioni su me stessa, sulla mia amica e su quella dottoressa che, in quel momento, volente o nolente rappresentava agli occhi di entrambe un’istituzione , vissuta, però, in maniera diversa. Mi sono sentita una madre coinvolta, secondo la quale esiste un unico modo per gestire i figli. Madre apprensiva e partecipativa, che avrebbe fatto domande, avrebbe dialogato e che di fronte ad un’estranea avrebbe mostrato la sua presenza, pronta a delimitare il proprio “territorio” di appartenenza: il figlio. Kuna, al contrario, mostrava quella stessa condizione di madre col silenzio, l’apparente inattività di chi, rispettosa del ruolo altrui (donna, bianca e medico), lascia nelle mani degli altri la cosa più preziosa che ha, consapevole e convinta della fiducia riposta nella figura della dottoressa. Ma sicuramente la persona che maggiormente ha suscitato la mia attenzione e anche il mio ritegno è stata la pediatra. Svolgeva il suo compito in modo meccanico, quasi infastidita e la prova di ciò l’ho avuta quando le è stata data la possibilità di parlare. E’ venuta fuori una teoria sulle madri immigrate assolutamente “illuminante” che qui risparmio. Le aveva categorizzate tutte, per nazionalità o per colore e su ognuna aveva ormai “imbastito” una spiegazione ai loro comportamenti. Ma di fondo c’era un atteggiamento che le accomunava: secondo lei facevano troppi figli!

    Un aspetto che viene riconosciuto come proprio dell’indole femminile, l’essere madre, non è poi questione così spicciola; non si fonda su una presunta naturalità e quindi non ha caratteristiche universali. Che fare? Per dirla con Martha Nussbaum ci sarebbe bisogno di “coltivare l’umanità” (Nussbaum, 1999).

    Col termine multiculturalismo ci si riferisce allo stato delle attuali società occidentali dato dalla presenza simultanea di una pluralità di gruppi differenti che fungono da base per l’identificazione, il riconoscimento e l’orientamento dell’azione dei loro membri. Così definito, multiculturalismo tende ad evidenziare gli effetti dei processi di globalizzazione e della centralità assunta dall’informazione che comportano una più frequente esperienza della differenza e tendono ad indebolire lo stato-nazione tradizionalmente, nel mondo occidentale moderno, fonte di identificazione, riconoscimento e solidarietà tra i cittadini (Colombo, 2002).

    Così scrive Gualtiero Harrison: “Multiculturalismo sta a designare una nozione di coesistenza per entità distinte e separate, ma che vengono ideologicamente connotate da uno statuto di riconoscimento: la fantomatica identità etnica e culturale. E’ proprio il pluralismo di realtà diverse, che repentinamente sono venute a convivere, ad attribuire alle differenze un nuovo statuto per cui vengono assunte contemporaneamente come “uguali” - nei termini del diritto alla buona accoglienza e ad un trattamento equo e non discriminatorio - ma per cui vengono anche assunte come “distinte” - per ciò che attiene alla loro vita familiare, ai loro valori religiosi, ai loro modelli sociali di comportamento” (Harrison, 2001, pp.61-62). Di tale presenza, per quanto vista come momento di arricchimento e di confronto fruttuoso, si sono sottolineati soprattutto gli aspetti problematici che essa ha posto, non da ultimo quella della cittadinanza. La questione cittadinanza e immigrazione sembra ricondurre ad un’altra, quella che denota la posizione di un soggetto di fronte ad un determinato Stato rispetto al quale o si è “cittadini” o si è “stranieri”.

    Uno dei grossi paradossi contemporanei è che l’esclusione di alcuni (che poi sono i “molti”) e del loro modo di vivere dal dominio del sapere e del potere appare come una cosa naturale e non costruita socialmente, mentre la richiesta di inclusione (benevolmente concessa dai “pochi”) pare essere motivata da una finalità politica. A questo problema fa in fondo riferimento il sociologo franco-algerino Sayad quando scrive che “pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione” (Sayad, 1996, pp.8-16). Aspetto, questo, che è stato posto a lungo in secondo piano a vantaggio di una immagine inclusiva ed espansiva della cittadinanza; al contrario, oggi, si assiste all’ampia diffusione della categoria di “esclusione” in riferimento sia alla posizione dei migranti nelle società occidentali che come più generale strumento interpretativo di sviluppi che sono ben lungi dall’essere limitati ai migranti.

    La grande idea da cui è nata la democrazia - vera e propria “invenzione” dell’Europa moderna – è quella dell’universalismo della cittadinanza, basato sull’uguaglianza di tutti gli individui davanti alla legge e sul riconoscimento della loro pari dignità in quanto caratterizzati dai medesimi diritti/doveri, indipendentemente dalla provenienza, dalle credenze, dal colore o dal genere. E’ nello scenario del mondo moderno che per la prima volta nella storia si riconosce all’individuo la titolarità di diritti innati e inalienabili - il primo dei quali è quello della libertà - che lo Stato non solo non può calpestare ma che, anzi, ha il dovere di proteggere. Tale diritto di libertà, nel senso forte di capacità di auto determinarsi e di porsi come fonte e fondamento delle leggi, apre un orizzonte nuovo e dà avvio al progetto di trasformazione da “suddito” a “cittadino”, che trova nella Rivoluzione francese uno dei suoi momenti più alti.

