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  • Approche d'en bas et interculturalité narrative
    Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
    M@gm@ vol.1 n.2 Avril-Juin 2003

    IL MODELLO DI LAVORO DI GRUPPO CON DONNE MIGRANTI Una rivisitazione al maschile


    Cecilia Edelstein

    cecilia@shinui.it
    Fondatrice e presidente dell'associazione Shinui (www.shinui.it); Responsabile della Scuola di Counseling Sistemico Relazionale di Bergamo; collabora come formatrice e consulente con enti pubblici e privati di numerose città italiane sul tema dell'immigrazione e della comunicazione interculturale; coordinatrice e responsabile della ricerca sugli 'aspetti psicologici dei processi migratori e differenze di genere' all'interno del Forum sulle matrici culturali dell'Università degli Studi di Bergamo, presso il Corso di Laurea in Scienze dell'Educazione, diretto da Pietro Barbetta.

    Felipe Sanchez Galvez

    elgalgo@mail.com
    Psicologo, terapeuta individuale, di coppia e familiare presso l'Università del Cile, Santiago, Cile, dove svolge attività di docenza e di terapia presso il Consultorio Pubblico della medesima Università; ha esperienza di lavoro con famiglie multiproblematiche e adolescenti, in relazione all'abuso di sostanze tossiche e alla marginalità in diversi progetti finanziati dallo Stato del Cile; in Italia dal 2000 per un intercambio culturale, frequenta il corso quadriennale di Formazione per terapeuti familiari del Centro Milanese di Terapia della Famiglia di Milano; partecipa ad un Progetto Sociale presso il Comune di Lecco - Servizio Minori - e collabora con l'associazione Shinui nell'ambito della ricerca.

    Laura Pavioni

    laurapavioni@tiscalinet.it
    Psicologa, Psicoterapeuta, in formazione presso l'Istituto Europeo di Terapie Sistemico-Relazionali (E.I.S.T.) di Milano; lavora come libera professionista per i Servizi Sociali della Provincia di Bergamo nell'ambito dell'orientamento e della formazione per le organizzazioni senza fine di lucro; realizza laboratori di ricerca teatrale con gruppi di adolescenti su temi quali la dipendenza, la corporeità, le relazioni con la tecnica del linguaggio del corpo e del teatro dell'oppresso; lavora come psicologa clinica presso lo studio medico Van Ravenstein di Torre Boldone; socia di Shinui, collabora con l'associazione nell'ambito della ricerca.

    INTRODUZIONE

    A partire da una ricerca azione con donne migranti (Edelstein, 2002) è stato sviluppato un modello di lavoro di gruppo basato sull'approccio sistemico. Questo, partendo dalla terapia familiare e unito alle idee cibernetiche in un più ampio contesto di ecologia d'idee, si presta ad un lavoro di gruppo sia perché riconduce alla dissoluzione dei problemi nelle relazioni e nelle conversazioni (Anderson e Goolishian, 1992), sia perché le sue tecniche di lavoro si basano sul sistema costituito dall'insieme delle persone, dalle loro relazioni reciproche e dal contesto in cui si trovano (Bozzetto et al., 2001; Ganda, 2001).

    Le domande circolari, ipotetiche, riflessive (Tomm, 1987 a; 1987 b; 1988) agevolano la comunicazione circolare, il coinvolgimento dei partecipanti al gruppo e fanno emergere informazione che difficilmente comparirebbe con domande lineari. L'ipotizzazione (Selvini Palazzoli et al., 1980) permette la connessione di dati senza limitarsi a cercare risposte da un partecipante. Sollecitando gli altri si ottengono descrizioni delle descrizioni delle relazioni. Le riflessioni degli altri possono innescare cambiamenti e questo è simile alla tecnica sviluppata da Andersen (1987) chiamata il "reflecting team". Parole chiave (Boscolo,1992), sculture umane (Andolfi, 1977) sono esempi di tecniche verbali e non verbali adatte al lavoro con i gruppi.

