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  • Pratiques narratives pour la formation
    Francesca Pulvirenti (sous la direction de)
    M@gm@ vol.3 n.3 Juillet-Septembre 2005

    NARRARE PER DIRE LA VERITÀ: L'AUTOBIOGRAFIA COME RISORSA PEDAGOGICA


    Duccio Demetrio

    duccio.demetrio@unimib.it
    Professore ordinario di Filosofia dell'educazione e di Teorie e pratiche autobiografiche presso l'università degli studi di Milano-Bicocca; Direttore della rivista Adultità e fondatore, insieme a Saverio Tutino, della Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari; Autore di opere dedicate all'educazione degli adulti, alla pedagogia interculturale e della memoria, alle teorie e alle pratiche autobiografiche nella formazione, ha pubblicato recentemente "Autoanalisi per non pazienti" (Cortina,2003), "Ricordare a scuola" (Laterza 2003), "In età adulta" (Guerini,2005), "Filosofia del camminare: Esercizi di meditazione mediterranea" (Cortina,2005).

    1. L’EDUCAZIONE È NARRATIVA?

    Il concetto di narrazione, di recente, sembra quasi essersi sostituito a quello di educazione. Una fortuna che pare abbia contagiato però un po’ tutte le scienze umane, stando a quanto è dato osservare in altri ambiti di ricerca: in antropologia, in psicoanalisi, in sociologia, nelle discipline dell’organizzazione, ecc. I cui paradigmi epistemologici non hanno mancato di riaggiornarsi in rapporto alle suggestioni delle teorie sistemiche e della complessità, dell’ecologia della mente, oltre che della psicologia culturale. Quanto evoca tale idea (un racconto si fonda su legami, relazioni, nessi, sviluppi e significati di una storia, ecc.), è insomma divenuta una metafora esemplare in grado di spiegare, o per lo meno di rappresentarsi ogni realtà vivente; il che permetterebbe di illustrare ogni universo fisico, mentale, culturale nelle forme del racconto.

    Tutto, e non solo per la tradizione umanistica, è narrazione; è intreccio di storie già dette, dicibili, possibili e, di conseguenza, ogni entità singola, sociale o personale, ogni fenomeno, può essere ricondotto alle immagini della natura, di un’aggregazione sociale, di una teoria che ci raccontano di sé, oppure, di una persona che consapevolmente o meno vive, ci conquista, ci comunica la sua identità narrandosi. Ad esempio, è sufficiente sfogliare la letteratura anche pedagogica degli ultimi anni (titoli di libri, articoli, tesi di laurea, ecc.), per rendersi conto di quanta attenzione si attribuisca ad una modalità di trasmissione del sapere che sembrava rappresentare, non molto tempo fa, soltanto una delle componenti di quella vicenda complessa che è l’educazione. Essendo questa un tutto riducibile in parti, fra cui la dimensione narrativa, esprimente il ruolo del dire nella relazione magistrale quale essa sia.

    Tuttavia si era già soliti riconoscere a livello teorico e metodologico che, se educare è parola che rinvia non ad un singolo atto, ma ad un insieme o sistema di eventi (l’incontro con conoscenze socialmente utili, con norme di comportamento, con valori,ecc) o all’allestimento di situazioni favorevoli a ciò, le modalità narrative e discorsive erano senz’altro da privilegiare in rapporto alla dimensione metodologica, al lavoro di comunicazione degli educatori. Specialmente nell’educazione dei più piccoli o di adulti non padroni di un adeguato pensiero formale e astratto. Il narrare, già lo si era compreso, esprimerebbe infatti forme ed habitus comunicativi connessi con le esigenze più semplici ed elementari di acquisizione delle conoscenze e, per tale motivo, accessibili ai più. Nella loro primordiale arcaicità, si presentano connaturate all’uso pratico del linguaggio e non solo verbale. Così importanti da dover essere favorite anche quando ci si occupi di veicolare insegnamenti di più elevato tono teoretico: fra cui la filosofia, le stesse scienze fisiche o psicologiche.