    Una delle controversie aperte dal multiculturalismo riguarda proprio la possibilità di far convivere i principi e le regole della tradizione democratica liberale, legati all’universalismo, all’uguaglianza e all’idea che solo l’individuo può essere titolare di diritti, con le richieste di riconoscimento delle specificità e dell’appartenenza legate al particolarismo. La promozione del pluralismo che caratterizza le democrazie occidentali è un buon punto di partenza per pensare una società multiculturale perché rappresenta un concreto tentativo di favorire l’espressione della differenza all’interno di uno spazio comune regolato. Si chiede Touraine, al riguardo, se si può vivere insieme, liberi e diversi, ma non disuguali (Touraine, 2002). Per l’autore questa è la sfida fondamentale a cui il mondo post-industriale è chiamato a rispondere. L’unica soluzione percorribile è l’appartenenza ad una comunità aperta agli scambi con l’altro. La democrazia si nutre di diversità, si fonda sulla capacità di creare condizioni idonee perché le differenze si incontrino e trovino stimolante confrontarsi, discutere e, anche, scontrarsi. Una società in cui è presente una molteplicità di valori e di punti di vista sulla realtà consente una maggiore libertà di scelta e ampia le possibilità e le opportunità per i singoli individui.

    Lo stesso Geertz si chiede (rispondendo affermativamente) se un certo tipo di liberalismo possa reggere questa sfida; un liberalismo che riconosca le sue origini e i suoi caratteri culturali (sostanzialmente occidentali) e che abbia fiducia nelle esperienze, ma che sappia ascoltare e comprendere anche “chi è altro da noi”. Se questo meccanismo dell’ascolto funzionerà, anche “noi” verremo ascoltati e si verrà così a creare un’influenza reciproca tra le nostre esperienze e quelle altrui, come richiederebbe un significativo confronto interculturale basato sulla logica dello scambio e non dello scontro (Geertz, 1999, pp.57-76).

    E’ possibile cercare di conciliare riconoscimento della differenza e patrimonio democratico attraverso forme di solidarietà e di fratellanza compatibili con il diritto a vedersi riconosciuta la propria ineliminabile unicità (Colombo, 2002, p.98). Ma è anche vero che per realizzare un minimo di comunicazione e di relazione sociale è necessario riconoscere l’esistenza di caratteri universali che accomunano. Senza il riconoscimento di una base comune la convivenza tra differenze si riduce a indifferenza reciproca e manca la possibilità di stabilire una relazione autentica non limitata alla semplice tolleranza. Ed è sufficiente condividere delle regole minime per mantenere le condizioni del dialogo e il riconoscimento della specificità dell’altro; ciò che deve essere riconosciuto come valore universale sono le regole non ciò che si realizza quando le si utilizza.

    Per trovare un terreno di solidarietà comune con chi è percepito come diverso è necessario sottoporre a critica la propria condizione in modo da superare una posizione etnocentrica; il primo passo per riconoscere la differenza dell’altro consiste nel riconoscere di essere a nostra volta differenti per l’altro. Del resto una società effettivamente multiculturale non può limitarsi ad una passiva accettazione delle differenze trattate come semplici equivalenti ma richiede un effettivo riconoscimento della specificità e del valore della differenza. La teoria postmoderna sottolinea come i processi sociali contemporanei, che hanno portato la differenza ad assumere un ruolo centrale nella definizione dell’identità, implichino una vera e propria svolta epistemologica cioè un nuovo modo di guardare alla realtà sociale, di comprenderla e di descriverla. La crisi della modernità ha portato a quello che Lyotard ha definito come “la fine delle grandi narrazioni” (Lyotard, 2001). Non c’è più una sola verità conoscibile attraverso un metodo razionale universale, ma una serie di verità locali, legate ai contesti in cui vengono rilevate e agli attori che le pronunciano. Emerge, così, il carattere relativo e situato di ogni conoscenza; per evitare che ciò porti ad un relativismo radicale, la teoria postmoderna sottolinea l’importanza della relazione e dei processi sociali di costruzione della realtà.