    Il modello di lavoro di gruppo con donne migranti sviluppato da Edelstein risponde ai bisogni nella fase di sistemazione e adattamento come da loro testimoniati: autodefinirsi nei confronti dell'altro, socializzare per combattere la solitudine, utilizzare il proprio linguaggio e quello degli altri, avere informazione (Edelstein, 2000). Nel '95, quando l'immigrazione al femminile era ormai riconosciuta come fenomeno avviato e irreversibile, Edelstein condusse un percorso di gruppo di donne native e straniere con l'obiettivo di facilitare lo scambio e creare conoscenza tra etnie e culture diverse. Il percorso, centrato sul ciclo vitale femminile e della durata di 6 incontri, era stato promosso da enti pubblici ed istituzioni del privato sociale [1] e identificato come "progetto pilota" perché aveva come primi obiettivi quelli di verificarne interesse e utilità.

    La costruzione del gruppo non fu un'impresa particolarmente impegnativa. Indirizzato il progetto a figure chiave (donne migranti socialmente coinvolte e rappresentanti italiane del mondo femminile) queste furono contattate personalmente e risposero positivamente. Dopo quest'esperienza vissuta con entusiasmo e dalla quale nacquero iniziative formali e rapporti informali di amicizia, si presentarono altre occasioni per costituire dei gruppi, anche soltanto di donne immigrate. Inizialmente erano creati intorno ad una necessità proveniente dal campo professionale. Ad esempio, un gruppo fu creato per capire, in base all'esperienza personale delle migranti, quale avrebbe potuto essere il profilo della mediatrice interculturale per istituire un corso di formazione. Denominato corso propedeutico, aveva l'obiettivo di capire a quali bisogni la mediatrice interculturale doveva rispondere. Alle donne era esplicitato che la partecipazione al gruppo non implicava quella al corso di formazione. La loro disponibilità era gratuita e non retribuita.

    Successivamente si formarono gruppi collegati alle richieste delle donne intorno a tematiche quali maternità e immigrazione. Anche in queste occasioni fu facile costituire i gruppi e addirittura si effettuò una selezione sulla base di criteri di eterogeneità rispetto a provenienza, età, stato civile, durata di permanenza in Italia, ecc. Le proposte non erano indirizzate a figure chiave bensì ad un'immigrazione non privilegiata. I percorsi erano pubblicizzati con l'aiuto delle operatrici dei servizi sociali territoriali (Comune, Asl) e attraverso annunci in giornali locali. Le donne venivano anche contattate da associazioni varie (anche di immigrati) e dalle scuole. Nelle esperienze che seguirono queste due si ripeté il fenomeno di affluenza superiore alla disponibilità di posti anche quando il movente per la costituzione di un percorso di gruppo non era un bisogno relativo al campo professionale. Ai gruppi partecipavano circa alle 15 donne, numero che permette sia uno scambio ricco sia un clima di intimità.

    Dopo qualche anno l'utilità dei gruppi per le donne migranti diventò evidente: queste avevano l'opportunità di incontrarsi, creare conoscenze e amicizie, raccontarsi e ascoltare le storie delle loro compagne, rinforzare il proprio senso di appartenenza, collegarsi con la propria identità, viversi straniere senza vergogna, uscire dal proprio mondo spesso solitario. Inoltre, il confronto dava la possibilità di far circolare maggiormente informazioni pratiche rispetto alla gestione di alcuni aspetti della vita quotidiana (l'iscrizione dei figli a scuola, pratiche burocratiche, ecc.). I gruppi offrivano la possibilità di aprirsi alla diversità e di creare processi di identificazione e differenziazione che davano luogo ad uno spazio personale. Si riduceva così il rischio di intensificare l'atteggiamento di vittimismo, di ghettizzazione, di conflittualità fra etnie.

    Il modello di gruppo con donne immigrate diventava una risorsa: non solo rispondeva ai bisogni delle donne nella fase di sistemazione e adattamento, ma si rivelava un intervento di prevenzione rispetto ai rischi che emergono in quella fase: rinchiudersi in se stesse, relazionare unicamente con connazionali, creare rapporti di dipendenza, cadere in depressione. Pur non essendo un gruppo terapeutico, rappresentava per loro un vero e proprio processo di cambiamento. Le donne diventavano protagoniste di altre esperienze promosse da loro stesse (organizzazione di un nido interculturale, di un catering all'interno di un'associazione di donne migranti). La loro posizione nella società e all'interno della propria famiglia mutava.

