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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017





    DALLA 56/1989 ALLA 4/2013. UNO SGUARDO SUL QUADRO NORMATIVO ITALIANO

    Anna Barracco

    anna@annabarracco.it
    Psicoanalista, già presidente del CIPRA – Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione di Aiuto e attuale membro del direttivo, è stata Consigliere segretario dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia dal 1999 al 2014. Laureata in Scienze politiche, si occupa di progetti di prevenzione e inclusione sociale con particolare attenzione ai temi del disagio psichico grave e al loro rapporto con la democrazia.


    Urpflanze 4 - Nicoletta Freti

    Il problema del riconoscimento, o meglio della progressiva acquisizione di potere politico in Italia, di empowerment, delle professioni non regolamentate, può essere affrontato come un dialogo a distanza, un dialogo negli anni, fra la legge 56/89 – o legge Ossicini, la legge che ha sancito l’istituzione dell’Albo degli Psicologi e ha visto il riconoscimento della professione di psicologo come professione protetta e ordinata – e la legge 4/2013 che, più recentemente, ha dato il quadro entro cui si possono situare tutte le nuove attività professionali non regolamentate, ma – appunto – riconosciute.

    Nella “vulgata”, nei dibattiti quotidiani a cui ci siamo un po’ abituati, sui social o nelle mailing list, queste due leggi sembrano un po’ come il diavolo e l’acqua santa, l’angelo e il demonio (a seconda da quale parte della barricata si stia a guardarle, naturalmente) e, in ogni caso, le si ritiene di natura e di carattere profondamente antitetico.

    Cercherò, in questo articolo, di dimostrare che così non è.

    La legge 56/89 nasce in un momento in cui la discussione sull’abolizione degli Ordini era molto avanzata. Gli Ordini che la Repubblica Italiana aveva ereditato dopo la seconda guerra mondiale, del resto, erano di chiara derivazione fascista, e ben lo si sapeva negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta.  L’Europa e le sue logiche di libera circolazione e di concorrenza facevano già sentire il loro peso e, in effetti, la legge 56/89 contiene una serie di passaggi che, se la si confronta con le altre leggi di ordinamento delle professioni classiche, di Notaio, Avvocato o Medico, la rendono molto più democratica e liberale: c’è il limite dei due mandati per i consiglieri eletti, le liste che si presentano possono annoverare solo la metà più uno dei componenti del Consiglio, con ciò di fatto garantendo una dialettica democratica maggioranza/minoranza, ecc.

    A parte gli aspetti strettamente elettorali – che pure dicono qualcosa del DNA di un’associazione, per quanto con funzioni pubblicistiche – la legge aveva ben previsto e ben valutato la necessità, da una parte, di dare forma e riconoscimento a una professione nuova, di proteggere e valorizzare i suoi percorsi formativi peculiari; dall’altra, di mantenere alta la guardia rispetto al bisogno di evitare la creazione di una nuova corporazione in senso fascista.

    Se guardiamo ai lavori parlamentari e diamo poi un rapido sguardo agli articoli della legge più importanti ai fini della costruzione dei percorsi e degli standard delle professioni di psicologo e psicoterapeuta, ci renderemo conto che all'epoca della discussione parlamentare, il legislatore si pose in modo molto serio l’annosissima questione: “Chi ha diritto di occuparsi di cura?”

    In una società democratica e liberale, come può essere garantita la libertà di formazione e la libertà di rivolgersi liberamente a un interlocutore, armonizzandola con l'esigenza sociale e garantita dalla Costituzione di una tutela della salute e di una tutela del cittadino – ovvero del consumatore – che si rivolga a un professionista della cura, intesa nel senso più ampio, che contenga sia il curare che il prendersi cura?

    Il legislatore si pose questa questione, come vedremo, in modo niente affatto superficiale, cercando di rimanere fra la “Scilla” di un approccio inclusivo, democratico, rispettoso di quello che c'era nella realtà italiana, e la “Cariddi” del caso Verdiglione, che impazzava sui giornali all’epoca dei lavori preparatori, e cioè dell'evidenza che anche i clienti colti, appartenenti alle élite sociali, laureati, facoltosi e verosimilmente in grado di intendere e di volere, quando chiedevano una cura potevano essere o diventare molto, molto fragili e suscettibili di manipolazioni.

    Il legislatore doveva dar voce al bisogno sociale di strutturare un sistema di garanzie che permettesse di stabilire uno standard minimo formativo, su cui poi innescare le garanzie di livello superiore, cioè quello che oggi chiamiamo il discorso qualitativo, accreditatario, e che allora era assicurato dalle botteghe psicoanalitiche o di psicoterapia e dai circuiti formativi privati.