    L’attenzione ai processi e alle relazioni permette di vedere la differenza, la cultura e le identità non come essenze statiche e chiuse ma come costruzioni fluide e aperte. Il multiculturalismo non è semplice coabitazione tra comunità distinte e incapaci di comunicare ma un campo di confronto e di scambio che supera le singole culture per crearne di nuove ed ibride. Non esistono differenze, identità o culture pure ma solo processi continui di confronto, mutamento, mètissage (Amselle, 1999). L’immagine più utilizzata per riferirsi al carattere processuale e ibrido di ogni differenza è quella della diaspora. Questo termine introduce una dimensione storica e diacronica sottolineando che le culture e le identità si costruiscono nella mediazione, nello spostamento, nell’incontro con l’alterità. E’ il problema che si potrebbe definire della doubleness (Gilroy, 2003, p.870) “doppia coscienza” dei migranti, cittadini della frontiera. Originariamente coniato da W.E.B. Du Bois, questo concetto è stato ripreso da P. Gilroy in “The black Atlantic” per indicare la particolare posizione dei blacks ad un tempo interna ed esterna al grande calderone della modernità, così come scrive E. Colombo: “[…] si nutrono di passato e di futuro, di memorie e di utopie; sono il risultato di un continuo lavoro di bricolage, che tiene assieme pezzi diversi trovati in luoghi diversi; sono il risultato di un continuo sincretismo, un processo di conservazione e di mutamento che aggiunge e ingloba elementi nuovi armonizzandoli con i vecchi, senza necessariamente abbandonarli o ripudiarli” (Colombo, 2002, p.109).

    La diaspora consente, così, di cogliere gli intricati networks che si costruiscono a seguito di spostamenti pluridirezionali, i cui fili tessono una ragnatela di trasformazioni cui è soggetta sia la cultura di arrivo sia la cultura di partenza. Tale strumento analitico permette di gettare lo sguardo oltre i confini dei contesti locali e nazionali, ponendo la questione dell’identità e della cultura in una prospettiva globale. Ed è per questo che non bisogna dimenticare di includere la “cultura” nel paniere dei beni fondamentali a cui lo Stato liberale deve garantire eque possibilità di accesso a tutti i cittadini. L’accesso ad una cultura è un “bene primario”, cioè un bene di cui le persone hanno bisogno a prescindere dal modo di vivere che hanno scelto, in quanto costituisce il contesto entro il quale effettuano le loro scelte. Gli individui, quindi, “dovrebbero essere in grado di vivere e lavorare nella loro cultura” (Kymlicka, 1999, p.167). Non a caso il filosofo Kymlicka parla di cultura sociale, “una cultura che conferisce ai propri membri modi di vivere dotati di senso in un ampio spettro di attività umane, ivi compresa la vita sociale, formativa, religiosa, ricreativa ed economica, nonché la sfera pubblica come quella privata” (Kymlicka, 1999, p.134).

    Quando gli immigrati arrivano portano con sé la loro lingua e le loro narrazioni storiche, un vocabolario di tradizioni e consuetudini; spesso si tende a creare un dualismo negli ambiti di appartenenza per cui la sfera pubblica diventa il mondo del contatto con gli autoctoni, della lingua europea, del lavoro, della scuola, mentre le mura domestiche sono il luogo della “tradizione”, dei “valori di casa”, della lingua madre, del cibo etnico. Sarebbe un errore favorire una scissione così netta, si rischierebbe davvero di creare due mondi separati tra i quali muoversi con non poche difficoltà, specie se si pensa alla presenza delle seconde generazioni. Al contrario, l’impegno di tutti dovrebbe sostanziarsi non tanto nella ri-creazione di una cultura sociale distinta, quanto nel contribuire con nuove opzioni e prospettive alla più ampia cultura di accoglienza, arricchendola e rendendola variegata. Da qui il senso della libertà come possibilità di effettuare delle scelte fra più alternative e soprattutto il valore della cultura, non preziosa in quanto tale, ma perché per un individuo avere accesso ad una cultura sociale significa avere accesso ad un ventaglio di opzioni dotate di senso. Ciò che è importante - secondo Kymlicka – da un punto di vista liberale, è la possibilità per gli individui di accedere ad una cultura sociale che dia loro opzioni dotate di significato per l’intero ventaglio delle attività umane. E nella misura in cui agevolano l’accesso ad una cultura sociale, i diritti polietnici degli immigrati o i diritti di autogoverno delle minoranze nazionali possono contribuire alla libertà individuale.

    Ma non va dimenticata una questione fondamentale: non ci si troverebbe di fronte ad un’azione fondamentalmente intollerante se si costringesse una minoranza a riorganizzare la sua comunità secondo i nostri principi di libertà individuale? In fondo la tolleranza non è anch’essa un fondamentale valore liberale? (Kymlicka, 1999, p.268). Ritorna il dilemma etnocentrico. Come scrive Glissant: “[…] il termine “universale” per la cultura occidentale, molto spesso ha significato la generalizzazione dell’esperienza occidentale in esperienza universale del mondo, così ciò che è occidentale diventa universale e ciò che è Terzo Mondo diventa locale. Il locale viene misurato dalla distanza dalle metropoli del mondo occidentale” (Glissant, 1998, p.23). Il multiculturalismo non è un attacco all’Occidente quanto all’etnocentrismo che fonda la sua visione del mondo in cui quest’ultimo è visto come unica fonte di significato, di conoscenza e di valori, motore del mutamento storico e in posizione centrale nel progresso scientifico e democratico dell’umanità, mentre il resto del mondo è un luogo da colonizzare, proteggere, istruire, sviluppare.