    Il modello di gruppo è stato descritto in maniera completa nella rivista Connessioni (Edelstein, 2000). Riportiamo in questa sede un breve riassunto: i gruppi, quanto più eterogenei possibili per agevolare scambio e maggior informazione, sono costituiti - come già detto - da circa 15 partecipanti per facilitare il clima di intimità. I percorsi hanno durata limitata (tra 6 e 8 incontri con verifica e festa finale), si centrano intorno a una tematica specifica, hanno regole ben definite (giorno, orario, contratto), si svolgono nella sede dell'Associazione (spazio né pubblico né privato) e sono condotti da un esperto che utilizza tecniche sistemiche verbali e non verbali.

    Alla fine dell'articolo Edelstein scriveva: "non penso che gli uomini abbiano meno necessità delle donne di crearsi un punto di riferimento, né che abbiano più risorse di loro così da non averne bisogno, anche se tradizionalmente vivono di più fuori casa, nei luoghi di culto, sul lavoro, nei bar, negli stadi, spazi in cui è possibile incontrare gli altri e sentirsi meno soli o trovare risposte ad alcuni bisogni generati dalla condizione vissuta nella fase di inserimento e adattamento. Sicuramente il modello necessiterebbe di adeguamenti a seconda dei contesti." (pag. 83).

    Quando scriveva queste righe, Edelstein già stava tentando di costituire un gruppo di uomini. Dopo vari tentativi in occasioni e contesti diversi decise di creare un gruppo di ricerca [2] per verificare interesse ed eventuale utilità dei percorsi di gruppo per uomini migranti, così come era stato fatto con le donne. Nel presente articolo descriveremo la metodologia della ricerca, i tentativi svolti per costituire i gruppi al maschile, le osservazioni fatte strada facendo, le ipotesi che tale esperienza ci ha portato a formulare e le conclusioni alle quali arrivammo dopo due anni di lavoro.

    METODOLOGIA

    Nella presente ricerca l'obiettivo è quello di verificare se il modello di lavoro di gruppo con le donne possa essere applicato con gli uomini e in tale caso svolgere un'analisi delle narrazioni al maschile e confrontarla con le autobiografie al femminile. La ricerca con le donne, come si è visto, si è sviluppata sotto il segno di una ricerca azione (o ricerca intervento) condotta con il metodo narrativo. La ricerca azione discende dai modelli classici di Kurt Lewin. Si possono elencare aspetti riconosciuti in questo tipo di ricerca: approccio olistico, particolare significatività del tema per gli attori, disponibilità del ricercatore a negoziare con gli attori, intervento terapeutico del ricercatore nelle azioni, assenza di un metodo predefinito, emancipazione degli attori, impiego di strumenti descrittivi, produzione di un mutamento sociale (Scurati e Zanniello, 1993). Diversi ricercatori osservano che l'utilizzo delle narrazioni di vita sia un metodo di ricerca particolarmente valido quando i concetti esplorati sono nuovi e appartengono a territori sconosciuti per i partecipanti e/o per i ricercatori (vedi ad es. Mishler, 1986 o Riessman, 1993). Altri sottolineano la valenza della narrativa e dell'autobiografia non solo come metodo di ricerca, ma come intervento attraverso il quale si creano cambiamenti (vedi ad esempio il numero 4 della rivista "Adultità", 1996, interamente dedicato al metodo autobiografico). Citando Polkinghorne scriveva Flick: "Le narrazioni di vita costruiscono e trasformano il passato in un sé coerente" (Flick, 1998, p.119). Ed Espìn aggiunge l'aspetto curativo che può avere ri-raccontare la propria storia migratoria anche se in un contesto di ricerca.