    Era pertanto molto presente al legislatore, e in generale al Parlamento, la necessità di costruire un ordinamento professionale che non costituisse un perimetro rigido, che non stabilisse un recinto corporativo in senso fascista, ma, caso mai, in senso medievale.

    Nel medioevo, i pittori erano iscritti alla corporazione dei medici e degli speziali perché insieme a questi ultimi essi condividevano il maneggiamento di sostanze chimiche, di prodotti che servivano a preparare la tela e a mescolare i colori, che potevano essere velenosi e avere effetti vari sulla pelle se venivano inalati o ingeriti. Questo essere iscritti insieme ai farmacisti, droghieri o medici, non impediva loro di seguire i loro percorsi formativi, i loro standard, che chiaramente erano molto diversi da quelli dei farmacisti o dei medici.

    In questo senso, mutatis mutandis, all’epoca della scrittura dell’art. 1 della 56/89, ma anche all’epoca del varo delle famose norme transitorie, artt. 32, 33, 34 e 35, il legislatore sembrava avere ben in mente la necessità di armonizzare il battesimo di una nuova professione, quella di psicologo, con la necessità di metterla in connessione e in sintonia con gli strumenti dell’associazionismo di stampo anglosassone. Le varie psicoterapie avrebbero potuto convivere in modo ben diverso, diversificandosi e anche annodandosi fra loro (come meglio vedremo poi, entrando un po’ di più nel merito della questione delle norme transitorie, e quindi della psicoterapia), se fin dall’inizio gli Ordini, la governante della Categoria, avesse avuto un disegno di ampio respiro.

    Qui ci basti anticipare che, appunto, ci potrebbe essere un modo per interpretare la legge 56/89, di applicarla, di farla vivere, che potrebbe andare nella direzione di includere, di accogliere, diciamo, i farmacisti, i medici, i droghieri, i pittori e gli scultori, stabilendo dei denominatori comuni molto ampi, salvo poi lasciare che le singole sottocategorie si organizzino, organizzino i loro percorsi formativi e i loro spazi di professionalizzazione.

    Fuor di metafora, le moltissime scuole di psicoterapia avrebbero potuto organizzarsi (e potrebbero a maggior ragione farlo adesso, oggi che la legge 4/2013 offre loro uno strumento potente di accreditamento e costruzione di standard di qualità), creando registri di accreditamento in cui, all’interno della grande famiglia delle psicoterapie, si potrebbero distinguere quelle umanistiche, quelle psicodinamiche, quelle cognitiviste e quelle a mediazione corporea. All’interno, ancora, della grande galassia psicoanalitica, ci potrebbero essere le confederazioni junghiane, quelle lacaniane, quelle freudiane, quelle reichiane, quelle bioniane, ecc. e così, all’interno della grande confederazione umanistica, ci potrebbero essere le confederazioni della gestalt, rogersiane, transazionali, ecc.; in quelle cognitiviste, a loro volta, più strutturate secondo i modelli evidence based, e dunque, costoro più vicine ai farmacisti e meno, diciamo, ai pittori, stando alla metafora.

    Dunque, ci potrebbe essere un modo di considerare la corporazione degli psicologi-psicoterapeuti in modo più medievale, associativo, con all’interno le galassie delle singole botteghe, alle quali è lasciata la libertà di stabilire le modalità della formazione, degli standard, dell’avviamento alla professione o all’arte liberale, rispetto ad un’idea rigida, davvero fascista di corporazione, che è quella che poi sta dietro, come vedremo, non già alla legge 56/89, quanto all’art. 348 del Codice Penale, codice Rocco, voluto da Mussolini nel 1930.

    Ma torniamo ora all’art. 1 della legge 56/89, al suo – volutamente ­– non istituire confini rigidi, ma voler disegnare un centro di gravità da cui sarebbero potuti partire annodamenti, galassie, percorsi.

    Nell'art. 1 non c'è scritto che le attività elencate sono “riservate”, ma che sono “attribuite” allo psicologo le attività di prevenzione, formazione, sostegno, abilitazione, riabilitazione in ambito psicologico. Quando il legislatore vuole introdurre una riserva su un’attività, lo dice esplicitamente. Nell'art. 3 della stessa legge, infatti, è scritto chiaramente e inequivocabilmente che l'attività psicoterapeutica è riservata.

    Guardando bene, da vicino, i lavori preparatori, vediamo che la questione il legislatore se l'era posta, e l’ipotesi della riserva era stata volutamente scartata.