    Comunicare con chi è diverso espone al rischio di dover mettere in discussione le proprie credenze più profonde e per fare ciò è necessario essere interessati al confronto e al dialogo. Non c’è una via obbligata che porta dalla differenza alla tolleranza e da questa alla solidarietà e al dialogo: le differenze potrebbero anche convivere ignorandosi oppure provare a distruggersi reciprocamente. Perché ciò non accada è necessario un impegno etico che faccia della discussione con la differenza un valore e un dovere. Questo significa riconoscere quale posizione si occupa nello spazio sociale e a nome di chi si parla. “Provincializing Europe” direbbe Dipesh Chakrabarty (Chakrabarty, 2000).

    E le donne? L’eternizzazione della condizione di immigrato per chi è diventato residente permanente in uno Stato nazione diverso da quello in cui è nato, ostacola il passaggio da “immigrato” a “cittadino”. Utilizzare il termine “immigrato” per chi è residente stabile di un paese comporta una sorta di eternizzazione di un evento biografico, quello della migrazione, che sul piano concreto si svolge per lo più in un arco temporale definito. Quando un individuo da “immigrato” diventa un “cittadino”? Difficile dirlo; dipende dalle variabili storiche, sociali, economiche, istituzionali in gioco nonché dalle restrizioni legislative all’ottenimento della cittadinanza che non sono omogenee all’interno dell’area europea.

    E se donna? Tutto si complica... La rappresentazione sociale della donna immigrata varia da una società all’altra; la migrazione è un momento di interazione tra popoli e, per questo, è all’origine della produzioni di rappresentazioni dell’altro. Se negli Stati Uniti la migrazione è stata una dimensione costitutiva della società, in Europa il fenomeno è stato sottovalutato se non occultato del tutto. Costretti ad accettare l’immigrazione non solo per ragioni di lavoro ma anche demografiche, si è posto l’assimilazione come punto d’approdo del percorso migratorio (il caso francese) oppure si è considerati gli immigrati come “lavoratori-ospiti”, dei birds of passage (come nel contesto tedesco) oppure ancora si è optato per una politica pluralista come nell’esempio nella Gran Bretagna. Ma se negli Stati Uniti la componente migratoria femminile è rappresentata come partecipativa alla costruzione della nuova nazione (almeno nelle prime raffigurazioni), all’esplorazione della frontiera e alla mobilità sociale; in Europa l’immagine della donna immigrata è bollata dal marchio dell’arretratezza, dell’analfabetismo e dell’isolamento [2]. Non a caso Stefano Petilli, riprendendo una riflessione di Cohen sulla povertà, si chiede: “qual è attualmente lo stereotipo del povero? - E’ una donna: una donna africana” (Petilli, 1999).

    La stereotipizzazione è conseguenza di un approccio di tipo evoluzionista, fondato sul passaggio dalla tradizione alla modernità, dove le nozioni di integrazione e acculturazione hanno largo spazio. Infatti alla tradizione e alla modernità vengono fatti corrispondere rispettivamente comportamenti di subalternità e di emancipazione. Al contrario, ci troviamo di fronte a concetti da non utilizzare in maniera dicotomica ma dialettica. Subalternità ed emancipazione non sono da attribuire ad una scelta tra società di origine e società d’accoglienza, così facendo si perpetua uno stigma che trova la sua maggiore e nefasta applicazione nell’intervento educativo e sociale che si configura spesso come paternalistico e tendente alla svalorizzazione di saperi e pratiche tradizionali. Le politiche migratorie e legislative continuano ad avallare un’immagine di passività e subordinazione, costringendo la donna in una posizione di dipendenza rispetto al marito/compagno, come accade per esempio nel caso dei ricongiungimenti familiari. E’ ancora troppo recente l’uso della variabile “genere” per analizzare il percorso migratorio e pochi la considerano un elemento cruciale nella selezione iniziale dei migranti. Basti pensare al fenomeno della scolarizzazione femminile di massa che ha interessato molte donne dei P.V.S. e che non è estraneo ai processi migratori attuali o alle nuove tipologie di donne migranti presenti, oggi, in Europa che partono da sole e non più per ricongiungimento familiare. Le donne scolarizzate sviluppano aspettative nei confronti del lavoro e più in generale della vita che non trovano realizzazione nel paese di origine. Una delle cause, infatti, dell’aumento dei flussi femminili è l’insoddisfatta richiesta di lavoro o la mancanza di opportunità lavorative se non in mestieri sotto-qualificati e sotto-pagati per meccanismi di discriminazione di genere esistenti anche nei paesi di partenza.