    La ricerca ha un carattere qualitativo. Chiaretti, Rampazi e Sebastiani (2001) parlano della svolta epistemologica degli ultimi anni che ha risvegliato l'interesse sociologico per la ricerca qualitativa, dietro la considerazione che "un soggetto è tale perché è in relazione con gli altri: costruisce se stesso e il suo ambiente attraverso il linguaggio e si manifesta nella comunicazione" (pag. 11). Quest'affermazione ha posto come prioritarie alcune questioni in merito alla metodologia della ricerca. Il ricercatore sociale è chiamato a mettere in primo piano l'esperienza: quella dell'osservato, ma anche la propria, osservatore ed osservato negoziano reciprocamente i propri ruoli e le proprie posizioni. L'adozione di un punto di vista che enfatizzi il carattere autoriflessivo della ricerca è la sua natura di "costruzione progressiva, non lineare e potenzialmente mai conclusa." (ivi p.11). La responsabilità del ricercatore necessita di restituzione dell'esito del lavoro in vista di una ricerca che sia "pratica sociale: prodotto e, insieme, alimento dell'autoriflessibilità delle società contemporanee". (ivi p.11) Queste premesse portarono a costruire un modello di lavoro di gruppo nella ricerca sui processi migratori al femminile che poteva essere utilizzato anche nella ricerca che aveva come soggetti gli uomini immigrati.

    In questa fase il nostro lavoro aveva come obiettivo quello di stabilire dei contatti con alcune istituzioni che lavorano sul territorio con e per gli immigrati al fine di proporre la ricerca stessa e raccogliere adesioni. La ricerca veniva presentata sottolineando la necessità di costruire gruppi di uomini eterogenei per provenienza, età, stato civile, permanenza in Italia. Veniva anche comunicato che gli incontri avrebbero avuto cadenza quindicinale per un tempo determinato (6 - 8 incontri) e che sarebbero stati gestiti da una coppia di conduttori: un uomo e una donna. Questo per assicurare la presenza di un conduttore maschio che ipotizzavamo avrebbe influito sulle narrazioni e le riflessioni degli uomini immigrati, essendo il genere una variabile significativa nella ricerca. Inoltre il ruolo dei conduttori del gruppo, come professionisti, non era solo quello di facilitare la conversazione e fare emergere le narrazioni, ma anche quello più etico di rassicurare i partecipanti e provvedere a proteggerli dai danni che il racconto di alcune esperienze traumatiche poteva creare (Espìn, 1999).

    Abbiamo però trovato molte difficoltà a costituire gruppi eterogenei di uomini disponibili ad incontrarsi e a raccontare la loro esperienza migratoria. Questa empasse ci ha portato a riflettere, in linea con le nostre premesse metodologiche, sul fatto che molto probabilmente la ricerca non iniziava con la creazione del gruppo ma ben prima. Infatti, il processo di ricerca partiva nel momento stesso in cui contattavamo istituzioni, operatori e immigrati. Ogni contatto diventava uno stimolo di riflessione per il gruppo di ricerca; gli incontri venivano tutti audio o videoregistrati e sbobinati. In questo modo anche la ricerca al maschile diventava una ricerca azione: sapevamo da dove eravamo partiti, non sapevamo dove saremmo arrivati. Siamo quindi passati consapevolmente dalla condizione di ricercatori all'essere membri stessi della ricerca. Il percorso, per come si sviluppava ci modificava e ci portava a nuove riflessioni. La circolarità ci faceva tornare su noi stessi, la riflessività pensare al sistema come a un insieme che coinvolge attivamente i ricercatori con le proprie esperienze, le proprie opinioni sull'immigrazione e i propri pregiudizi, non più come condizioni che si dovevano evitare, bensì come considerazioni caratterizzanti e fondanti la nostra ricerca azione. Da qui nasceva l'idea di non porre condizioni a priori nella costituzione dei gruppi, ma di osservare la ricerca in divenire.

    PROCESSO

    Furono coinvolti nella ricerca un Centro di Educazione per gli Adulti cui si rivolgono prevalentemente persone provenienti dall'Africa del Nord, dall'America Latina e dall'est Europeo; una comunità di accoglienza che ospita 70 persone prevalentemente provenienti dall'Africa; un commerciante asiatico che aggrega nel suo negozio di generi alimentari numerosi singoli e famiglie provenienti dall'Asia (soprattutto India e Pakistan); un uomo attivo in un'associazione culturale di immigrati, proveniente dal Senegal. Per ogni contatto osservavamo e prendevamo atto di ciò che succedeva nella contrattazione fra le parti (fra noi e l'ente o il singolo) cui proponevamo la ricerca. Questa trascrizione minuziosa del processo in itinere ci permetteva di formulare ipotesi rispetto a quello che stava succedendo. Presso il Centro di Educazione per gli Adulti, dopo una lunga contrattazione con il Responsabile sulle modalità di presentazione della ricerca e di coinvolgimento degli immigrati, il progetto si arenò su problemi di natura burocratica (inerenti il Provveditorato agli Studi).