    Durante la X legislatura, il 2 luglio del 1987 venne presentato al Senato il disegno di legge S16 assegnato in sede redigente alla Commissione Sanità del Senato. L’articolo 5 del disegno di legge S16 al secondo comma recitava così:

    «Non è consentito l’esercizio dell’attività professionale in campi della psicologia diversi dalla psicoterapia a chi non è in possesso della laurea in psicologia».

    Questa impostazione che imponeva un chiaro monopolio nel mondo “psi” era inaccettabile.

    A tal proposito il senatore Spadaccia intervenne: «Le inquietudini (…) si ripropongono se si legge il secondo comma dell’articolo 5: “Non è consentito l’esercizio dell’attività professionale in campi della psicologia diversi dalla psicoterapia a chi non è in possesso della laurea in psicologia”. Quindi creiamo una sorta di monopolio professionale estremamente pericoloso con una tipologia normativa che può essere interpretata in maniera chiaramente autoritaria e monopolistica (…)».

    Il disegno di legge S16 passò quindi alla Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati il 10 marzo 1988 e durante i lavori di questa Commissione questo comma venne integralmente soppresso. A tal proposito intervenne il deputato Sergio Moroni: «(…) Non è detto che la nostra attività di legislazione debba essere per forza rotonda, complessiva ed esaustiva, in quanto spesso porre dei confini in certi settori rappresenta un atto pericolosamente arrogante e velleitario, che può causare gravi sofferenze. (…) Si potrebbe scegliere la via di una legislazione che abbia come obiettivo la ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela di un’attività della quale tutti riconosciamo l’utilità sociale e la garanzia degli utenti rispetto agli operatori. Non considero ciò come una procedura di basso profilo ma come una scelta responsabile, che non cede alle pressioni di chi tenta di attribuire a questa professione compiti esorbitanti. Nel nostro paese esiste infatti una tradizione, tipica degli ultimi venti-trent’anni secondo la quale, periodicamente, si cerca di conferire a talune professioni una dimensione globalizzante. Anche gli architetti, in una certa fase, hanno usurpato il ruolo ad altre categorie professionali come quelle degli economisti o dei sociologi». (Fonte: Commissione Affari Sociali, 8 giugno 1988).

    L’eliminazione del secondo comma dell’articolo 5 del disegno di legge S16 rappresenta una chiara volontà di promozione di un discorso improntato a impedire le interpretazioni più monopolistiche da parte degli psicologi di quello che è poi divenuto il testo di legge della “Ossicini” nel 1989.

    Queste considerazioni storiche ci portano a dover valutare che non tanto la legge 56/89, che ben aveva stabilito che ciò che era attribuito agli psicologi erano quegli aspetti della prevenzione, della formazione, della riabilitazione, del sostegno e dell’abilitazione che sono di chiaro ambito psicologico, quanto la sua successiva applicazione sia andata nella direzione di allontanare questo dispositivo dall’accordo generale che poteva invece essere meglio promosso, con tutta la successiva e concomitante legislazione europea, che sempre di più è andata nella direzione di promuovere la libertà di professare arti liberali.

    La direttiva CE 89/48, sulla libera circolazione dei professionisti, è appunto del 1989. Ci sono poi altri interventi che sono andati in questa direzione, fra cui il decreto Bersani, poi convertito in legge, del 2006, che ha abolito tariffari e vincoli pubblicitari; ci sono state poi fior di leggi che hanno recepito altrettante direttive europee, sempre a ribadire la necessità di non irrigidire i confini e di lasciare il più possibile libero, mobile e plastico il confine fra attività.

    Basti leggere le direttive europee e i loro recepimenti, e non soltanto la legge 4/2013. Per esempio, prendiamo in considerazione il decreto legge 138 dell’agosto 2011: “Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche”: comma 1 «L’iniziativa e l’attività economica privata sono libere, ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». 2012, un anno dopo, sempre ad agosto, e in piena crisi, con un decreto del Presidente della Repubblica, il n. 137, si tenta ancora di andare nella direzione di liberalizzare e ribadire la funzione solo costituzionale degli Ordini esistenti, cercando di correggerli in senso accreditatario (limite della durata dei tirocini, abolizione dei limiti numerici  di accesso, ulteriore riduzione dei vincoli pubblicitari ma, soprattutto, il limite alla creazione di nuovi Albi e Ordini: «la formazione di albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività professionale, è ammessa solo su previsione espressa di legge…» ). E ancora, e soprattutto, la Carta dei diritti fondamentali della UE, art. 15, paragrafo 1: «Libertà professionale e diritto di lavorare: ogni persona ha diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata». Questo è il punto di riferimento a cui tutti questi decreti attuativi tentano di rifarsi, salvo poi prevedere limitazioni, deroghe e atti; insomma, delle lobby parlamentari, volti a trovare il cavillo per vanificare il lavoro di liberalizzazione.