    Le migrazioni e l’incontro interculturale sono un’occasione per ribadire che la differenza di genere è costantemente ricostruita e contribuiscono a svelare i processi di “falsa naturalizzazione” delle differenze e delle disuguaglianze sociali che sono presenti nel pensiero occidentale. Il genere è una categoria socialmente costruita (Campani, 2000, pp.78 e segg.). La collocazione delle donne rispetto alla cittadinanza illumina alcune delle tensioni insite nello stesso concetto così come si è sviluppato in Occidente. I “bisogni” delle donne, infatti, hanno faticato ad essere riconosciuti come diritti individuali e al contrario sono stati definiti come un limite rispetto alla capacità di cittadinanza; e i “doveri” delle donne sono stati utilizzati come ragione della loro esclusione dalla cittadinanza stessa. In particolare, la loro collocazione rispetto alla cittadinanza rende visibili una serie di tensioni irrisolte nella teoria e nella pratica che potrebbero essere riassunte come tensione tra diritti individuali e diritti comunitari.

    Il vero problema è che l’universalismo classico occulta il meccanismo di esclusione su cui si fonda e si presenta “come la langue del genere (umano), mentre è la parole di un genere (maschile)” (Bonacchi e Groppi, 1993, p.25) e nascondendo la differenza di genere ha l’effetto di escludere tutto ciò che non corrisponde ai requisiti cosiddetti universali, ma in realtà maschili, dalla cittadinanza. La distinzione pubblico/privato corrisponde, in effetti, alla differenza di genere dove pubblico sta per maschile e privato per femminile così come i due generi sono stati simbolicamente elaborati nella cultura patriarcale. Inoltre tale dicotomia non impone una distinzione orizzontale ma implica un ordine verticale di importanza dove pubblico è sovra-ordinato a privato, cui è associata non solo un’immagine di protezione e rifugio ma anche di mancanza e assenza [3].

    Tanto vero se si considera l’immigrata maghrebina che ha finito per diventare nei diversi paesi europei lo stereotipo della donna passiva, custode della tradizione, dipendente dal marito e dai figli per qualsiasi contatto con la società d’accoglienza. Immagine ulteriormente rafforzata dal fatto che tale donna è di religione musulmana ed è considerata, nella rappresentazione comune, come una creatura subordinata, dominata, rinchiusa, velata. E’ indubbio che, negli anni ’60 e ’70, sono giunte in Europa per ricongiungimento familiare e che il loro statuto giuridico è dipeso, per anni, dall’essere “compagne dei migranti”; ma è anche vero che tradizione pre-islamica, processi di destrutturazione indotti dalla colonizzazione, modernizzazione e laicizzazione delle strutture pubbliche fanno si che non sia possibile considerare l’Islam come la causa determinante di tutti i fenomeni culturali. Questo vale ancor più per le donne la cui condizione, di fronte a contraddizioni, conflitti, ripensamenti, ricerca di identità e di modelli in bilico tra “il vecchio e il nuovo”, diventa uno dei nodi centrali e dei temi simbolici intorno a cui si coagulano le incertezze sul progetto di società futura.

    La maggior parte delle donne di prima generazione ha subito, piuttosto che scelto, la migrazione. Arrivate in Europa hanno mantenuto un tasso di natalità alto, non sono entrate nel mercato del lavoro e hanno sviluppato una socialità all’interno dello spazio privato, lo spazio femminile. Diversi sono i percorsi della seconda generazione. Le giovani hanno assorbito più rapidamente delle loro madri i valori culturali della società d’arrivo, in particolare per quel che riguarda i rapporti tra i sessi e i ruoli familiari; non si tratta di un percorso che avviene senza contraddizioni e sofferenze ma si è comunque di fronte ad una generazione che tra le tante difficoltà ha “preso la parola”. La frequenza dei matrimoni misti è indice della volontà di cambiamento da parte delle donne e della crisi dei meccanismi di controllo familiare e riflette il processo di autonomizzazione delle ragazze rispetto al loro gruppo d’origine. Il reale problema è non cadere nella banalizzazione dicotomica modernità/tradizione: alla prima è dato il volto della donna europea, moderna, lavoratrice, attiva, scolarizzata e alla seconda quello della donna immigrata non europea, inattiva, analfabeta, reclusa e superstiziosa. Questa opposizione ha effetti devastanti nella pratica delle assistenti sociali, degli insegnanti e degli operatori sanitari.

    Una rappresentazione così devalorizzante e miserabilista occulta l’azione sociale delle donne immigrate, impedisce di comprendere l’esistenza di contro-strategie femminili per ritagliarsi spazi di potere nelle strutture familiari patriarcali e misconosce il potere di trasmissione educativa nonché il peso e l’importanza del lavoro domestico e, soprattutto, non permette di riscoprire un Islam al femminile che può diventare centrale nella ricerca di una identità plurale. Sono le donne a preservare le pratiche ancestrali, anche come reazione o difesa di fronte ad un contesto di vita che esse non possono dominare. Il ricorso alle confraternite, ai rituali, alle pratiche magiche tradizionali, può rappresentare un sollievo, tanto più se ciò implica la solidarietà , l’aiuto e, dal punto di vista simbolico, il mantenimento della propria identità. Le reti permettono la circolazione delle informazioni, il mutuo soccorso e l’aiuto in caso di difficoltà, il mantenimento di pratiche collettive come feste, matrimoni, battesimi. Sono l’occasione di riprodurre, trasportare o re-interpretare delle forme di solidarietà caratteristiche della comunità di villaggio. Tuttavia, non ripetono il modello comunitario originario ma vengono usate come strategie mirate all’inserimento nella società d’immigrazione, secondo la dialettica “dell’esclusione e dell’identità” (Campani, 2000, p.164). La possibilità di uscire dall’esclusione e di avere un pieno accesso alla cittadinanza dipende non solo dall’inserimento professionale ma anche dalle reti di cui l’immigrata dispone. Infatti, nel contesto migratorio, l’uomo perde il suo potere nello spazio pubblico; la donna si rende conto ben presto che non può più contare sul marito per risolvere i suoi problemi ma sulle strutture burocratiche, sulle assistenti sociali, sui figli scolarizzati, sulle vicine autoctone. L’immigrazione, togliendo agli uomini parte del valore che avevano nella società d’origine, rimette anche in questione i principi su cui si fondava la supremazia maschile. La donna vede il suo spazio sociale diversificarsi e vede crollare la netta separazione tra lo spazio domestico, interno, e lo spazio pubblico, esterno.