    Pertanto, ben più delle forme di comunicazione trasmissive (fra queste: la lezione, la prescrizione, la ripetizione, l’asserzione, la dimostrazione logica), secondo una nota convinzione pedagogica, non da oggi si sostiene che andrebbero privilegiate, per la loro efficacia, le modalità più spontanee, più ‘naturali’ e antiche: quali il racconto, la conversazione, il dialogo, la discussione. Tutto quanto, insomma, possa collocare due o più interlocutori-narratori nella condizione di simulare e di riprodurre a scuola o altrove quanto già avviene, da che mondo e mondo, nei passaggi di consegne e di informazioni tra individui, gruppi, generazioni. Nel rispetto, tra l’altro, dei principi introdotti dalla dialettica, dal metodo induttivo socratico, dalla retorica tanto classica quanto professata della tradizione evangelica e comune ad altre religiosità, dedite all’arte di insegnare per exempla, da discutere: non certamente assimilare mnemonicamente. Dove il ricorso al mito, alla parabola, all’ apologo, alle metafore - in quanto ingredienti ineliminabili di ogni narrazione - possa fungere da sostegno ad un apprendimento vissuto, esperienziale e relazionale, volto a richiamare il ruolo della narrazione educativa - sia fenomenologica che valoriale - in quanto occasione per pensare al senso delle cose, della vita, dei compiti e delle responsabilità personali.

    La narrazione, in pedagogia, era dunque già apprezzata e adottata ben prima, come oggi spesso accade, che le scienze e le altre tecniche del comunicare le tributassero onori talvolta a dir poco eccessivi. Ciò che sembrava sfuggirle, riguardava la lettura - come già le scienze avevano compreso - dell’educazione non solo come narrazione intenzionale mirante ad uno scopo, ma anche come esperienza. Dove, rispetto alla formazione di un individuo, è quanto mai arduo distinguere ciò che costui o costei abbiano imparato dagli intenti altrui, per loro intrinseca motivazione o propensione, oppure, dagli incontri accidentali e casuali: fortunati o deleteri.

    2. LA FASCINAZIONE DEL SAPERE RACCONTATO

    Attualmente, invece, da quanto accennato, anche in pedagogia e senza più i riduzionismi citati, si riconosce al narrare in senso attivo (comunicare mediante narrazioni) e autoriflessivo (raccontarsi in prima persona, interiormente e in silenzio, innanzitutto a se stessi) una supremazia tale da ritenere che un’ educazione efficace - giocoforza in tempi medio/lunghi - non possa che essere l’esito di una vera e propria strategia o consuetudine narrativa, adottata sovente d’istinto o intenzionalmente da chi si trova ad essere accidentalmente o professionalmente educatore di qualcuno. Rispetto al contesto (che dovrà essere impregnato di narrazioni e attento alla creazione di climi relazionali narrativisticamente orientati); rispetto a chi è il destinatario dell’azione, che sarà valorizzato nel suo essere interlocutore o narratore più che ricevente passivo; rispetto alle conoscenze veicolabili che dovranno essere trattate didatticamente secondo specifici stili narrativi: tali da accrescere attenzioni, motivazioni ad imparare, ragionamenti sul proprio apprendere. Non per ‘escamotage’, si badi bene, di carattere affabulatorio o seduttivo, ma per ragioni mutuate dalle stesse scienze cognitive. A questo punto, non più solamente della comunicazione bensì della narrazione. Dal momento che, e non sarebbero soltanto le neuroscienze a ribadirlo, quanto più un individuo viene coinvolto, attratto e sollecitato a partecipare all’evento educativo o formativo che sia, tanto più è probabile che i messaggi, quali essi siano, restino nella sua memoria più a lungo.

    La fortuna recente dell’ idea pedagogica di narrazione si deve allora, oltre che a un riconfermato motivo fatto proprio dall’ educazione attiva e attivistica, tanto dal pragmatismo quanto dalla fenomenologia, agli approdi raggiunti dalle scienze della mente e del linguaggio. Queste ripropongono il ruolo insostituibile dell’apprendimento dall’esperienza il che, per il lessico pedagogico, significa assecondare, favorire e allestire tutto quanto consenta al soggetto di imparare immergendosi nelle situazioni, ad un livello quasi descolarizzato.