    La legge 4/2013, infine, si inserisce in questa cornice e costituisce uno degli atti del legislatore, volti a dare impulso al processo di adeguamento e armonizzazione con la logica accreditatoria, di tipo anglosassone ed europeo.

    Questa breve legge, che consta di meno di 10 articoli, serve a creare un contenitore il più ampio possibile, che traduca, entro l’ambito della legislazione nazionale, il senso del principio europeo, per cui chiunque sia in grado di inventare una professione, di farla accettare a potenziali clienti, può esercitarla e deve essere lasciato libero di esercitarla, salvo pagare le tasse e rispondere davanti al cliente e alla società di eventuali danni che può arrecare nell’esercizio della professione.

    Dunque, si cerca, di annodare un principio di libertà ad uno di responsabilità, per tutte quelle attività che non sono tutelate in modo speciale dalla Costituzione (diritto alla salute e diritto alla difesa) e che quindi si configurano come attività di sviluppo economico e civile in senso lato.

    Il ministero di riferimento, per queste attività, è il MiSE (Ministero dello Sviluppo Economico).

    La legge stabilisce che un professionista possa lavorare anche da solo, decidendo di fare un percorso di certificazione di qualità, oppure che possa appartenere a un’associazione professionale, la quale, in libertà e mettendosi sul mercato, dove c’è la libera concorrenza anche di altre associazioni appartenenti allo stesso segmento (esistono varie associazioni di categoria di counselor, o di mediatori, o di operatori del benessere, ecc.), possa, a sua volta, aggregarsi in confederazioni e coordinamenti. La legge, inoltre, prevede l’obbligo della formazione continua, dell’assicurazione per la responsabilità civile, l’obbligo dell’informativa al cliente, l’obbligo del contratto preliminare, l’obbligo di prevedere luoghi di prima composizione di eventuali reclami (sportello per l’utenza).

    Tutti questi obblighi sono stati peraltro estesi, decreto dopo decreto, anche alle professioni ordinate, le quali, a onor del vero, hanno cercato di resistere strenuamente, forse non comprendendo che tardare nell’adeguarsi a questi parametri, significava perdere terreno e non fare un buon servizio agli iscritti.

    Quanto allo sportello per l’utenza e alla possibilità di garantire un primo tentativo di composizione delle controversie, chiaramente la legge delinea una differenza rispetto agli Ordini, dal momento che le professioni ordinate hanno un Codice Deontologico che vincola anche davanti allo Stato e non solo davanti all’assemblea dei soci, e le decisioni disciplinari dei Consigli costituiscono un primo grado di giudizio. Nel caso delle associazioni libero-professionali, ex legge 4/2013, non è così, e se un professionista fosse radiato, per esempio, dalla commissione di disciplina dopo una controversia con un cliente, potrebbe teoricamente iscriversi ad un’altra associazione di categoria.

    Ad ogni modo, anche nel caso del professionista ordinistico, persino dopo la radiazione, è sempre possibile chiedere la riabilitazione e, in definitiva, ci sono delle differenze, ma non è affatto detto che il sistema autorizzatorio, in questo senso, cioè rispetto alla tutela dei consumatori, dei clienti o dei cittadini,  in caso di malpractice,  sia migliore del sistema accreditatorio.  Nel sistema accreditatario le controversie che non si compongono a livello del reclamo, possono passare alla magistratura ordinaria, mentre nel caso dei procedimenti disciplinari degli Ordini, c’è forse un rischio maggiore di un uso politico dei procedimenti disciplinari, anche perché l’organo giudicante (il Consiglio Regionale), è lo stesso che viene eletto e che attende ai compiti politici e amministrativi di governante della Categoria. Molti disegni di legge di riforma degli Ordini hanno cercato di introdurre una differenza, una distinzione di compiti, attribuendo ad una commissione Nazionale, eletta separatamente, i compiti disciplinari, ma tutto è ancora in alto mare. Si tratta, decisamente, di aspetti che ancora pagano lo scotto ad una logica fascista, da tribunali speciali, e bisognerebbe che i Consigli degli Ordini più illuminati, che pure attualmente ci sono, almeno fra gli psicologi, ne prendessero veramente atto, ne parlassero, e si impegnassero per andare a modificare questi aspetti.