    Per quanto riguarda invece la comunità d'accoglienza, dopo alcuni incontri di contrattazione il responsabile ci disse che nutriva delle perplessità rispetto alla modalità con cui proponevamo la ricerca. Per riuscire a coinvolgere gli uomini era necessario creare dei cambiamenti. La sede degli incontri del gruppo avrebbero dovuto essere la comunità stessa perché, a suo avviso, gli ospiti non sarebbero arrivati alla sede dell'associazione (peraltro vicina); il percorso avrebbe dovuto svolgersi nelle ore serali, dopo cena; chiedeva inoltre di diminuire il numero di incontri perché nessuno sarebbe stato interessato a partecipare a una serie di 4 o 5. Le richieste di cambiamento erano tre: il luogo, l'orario, la durata del percorso. Dopo aver dato la nostra disponibilità, l'operatore ci disse che si sarebbe occupato di proporre il percorso ad una decina di ospiti, quelli più attivi e coinvolti, ma non ci riuscì (non sappiamo quali tentativi abbia fatto); non fummo in grado di contattare gli uomini personalmente: il responsabile non credeva nella possibilità di costruire un gruppo e coinvolgerlo nel progetto anche se la ricerca gli sembrava interessante.

    Il commerciante asiatico, dopo essersi dichiarato in un primo incontro disponibile a partecipare alla ricerca, si manifestò scettico rispetto alla possibilità di coinvolgere gli uomini in un impegno che gli appariva gravoso considerando i vincoli lavorativi e familiari. Inoltre espresse a più riprese l'impossibilità di ingaggiare uomini di diverse provenienze in incontri di gruppo. La sua idea era che, vista la situazione conflittuale in cui si trovavano alcuni paesi del bacino asiatico (India e Pakistan), diventava impossibile per queste persone mettersi a un tavolo a dialogare e a raccontarsi. Anche il presidente dell'associazione di immigrati si dimostrò interessato alla ricerca e contattò una ventina di conoscenti ai quali chiese di compilare un questionario da noi consegnato, per raccogliere i dati per la costituzione dei gruppi. In un secondo momento ci disse che i suoi amici erano perplessi perché non essendo un impegno a pagamento preferivano incontrarsi nelle case o al bar. Inoltre diffidavano di tali incontri poiché qualcuno non aveva regolare permesso di soggiorno, altri temevano che fossimo coinvolti con servizi pubblici o con la Questura.

    Dopo questi diversi tentativi di costituire gruppi eterogenei di uomini immigrati arrivammo a formulare alcune ipotesi sull'impossibilità di utilizzare con gli uomini il modello di lavoro di gruppo messo a punto con le donne. Una prima ipotesi, collegata a differenze di genere, presupponeva che gli uomini non avessero gli stessi bisogni e possibilità delle donne e che inoltre non percepissero il gruppo come una risorsa. Per questo motivo, pensammo che per poter costruire dei gruppi al maschile dovevamo abbandonare i criteri usati con le donne. Pensammo quindi a gruppi omogenei per quanto riguarda la provenienza, ma ciò non bastava. Emerse anche l'idea, forse più un'intuizione, che dovevamo porci con gli uomini immigrati in una relazione di scambio in cui le persone potessero percepire un ritorno più concreto, di tipo materiale, rispetto al lavoro che proponevamo. Infine, in un'ottica costruzionista, sarebbe stato molto interessante svelare quale tipo di esperienza nasceva in base ai bisogni dei partecipanti. Pensammo che proporre la ricerca agli uomini immigrati come un processo da costruire insieme poteva permetterci di fare qualche percorso di gruppo. Questo nuovo approccio ci sembrava in linea con le premesse che stavano dietro alla ricerca azione.