    In questo frangente il network svolge il ruolo di momento di socializzazione delle difficoltà e di tentativo di soluzione collettiva di esse. Si assiste, in questo, nella ricerca ed elaborazione di una “terza via” da parte delle donne immigrate che respingono la tradizione in quanto tale ma rifiutano l’accettazione del modello di donna occidentale che è esso stesso un modello “etnico” (Campani, 2000, p.180) e quindi non universale. Non a caso il femminismo black inglese critica il modello emancipatorio proposto attraverso la figura della donna occidentale. Le donne nere e quelle immigrate hanno altre priorità di lotta rispetto a quelle delle femministe “di casa nostra”. Per esempio il significato (nella sua valenza positiva) che il lavoro fuori casa riveste per le donne occidentali non deve mascherare il fatto che esse ne sopportano da sole il costo sociale al prezzo della doppia giornata lavorativa e che ciò per nulla ha modificato gli stereotipi relativi ai ruoli sessuali. Per certi versi il lavoro rappresenta un elemento di mantenimento della relazione patriarcale piuttosto che un elemento di liberazione. Infatti, se la remunerazione ottenuta permette di elevare il livello dei consumi della famiglia, resta comunque un salario complementare che non permette, in alcuni casi, di accedere all’indipendenza economica.

    Al contrario, in molti paesi da cui provengono gli immigrati, la donna è co-produttrice nell’economia familiare e dispone di reti di solidarietà più diffuse di quelle di cui dispone la donna occidentale la quale, quando non lavora, è destinata al lavoro domestico solitario tra le mura di casa. Il discorso svalutante sull’oppressione della donna dei P.V.S. utilizza categorie (per esempio la donna-oggetto) che hanno senso solo rispetto ad un sistema economico dato, quello capitalistico occidentale, cioè il nostro. Da qui viene a cadere la centralità del lavoro nel processo di emancipazione della donna immigrata, portando ad una rivalutazione di risorse che possono essere rappresentate dalle strutture organizzative e dai modelli culturali tradizionali. Ritorna, così, il tema della sfida multiculturale che, rifiutando qualunque progetto integrazionista visto come assimilazionista e criticando radicalmente l’universalismo a favore del localismo, richiede adeguati spazi, riconoscimenti e supporti istituzionali per ogni gruppo “differente” presente nella società in questione. Qui si ascrive anche il movimento di rivendicazione femminile che evidenzia come la società moderna, che si dice aperta e paritaria, si fondi in realtà sull’esclusione del soggetto femminile dalle attività più gratificanti e dagli ambiti decisionali più rilevanti.

    I movimenti delle donne denunciano che l’uguaglianza è pensata per gli esseri umani di sesso maschile ed è parte di un linguaggio patriarcale che assume l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma, allo stesso tempo, come paradigma universale dell’intera specie. Tale ideale di uguaglianza costituisce in realtà una negazione delle donne e un’affermazione della superiorità maschile: dire che tutti gli uomini sono uguali significa letteralmente sostenere che tutti i maschi sono uguali [4]. La richiesta delle donne, quindi, non passa solo per una loro accettazione “alla pari” nella società (con un conseguente accesso alle mansioni e ai luoghi di potere in precedenza esclusivamente riservati agli uomini) ma per un riconoscimento del valore della diversità femminile [5]. La domanda femminile di cittadinanza vuole essenzialmente produrre un senso di appartenenza materiale e simbolica alla vita collettiva e un segno del loro “voler esserci”. I diritti sociali, più che un’estensione all’insieme dei cittadini di diritti originariamente sviluppati nella negoziazione più o meno conflittuale dei rapporti di lavoro, continuano ad essere dei diritti di lavoro veri e propri: sia perché sono connessi ad uno statuto di lavoro remunerato, sia perché quando sono svincolati dai rapporti di lavoro si configurano per lo più come diritti precari, discrezionali e a tempo determinato. E in questo a farne le spese sono soprattutto le donne; infatti è difficile pensare ad una uguale cittadinanza quando c’è chi, per definizione, è titolare di doveri di cura e chi, viceversa, è titolare di diritti di cura per sé e per i propri cari.