    La legge 56/89, del resto, non è affatto nemica di questa impostazione accreditatoria e democratica, come abbiamo visto dai lavori preparatori.

    L’idea stessa di “confine” in senso rigido, andrebbe appunto superata dal momento che si parla di percorsi, di standard minimi, dove anche tutta l’impostazione che attualmente l’Ordine Nazionale tende a tenere sui cosiddetti “atti tipici”, è un’impostazione vecchia e non più sostenibile.

    Forse la gestione e l'applicazione della legge 56/89, in questi trent’anni, poteva essere migliore, ma, anche su questo, in realtà, si potrebbe discutere. La Magistratura, e anche il legislatore, sono intervenuti a più riprese e, nella stragrande maggioranza dei casi, andando a indicare direzioni che potrebbero essere intraprese e che anche la governance della Categoria degli psicologi avrebbe potuto intraprendere per facilitare la costruzione di un grande contenitore che potesse ospitare la famiglia delle professioni “Psi”. Con un’applicazione equilibrata e lungimirante delle norme transitorie, gli Ordini avrebbero ben potuto gettare le premesse per questa armoniosa evoluzione.

    Anche alcuni dispositivi di  sentenze che hanno condannato alcuni psicanalisti laici, specificano, se le si legge con attenzione, che la Categoria potrebbe affrontare i problemi storici e di interpretazione della legge 56/89, che si pongono effettivamente con molta evidenza, utilizzando i dispositivi di legge più recenti (con chiaro riferimento al diritto che si sta formando, in questi anni, in ossequio all’approccio europeo), per arricchire, armonizzare, diversificare le varie professioni psi, le varie psicoterapie e psicoanalisi, dal momento che ogni esercizio professionale, ogni libero incontro fra una domanda e un’offerta di prestazioni o servizi,  fino a prova contraria, è lecito, libero, e anzi va incentivato e promosso, salvo garantire il pagamento delle tasse e la responsabilità del professionista nei confronti del cliente e della società.

    I giudici lo hanno detto a più riprese, agli psicologi, ai farmacisti, ai notai, e anche gli ultimi Presidenti del Consiglio dei Ministri hanno cercato (peraltro con alcuni passi avanti e molta resistenza e colpi di coda delle lobby) di dare agli Ordini diverse sveglie, ma fino ad oggi si è preferita la linea della resistenza passiva, di trincea.

    Tuttavia, e in ogni caso, se anche si dovesse continuare a non fare quasi nulla, in termini di adeguamenti legislativi, per indirizzare il processo di trasformazione dell'organizzazione dell'area psicologica (ormai, con la legge 4/2013 e il contenzioso oggi pendente rispetto all’iscrizione di Assocounseling negli elenchi del MiSE, comunque vada a finire,  un grosso cambiamento è in atto), il campo andrà sempre più chiarificandosi nella direzione che in realtà la legge 56/89  prevedeva e anzi auspicava.

    L’art. 1 non introduce riserve, ma indica alcune traiettorie, su cui, secondo una logica modulare, ben si potrebbero innestare le molte altre professioni di abilitazione, riabilitazione, sostegno, formazione, di ambito per esempio pedagogico, sociale e medico. Esiste la riabilitazione medica (fisioterapia, osteopatia, riabilitazione psichiatrica, ecc.) e un concetto di riabilitazione è presente anche nel mondo penitenziario; quanto al sostegno, c’è il sostegno scolastico, che apre a tutta una serie di pratiche in ambito pedagogico; c’è poi il sostegno sociale alle categorie fragili, tutta la galassia delle professioni di cura, gli educatori, i caregiver, ecc. Quanto all’abilitazione e alla formazione, a maggior ragione, le direzioni che possono essere intraprese sono molteplici, e una riserva, è impensabile, se non nella logica fascista, dei professori universitari “tesserati”.  

    Quanto all’art. 3, e alla “galassia” psicoterapia, dovremmo affrontare la questione storica, e lì potremo vedere come, effettivamente, la legge 4/2013 potrebbe costituire un’occasione straordinaria per andare verso la costruzione di percorsi virtuosi che portino la psicoterapia umanistica, psicodinamica, a mediazione corporea, ecc., nel solco di quanto stabilito dalla Dichiarazione di Strasburgo.