    Riassumendone le scoperte, troviamo ad esempio che:
    a) l’ascolto di un insieme di informazioni cui l’emittente (l’educatore-comunicatore) abbia conferito la conformazione di una ‘storia’ avrà più probabilità di essere accolto e ritenuto;
    b) le storie che si avvalgono della nozione di trama (alias intrigo e intreccio) dalle evidenti implicazioni emozionali. Dal momento che catturano la curiosità - una modalità affettiva tra le più comuni - ben più degli enunciati concettuali, non sono altro che un’ esemplificazione di come opera l’intelligenza nella trasformazione dei dati di realtà e cioè per modelli, costrutti, forme, sceneggiature e visioni. Cui, ancora una volta, ben si addice la metafora narrativa. Pertanto l’allestimento di ‘teatri narrativi’ non può che incontrarsi con i ‘teatri della mente’ prodotti da una normale attività cerebrale, all’insegna di una metafora che indica l’importanza didattica di rendere dinamici i contenuti (esterni) dell’apprendere in rapporto alle facoltà intellettuali (interne), analogamente paragonate ad un gioco drammaturgico in continua metamorfosi.

    In altre parole, ciò si compie attraverso l’aggregarsi, ricombinarsi, innovarsi di microsistemi di carattere descrittivo, interpretativo, ipotetico e congetturale. Questi, ‘interpellati’, dovrebbero essere in grado di dichiarare antefatti, sviluppi, esiti, tanto di un’esperienza vissuta o immaginata, quanto di una teoria. Apprendere e dimostrare di aver appreso, quindi, altro non sarebbe che un’attività di comprensione-restituzione per storie (gli insiemi di significato) immediatamente esplicite o sottostanti una catena di informazioni. Queste sono meglio riconoscibili nella loro natura di microstorie, ora poggianti su nessi logici, causa-effettuali, coerenti e plausibili stimolate dalle sollecitazioni sensoriali, sentimentali, pratiche, ora nell’appartenenza al possibile e all’immaginario. L’imparare per storie avviene d’altronde in ogni contesto relazionale quotidiano; per cui, come è ben noto, accade di apprendere spesso e soprattutto in contesti che sono, in una scala di valori, ritenuti diseducativi e infausti per le sorti di chi in essi è coinvolto. Proprio perché posseggono e presuppongono un’ attrattività narrativa, o una consuetudine ben maggiore rispetto ad altri; fanno presa sul bisogno di apprendere per questa via, di contro a canali trasmissivi più freddi, avari di storie che questo o quel educatore-narratore (casuale, spontaneo, accidentale) riesce invece a comunicare con maggior presa.

    Da quanto detto, siamo convinti che al di là dei distinguo più sofisticati, non si tratta di concludere che alla parola educazione, anche per essere al passo con i tempi, vada sostituita la parola narrazione. L’una non è similare e intercambiabile all’altra. Crediamo piuttosto che la prima debba restare un contenitore concettuale ed esperienziale della seconda e certamente tra quelle più da stimolare e accompagnare di criticità pedagogiche. Non necessariamente il buon risultato educativo (ma qui dovremmo relativizzare contesti, valori, finalità) si deve ad un apprendimento per storie e narrazioni. Anche altre, forse meno seducenti, continuano ad essere le vie del passaggio dei saperi, dei saper fare ed essere. Nelle più diverse culture si impara a diventare donne e uomini anche senza il ricorso a tali modalità. Così come, in altre, soltanto l’adozione di un approccio narrativo per lo più veicolato oralmente preclude sviluppi mentali e ben poco emancipa gli individui che nemmeno riescono a diventare tali: intrappolati in reti narrative così fitte da inibirne ogni libertà e scelta autonoma. Pertanto, un’enfasi eccessiva sulla narrazione, che resta un mezzo e un metodo efficacissimo per il conseguimento degli obiettivi educativi, quale ne sia il contesto, rischia di emarginare e trascurare gli altri aspetti che concorrono al successo di una storia educativa: individuale o di gruppo, in famiglia o in una comunità. Allo stesso tempo, è necessario riflettere criticamente sui rischi di un esercizio esclusivo delle pratiche narrative che generano ritualità e ripetitività; che addestrano a comportamenti e condotte assai poco disponibili ad adattamenti e cambiamenti.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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