    Il “pensiero della differenza” degli anni ’80 e ’90 svela il paradosso di una politica moderna che ha incluso le donne escludendole automaticamente; in particolare evidenzia come le norme sul corpo femminile, la sessualità e il rapporto fra i sessi, non riconoscendo alle donne quella sovranità sul proprio corpo che è riconosciuta agli uomini, comporti una limitazione dell’autonomia femminile intesa come libertà, capacità di autoprogettarsi e autodefinirsi e di conseguenza una cittadinanza ancora incompiuta e limitata. Infatti la questione centrale è, ormai, diventata non tanto la debolezza della cittadinanza quanto la debolezza prodotta dalla cittadinanza. C’è da chiedersi se la cittadinanza sia ancora un fattore di inclusione o non sia invece l’ultimo fattore di esclusione, l’ultimo relitto premoderno delle disuguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali. Prendere sul serio questi diritti vuol dire disancorarli dalla cittadinanza in quanto appartenenza (a una determinata comunità statale), riconoscerne il carattere sovra-statale e tutelarli non solo dentro ma anche fuori gli Stati.


    CONCLUSIONI

    Le donne migranti costituiscono, oggi, circa la metà del totale dei migranti nel mondo e, a differenza del passato, sono riuscite ad inserirsi anche in settori tradizionalmente occupati solo dagli uomini come quello agricolo e quello industriale. Bastenier e Dassetto hanno fatto notare che ricongiungimenti familiari, nascita dei figli e scolarizzazione incrementano i rapporti tra gli immigrati e le istituzioni della società ricevente, “producendo un processo di progressiva “cittadinizzazione” dell’immigrato/a, ossia un processo che lo porta ad essere membro e soggetto della città intesa nella più larga accezione del termine” (Bastenier e Dassetto, 1990, p.147). La nascita e la socializzazione delle seconde generazioni, anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono uno sviluppo delle interazioni, degli scambi, a volte dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante; rappresentano un punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere coscienza di una trasformazione irreversibile nella geografia umana e sociale dei paesi in cui avvengono. Ne deriva una preoccupazione fondamentale, quella del grado, delle forme, degli esiti dei percorsi di assimilazione delle popolazioni immigrate nella società d’accoglienza, definibili secondo la classica formulazione di Park, Burgess e McKenzie come “un processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti di altre persone e gruppi e, condividendo le loro esperienze e la loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune” (Park, Burgess, McKenzie, 1979, p.98).

    Nell’ambito delle comunità di immigrati, proprio la nascita e la socializzazione delle seconde generazioni rappresentano un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai entrate a far parte di un contesto diverso da quello della società d’origine. Con esse sorgono esigenze di definizione, di rielaborazione e trasmissione del patrimonio culturale, nonché dei modelli di educazione familiare. A questo riguardo le differenze religiose (specie dopo gli ultimi eventi “terroristici”) sono assurte negli ultimi anni a nodo cruciale della regolazione del pluralismo etnico e culturale nei diversi contesti europei. Inoltre la crescita delle seconde generazioni è diventata centrale in relazione all’istanza della trasmissione dell’identità culturale, stimolando domande di spazio per il culto collettivo e pubblico, di regimi alimentari appropriati nelle mense scolastiche, di opportunità di impartire un’educazione religiosa ai minori nella scuola pubblica. Tali richieste introducono in un’istituzione cardine per la riproduzione culturale della società, come la scuola, elementi di difformità rispetto a presupposti considerati condivisi e indiscutibili. Dietro questi dubbi si coglie un problema più profondo: la relativizzazione del preteso universalismo dei presupposti culturali dell’educazione scolastica definita come occidentale, secolarizzata, moderna.

    L’immigrato, e forse ancor più l’immigrata, diventa il simbolo più eloquente delle difficoltà che le società avanzate incontrano nel costruire nuove forme di legame sociale e di appartenenza ad un destino comune, più flessibili e inclusive eppure capaci di salvaguardare i valori fondanti delle società aperte e democratiche. Le “mitiche” unità di terra, razza, lingua e religione, che hanno alimentato tra ‘700 e ‘900 l’idea di nazione, sono destinate a conoscere una profonda ridefinizione, se non una crisi irreversibile. Ciò fa sì che il discorso attuale sulla cittadinanza debba prendere sempre più in considerazione le recenti acquisizioni del dibattito postcoloniale (di cui si è citato qualche autore nelle pagine precedenti). E’ così che la stessa categoria di cittadinanza può essere ristrutturata e rivista alla luce dei diversi piani d’analisi. Analizzare “da chi” e “per chi” i discorsi sulla cittadinanza vengano prodotti e attraverso quali meccanismi retorici essi vengano fatti circolare e si radichino nella coscienza comune delle popolazioni residenti e migranti in un dato territorio significa incrinare l’idea che essere cittadini sia un dato acquisito una volta per tutte per causa di nascita, di sangue, di residenza acquisita o per maturazione intellettuale e sociale all’interno di un dato contesto. Scomporre le modalità di costruzione e trasmissione all’interno del senso di appartenenza ad una data comunità significa comprendere sia il contenuto intrinseco sia le narrative attivate da ciascuno degli individui-cittadini per giustificare la propria adesione o negarla e contestarla. L’accento quindi dell’analisi dei processi di costruzione della cittadinanza multiculturale deve passare per la chiave antropologica di lettura dei processi politici di partecipazione e identificazione comunitaria e trovare uno dei suoi punti cardine nell’osservazione delle politiche e delle strategie formative delle nuove generazioni e dunque sui contesti educativi e scolastici in cui tale appartenenza o la sua contestazione vengono a sedimentarsi nei cittadini in divenire.