    Senza voler troppo entrare nel dettaglio, possiamo vedere come la legge 56/89, prevedendo un percorso per la psicoterapia a regime e uno transitorio (disciplinato quest’ultimo dall’articolo 35), costruisce una sorta di grande contenitore, dove al primo gradino ci sono gli psicologi, con laurea in psicologia (a regime) ovvero con lauree diverse o anche senza laurea, cioè psicologi con formazioni umanistiche o di vario genere, che si sono formati “sul campo”. Il secondo gradino, invece, quello della specializzazione in psicoterapia, prevede laureati in psicologia con percorso quadriennale riconosciuto e, accanto a questi, coloro che, pur essendosi formati sul campo, come gli psicologi delle norme transitorie, hanno però una laurea conseguita da almeno 5 anni dall’entrata in vigore della legge, e dimostrino una formazione e una pratica specifica in psicoterapia.

    Dunque, sia nel livello base (psicologi) sia nell’elenco speciale degli psicoterapeuti, esistono delle figure con percorsi differenti: i pittori, appunto, che convivono nello stesso contenitore, insieme ai medici e ai farmacisti, ma che fanno tutt’altro, si formano in tutt’altro modo, usano le sostanze per ben altri scopi.

    La legge, però, anche per i pittori introduce la strettoia di una laurea in qualsiasi disciplina, e per i concorsi nel SSN introduce un ulteriore imbuto, che è la laurea in psicologia. Per esercitare la psicoterapia nel SSN, chiaramente, si incontra la legislazione sanitaria, e lì c’è poco da cavillare. Ci vuole una laurea pubblica e una specialità riconosciuta. In effetti, i riconoscimenti ex art. 35 e art. 3 di percorsi privati, trovano non poche resistenze, e con la riforma Lorenzin, è probabile che le scuole di psicoterapia che permetteranno l’accesso ai pubblici concorsi nel SSN, si ridurranno drasticamente, e dovranno tornare sotto l’ombrello dell’università. Le scuole di specializzazione per esercitare una psicoterapia sanitaria, dovranno insomma essere delle cliniche universitarie.

    Tutta la galassia degli psicologi non laureati in psicologia, che per vari motivi non hanno potuto veder riconosciuti i loro titoli universitari (magari conseguiti all’estero), sono rimasti in questo luogo, in questo grande contenitore, proprio come i pittori accanto ai medici e agli speziali, con i loro saperi, i loro percorsi, i loro luoghi di formazione.

    A questo, possiamo aggiungere che la legge non ha – volutamente – normato la psicoanalisi (e anche su questo ci sono interviste e dibattiti parlamentari che testimoniano di come l’assenza della parola “psicoanalisi” fu tutt’altro che una svista e molte grandi scuole psicoanalitiche, fra cui anche la SPI, vollero direttamente opporsi alla regolamentazione) e quindi questo contenitore appariva davvero aperto, annodato, costruito come un continuum.

    Molte parole sono ambigue nella legge 56/89 e si vede che volevano essere solo un punto di partenza, uno schizzo, che poi la governance della professione avrebbe dovuto riempire di senso, orientare, costruire, strutturare.

    Per esempio, la parola specializzazione, contenuta nell’art. 3 e nell’art. 34, ha dato luogo a infiniti contenziosi: si intende specializzazione in senso universitario o no? No, ha risposto il Consiglio di Stato dopo molti contenziosi e, alla fine, il senso di quel termine specializzazione è rimato solo ad indicare l’articolazione del contenitore, fra psicologi e psicoterapeuti.

    Lo psicoterapeuta, peraltro, definito come uno specialista, che accede a questo upgrade attraverso percorsi molto diversi fra loro, è in realtà un professionista a sé nel resto d’Europa, e sempre più anche in Italia è questo l’orientamento della magistratura, essendo fra l’altro, lo psicoterapeuta, un profilo che appunto fuoriesce dal contenitore dell’Albo degli Psicologi, andando a incontrare e ad annodarsi con l’Albo dei Medici, dove tuttavia il percorso in psicoterapia non costituisce una specializzazione in senso stretto, ma una semplice annotazione,  un titolo a parte. Dunque l’Albo degli Psicologi, se lo si guarda bene, si presenta così: una serie di nodi, di percorsi, che entrano ed escono da un contenitore che non è affatto una corporazione chiusa. Percorsi regolamentati (medici-psicoterapeuti) e non regolamentati (psicoanalisti laici) si dipartono e si differenziano dal contenitore, così come molti profili diversi, formazioni diverse e prerogative anche diverse, si trovano dentro il contenitore (per esempio, colleghi riconosciuti psicoterapeuti all’estero, ma non in Italia, dove sono solo psicologi, o anche psicologi e psicoterapeuti riconosciuti con le norme transitorie, che però non possono fare concorsi pubblici, ecc.).