    IL GRUPPO

    Nell'ottica dello scambio decidemmo quindi di contattare e di proporre la ricerca ad alcune associazioni di immigrati. Contattammo l'associazione Eritrea di Bergamo che rispose con entusiasmo alla nostra proposta. La ricerca venne illustrata come un percorso dell'associazione Shinui. Il primo incontro con l'associazione Eritrea, a cui intervennero tre uomini, si centrò sulla presentazione reciproca delle proprie enti di appartenenza. Gli uomini eritrei ci raccontarono la storia della loro associazione, come si era costituita e quali obiettivi perseguiva. Ci dissero che l'associazione era un ponte tra l'Italia e l'Eritrea per sostenere e favorire lo sviluppo del loro paese di provenienza. Noi, a nostra volta, presentammo il nostro Centro e la ricerca sugli aspetti psicologici dei processi migratori che volevamo proporgli, compreso il lavoro con le donne. I tre uomini si dimostrarono disponibili ed interessati a partecipare. Fissammo quindi un altro appuntamento con l'obiettivo condiviso di ascoltare le loro storie migratorie. Parteciparono a questo secondo incontro le stesse persone intervenute nel primo.

    Durante la stessa serata, articolata in una conversazione libera, a turno ci raccontarono come scapparono dal loro paese tormentato da una guerra trentennale. Nei racconti si dilungarono sulla storia della loro nazione e sulle problematiche di tipo politico. Ci raccontarono le difficoltà e il disorientamento della fuga, le varie tappe del viaggio che li portò, con tempi diversi, prima in Somalia, poi in Europa. Narrarono i vissuti dei primi tempi in Italia, le difficoltà ad avere un permesso di soggiorno, le condizioni di clandestinità in cui versarono per molto tempo. Nonostante il lungo periodo trascorso in Italia (30 anni!) non hanno mai abbandonato l'idea del ritorno alla terra natale. Nutrono, a tutt'oggi, forti emozioni di nostalgia e condividono un profondo sentimento di appartenenza all'Eritrea.

    Raccolte le storie sul processo migratorio, nell'ottica dello scambio, ci confrontammo rispetto al seguito: cosa potevamo fare e costruire insieme? Gli uomini eritrei espressero il desiderio di confrontarsi su alcuni temi di natura politica e civile che riguardano l'Italia e l'immigrazione. Si concordò, quindi, di organizzare insieme una serata culturale in cui far incontrare e dialogare cittadini italiani e stranieri.

    CONCLUSIONI

    Siamo oggi del parere che il modello di gruppo così come costruito con le donne immigrate non risponda ai bisogni degli uomini. Oltre all'ipotesi già avanzata di differenze di genere intorno al bisogno di narrare le proprie storie in gruppo, possiamo evidenziare aspetti che richiedono un adeguamento per riuscire a coinvolgere gli uomini in percorsi di gruppo.

    1) Eterogeneità - omogeneità:
    sembrerebbe che gli uomini immigrati mantengano stretti rapporti con i connazionali e che, all'interno di un'attività che riguarda aspetti personali, abbiano difficoltà ad incontrarsi con uomini provenienti da altri paesi. Questo a volte è dovuto a conflitti internazionali conclamati, come ad esempio fra India e Pakistan, ma anche a difficoltà a gestire relazioni con persone identificate come appartenenti a culture o religioni diverse. Risulta interessante osservare che le donne non attribuiscono lo stesso significato alle differenze culturali e religiose nei micro rapporti: nemmeno quando esiste un conflitto fra nazioni esse si sottraggono alla relazione.

    2) Spazio:
    gli uomini preferiscono incontrarsi in luoghi privati come la casa o ambienti pubblici come il bar. Il ritrovarsi in uno spazio che appartiene ad un'associazione viene spesso percepito come contatto con il settore o le autorità pubbliche e quindi come potenzialmente pericoloso anche quando la persona ha regolare permesso di soggiorno. Sembrerebbe che le donne invece tendano a fidarsi maggiormente delle proposte provenienti dai servizi attribuendo a queste il significato di risorsa.

    3) Orario:
    gli uomini dichiarano di essere occupati in attività lavorative durante il giorno e di non desiderare impegni serali, anche se potrebbero essere un'attività piacevole che favorisce la crescita personale. Sembrerebbe che sabato pomeriggio e domenica siano praticamente l'unico tempo di ritrovo. L'unica alternativa è, ovviamente, la seconda serata, dopo le 21.