    Indubbiamente un’immigrazione stabilmente insediata è destinata ad accentuare la segmentazione culturale della società italiana e a rimescolare i criteri, già di per sé incerti, di definizione dell’identità nazionale. Il passaggio da un’idea di nazione basata implicitamente su una presunzione di relativa omogeneità della popolazione, ad una concezione pluralistica e negoziata dell’appartenenza nazionale, in cui conti non solo il sangue, ma anche la socializzazione, la residenza prolungata, la volontà di adesione al patto di cittadinanza, sarà il luogo critico della costruzione di un’identità nazionale capace di incorporare le seconde generazioni.

    I principi di uguaglianza e di inviolabilità dei diritti individuali andranno rivisitati e declinati nel nuovo contesto pluralistico. Più esplicitamente nessun ordinamento occidentale accetta la poligamia o la disparità giuridica tra uomo e donna, per non parlare delle mutilazioni genitali femminili; viceversa l’abbigliamento, l’alimentazione, le festività, le pratiche religiose, sono un terreno in cui aperture e negoziazioni sono possibili e praticate. La stessa laicità degli ordinamenti statuali andrà forse rivisitata, aprendo una rinnovata discussione sul contributo delle identità religiose alla coesione complessiva. Insomma nulla di più complicato e di meno naturale della compresenza sulla stessa tavola di riso, zafferano, pomodori e cioccolato: ma non sono in fondo le donne grandi maestre in cucina?


    NOTE

    1] Tra il 2000 e il 2001 ho svolto un tirocinio formativo post-laurea presso l’Associazione Senegalese di Napoli, nell’ambito del Progetto P.Or.T.A. per le attività di orientamento al lavoro dei laureati gestito dall’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Mi sono occupata di attività di segretariato, di sportello e di assistenza diretta agli immigrati, soprattutto donne.
    2] Per un’analisi più approfondita al riguardo, rimando a G. Campani, op. cit., in particolare il capitolo introduttivo e il cap. I.
    3] Il divieto di essere un cittadino (per le donne) è formulato con chiarezza proprio nella patria della democrazia antica, Atene. Nei miti fondativi gli uomini discendono da un individuo mentre le donne sono un gènos, nato dalla rottura del vaso di Pandora che ha portato i mali sulla terra. E, a conferma di ciò, in greco non esiste il termine per indicare le “ateniesi”. Il risvolto politico della divisione dei sessi a seconda dell’appartenenza alla polis o all’oikos è che le donne appartengono alla sfera privata in quanto in essa non è possibile la libertà. (G. Bonacchi, A. Groppi , op. cit., p. 88).
    4] La modernità cade, qui, in una vistosa contraddizione: proprio nel momento in cui crea lo spazio pubblico fondato sul principio universalistico dell’uguaglianza, dove ci si può avvalere delle libertà finalmente conquistate, al tempo stesso vieta alla donna la possibilità di accedervi e non le riconosce il diritto ad avere diritti, così che dall’orizzonte egualitario viene esclusa l’altra metà del genere umano e il nuovo ordine politico resta una prerogativa maschile. Ecco il paradosso: appena proclamati, i diritti vengono esplicitamente e sistematicamente negati alle donne che, escluse dalla partecipazione attiva alla sfera pubblica, sono relegate nella condizione di non-cittadine. Tale esclusione è legittimata in nome della differenza di genere, cioè in base all’idea già dominante nell’antichità e giunta alla sua compiuta formulazione nel ‘700, che la donna in quanto tale possiede una “natura” specifica, legata alla corporeità e alla sua potenzialità produttiva, che ne determina il modo di essere e la confina nella dimensione privata dell’esistenza familiare. La donna, diversamente dall’uomo, non è definita in base alle sue attitudini in quanto persona, ma a partire dalla sua identità biologica, che diviene sinonimo di disuguaglianza e di inferiorità.
    5] D’altra parte una simile richiesta di “differenziazione” è diventata sempre più forte all’interno delle Conferenze di Pechino e di Pechino +5, quando, soprattutto le donne di colore, hanno fatto blocco contro la possibilità che si parlasse del mondo femminile in modo unitario e uniforme senza considerare le differenze specifiche che lo caratterizzano al suo interno.


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