    Quindi la psicoterapia è in Italia un’ulteriore galassia, una specializzazione trasversale a due professioni, mentre nel resto d’Europa è una professione a sé, ben distinta da quella di psicologo.

    Non era e non è facile conciliare questi due opposti, cioè la necessità di costruire degli standard per le professioni della cura, mantenendo uno spazio per il mondo della psicoanalisi, della psicologia e della psicoterapia umanistica, uno spazio che potesse attraversare il nuovo contenitore ordinistico, trovandolo poroso, bucato, aperto a lungimiranti rimaneggiamenti.

     

    Il legislatore cercò di costruire un contenitore molto fluido, confidando – forse troppo – nella lungimiranza degli organi preposti alla strutturazione del nuovo campo, cioè gli Ordini professionali, e nella loro capacità di gestire questa transizione, di concerto con le Università, il Ministero dell'Università, della Giustizia, le società scientifiche, le associazioni, le scuole, ecc.

    Se oggi non ci siamo riusciti, o stiamo ancora cercando una strada, penso che la responsabilità non sia solo degli Ordini, ma forse della scarsa consapevolezza di noi tutti professionisti, ordinati e non, delle nostre identità, dei nostri percorsi.

    Il criterio di fondo, dunque, è che la parola "specializzazione", che attraversa come un filo rosso la professione, dal transitorio fino alla psicoterapia (unica riserva, si badi bene, stabilita dalla legge di ordinamento) presente nei due articoli, nel tempo è andata specificandosi, sentenza dopo sentenza, nel suo significato.

    Non si intende certamente specializzazione in senso sanitario (le specializzazioni per le professioni sanitarie, nel SSN sono normate in modo specifico, sono a numero chiuso e sono pubbliche), ma si intende un ulteriore percorso, che, una volta concluso, dà accesso ad una professione (lo psicoterapeuta) con valenza sanitaria.

    Si tratta dunque di un percorso ulteriore; vi propongo di sostituire, alla parola specializzazione, in ognuno dei due articoli, la locuzione “percorso ulteriore”. Nell'art. 3, si parla di ulteriore percorso quadriennale, dunque, rispetto alle lauree di base, la laurea in psicologia e quella in medicina. Non di un ulteriore percorso da svolgersi da parte di chi sia già professionista, iscritto all'Ordine dei Medici e degli Psicologi, ma un percorso eventualmente considerabile a sé, cioè: chi è laureato in medicina o psicologia, può svolgere un percorso ulteriore di quattro anni, presso apposite scuole riconosciute dal MIUR, e questo percorso è riservato a questi laureati in medicina e psicologia. Chi aveva lauree differenti, poteva accedere a questa attività riservata, in via transitoria, ed era una laurea magistrale, in qualsiasi facoltà, che permetteva questo salto. Tuttavia, anche i transitati, non potranno esercitare nel SSN per la mancanza della laurea in psicologia, cioè del requisito accademico previsto a regime. Potevano quindi fare gli psicoterapeuti solo nel privato.

    Al termine di questo percorso, e prima di esercitare la psicoterapia, anche gli psicologi laureati in psicologia sono obbligati a iscriversi al loro rispettivo Ordine, altrimenti non possono professare la psicoterapia.

    La psicoterapia è una professione a sé, anche in Italia, ed è definita da un ulteriore percorso –riservato a laureati in psicologia o medicina – che può essere frequentato tutto intero (tutto il quadriennio) da laureati in psicologia e medicina, e solo in seguito al conseguimento del titolo; per esercitare tale professione, è necessario iscriversi all'Albo dei Medici (se si è laureati in medicina) o a quello degli Psicologi (se si è laureati in psicologia).

    Questo, i Giudici del Consiglio di Stato lo hanno ribadito con chiarezza, in diverse sentenze, che hanno costretto peraltro gli Ordini ad iscrivere psicoterapeuti che, anche se non psicologi o non medici, devono poter esercitare la loro professione sul nostro territorio.

    La legge 56/89, assai saggiamente, era aperta a questa evoluzione e le varie sentenze sono andate perfezionando questa struttura modulare: la Corte Costituzionale, nel 1995, stabilisce per esempio che per accedere allo step “psicoterapia” è necessaria una laurea, una qualsiasi laurea. Pertanto chi accede alla psicoterapia anche dalle norme transitorie, può farlo solo se ha una laurea, anche se diversa da psicologia e medicina. Questo aveva stabilito, nel 1995, la Corte Costituzionale, sostanzialmente, per la prima volta, riassumendo e chiarendo una lettura dell'impianto complessivo della 56/89.