    4) Durata:
    anche la proposta di partecipare ad un percorso di oltre due incontri intorno alle proprie storie migratorie sembra improponibile agli uomini, mentre per le donne il minimo che si poteva proporre erano sei incontri di tre ore ciascuno a cui ne veniva sempre aggiunto uno finale accompagnato da musiche e cibi tipici.

    5) Utilità:
    parrebbe che il significato relazionale e affettivo che i percorsi di gruppo rivestono per le donne non venga considerato dagli uomini. Per partecipare a tali gruppi gli uomini devono percepire una convenienza immediata di tipo materiale o per lo meno concreta. La via alternativa che abbiamo proposto è stata quella di porci in un rapporto di scambio (come suggerito dall'unico ricercatore maschio). Potrebbe essere che gli uomini usufruiscano di una varietà di spazi di incontro a cui le donne non possono accedere e che questa proposta sia un'opportunità unica per le donne mentre per gli uomini un impegno in più.

    Tuttavia, con una proposta di scambio, in tarda serata, per ben due volte, abbiamo incontrato un gruppo omogeneo di uomini immigrati che con entusiasmo e ricchezza di particolari hanno condiviso con noi le loro storie migratorie. E' interessante però notare che alla fine del secondo incontro gli uomini proposero di organizzare insieme, come associazioni, un'attività culturale con taglio socio - politico. Non pensiamo che questa proposta sia priva di significati nel contesto di confronto fra i generi.

    Ci chiediamo se la difficoltà nella costituzione dei gruppi al maschile non sia collegata anche ai pregiudizi che gli operatori nutrono. Infatti, abbiamo trovato più perplessità e meno disponibilità fra gli operatori che non nel contatto diretto con i migranti. Si potrebbe ipotizzare che i bisogni degli uomini siano determinati in parte dalle aspettative stesse degli operatori che entrano in contatto con il fenomeno migratorio.

    Siamo entusiaste della svolta che ha subito il lavoro, diventato anch'esso una ricerca azione in cui i partecipanti si trasformano in co-ricercatori. La narrazione riportata in questo scritto rappresenta comunque soltanto una fase iniziale del lavoro.


    BIBLIOGRAFIA

    Andersen, T. Il reflecting team: dialogo e metadialogo nel lavoro clinico in Il Bollettino, vol.17, 1989, pp.15-29, trad. it. da Family Process vol.26, 1987, pp.415-428.
    Anderson, H e Goolishian, H. I sistemi umani come sistemi linguistici: implicazioni per una teoria clinica in Connessioni, 2, 1992, pp.1-29, trad. it. da Family Process, vol.27, vol.4, 1988, pp.371-393.
    Andolfi, M. La terapia con la famiglia, Roma, Astrolabio, 1977.
    Boscolo, L. et al. Linguaggio e cambiamento. L'uso della parola chiave in terapia in Terapia Familiare, vol.37, 1992, pp.41-53.
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    Tomm, K. Interventive interviewing parte II - Le domande riflessive come mezzi per condurre all'autoguarigione, in Il Bollettino, vol. 23, 1991, trad. it. da Family Process, vol. 26, 1987b, pp.167-183.
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    NOTE

    [1] Il progetto è stato promosso dal Comune di Bergamo insieme ai Servizi Sociali della Provincia, all'associazione "Infanzia & città" e alla Fondazione Serughetti "La Porta" (centro culturale privato che studia temi sociali e storici tra cui il fenomeno migratorio). L'iniziativa è stata finanziata dai Servizi Sociali della Provincia.
    [2] Il gruppo di ricerca è costituito attualmente dagli autori dell'articolo e da Barbara Resta, soci dell'associazione Shinui - Centro di Consulenza sulla Relazione, un centro culturale professionale (www.shinui.it). Il gruppo, a sua volta, è parte di un forum permanente di ricerca presso l'Università degli Studi di Bergamo, promosso da Barbetta (https://wwwesterni.unibg.it/siti_esterni/sde/matriciculturali/). Ringraziamo i colleghi che hanno partecipato in diverse fasi della ricerca, in particolare Stefania Francini, Gabriela Gaspari, Flavio Nascimbene.


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