    Certo la laurea in sé non garantisce nulla, ma è un criterio limite, potremmo dire, l'idea che ci voglia per il professionista della cura, in ambito salute e benessere, un passaggio nel sociale, rappresentato anche dal sapere condiviso dell'Accademia.

    Dunque la Corte Costituzionale, con quell'importante sentenza, ribadisce nuovamente e sottolinea il nodo che la 56/89 ha disegnato, fra cure e care, e che oggi il DDL Lorenzin vuole sciogliere.

    Alla base, nell'elenco A, ci sono i professionisti della relazione d'aiuto, che possono essere formati più sul piano scientifico (testistica, psicologia di derivazione scientifica) oppure sul versante prevalentemente umanistico (lauree diverse e/o percorsi formativi di tipo esperienziale) e in questo caso saranno portatori di un sapere sulla relazione, in grado di intervenire nel vastissimo campo del sociale, della prevenzione, della riabilitazione, dell'abilitazione.

    Molto saggiamente, il legislatore aveva previsto che questi operatori di base, cioè gli iscritti nell'elenco A, non avessero alcuna riserva in questi ambiti e questo si ricava bene, come abbiamo visto, dai lavori parlamentari. La diagnosi è palesemente anche del medico, così come la riabilitazione è campo vastissimo cui attendono molti professionisti, il sostegno è anche dei pedagogisti, così come la prevenzione, spazia dalla medicina alla pedagogia, passando anche per la politica e l’economia, per non parlare della formazione, dove molti professori universitari di psicologia, non sono per niente iscritti all’Ordine degli psicologi e vengono spesso da tutt’altre carriere.  Sarebbe davvero una pretesa fascista, e infatti nonostante alcune pretese degli Ordini, questo criterio non è mai passato.

    La psicoterapia, molto saggiamente, è stata prevista come un percorso riservato, ma non veniva individuata una definizione dell'attività, lasciando così libero il processo in divenire, che sarebbe diventato reale con l'apporto delle varie scuole, che avrebbero potuto disegnare il panorama anche epistemologico della psicoterapia italiana, con l'unico vincolo dei due percorsi di laurea alla base.

    L'art. 3 della legge 56/89, non definendo la psicoterapia, ma indicando soltanto un percorso quadriennale, è una prova stupenda di un percorso accreditatario, all'interno di un contenitore autorizzatorio. Infatti, individua due lauree di base, e in più con ampio riconoscimento del transitorio, purché una laurea qualsiasi ci sia, ma poi lascia libera alla contrattazione fra privati, accademie, ministeri, associazioni e società scientifiche, la strutturazione del percorso quadriennale. Il regolamento delle scuole di psicoterapia, infatti, stabilisce solo parametri molto ampi, il che ha permesso il riconoscimento di oltre 300 scuole di almeno 30 diversi approcci.

    Si deve tenere conto che il corso di laurea in psicologia, negli anni, avrebbe potuto essere gestito, avvicinato alle esigenze del mercato del lavoro e dei cambiamenti della società, e la riforma universitaria del 1999, che accoglieva le varie direttive europee, poteva andare anche di più in questa direzione, soprattutto con l'introduzione del 3+2.

    Purtroppo, invece, le politiche del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) non hanno saputo seguire questi flussi, armonizzandosi con le tendenze europee, con la liberalizzazione e il superamento delle barriere alla libera circolazione e al libero esercizio. Si è cercato di sanitizzare i professionisti iscritti nell'elenco A, sperando in un ritorno al ciclo unico, sperando cioè di fare della laurea in psicologia una piccola laurea medica.

    Questa decisione, peraltro, che il CNOP ha cavalcato e perorato per oltre un decennio, e che ora forse volge al perfezionamento con il Ddl Lorenzin, è stata quella che forse, più di ogni altra, ha aperto la strada ai counselor e al loro riconoscimento come professionisti della relazione d'aiuto “non-sanitari”. Questi professionisti, invece, avrebbero potuto essere accolti in sottoelenchi B, si sarebbero potute fare politiche inclusive, costruendo percorsi modulari, che avrebbero poi potuto armonizzarsi con l’art. 3 della legge 56/89, che poteva andare ad una deroga, che aprisse ad altre lauree, e che permettesse la costruzione modulare di percorsi di psicoterapia umanistica, accanto a percorsi invece più rigidi, riservati a medici e psicologi, e progettati per la formazione degli operatori sanitari del SSN.

    Tuttavia, questo irrigidimento, questo tentativo di tornare al ciclo unico e di scoraggiare l’elenco B e ogni negoziazione con le professioni affini, è avvenuto anche contemporaneamente alla sempre maggiore tendenza dell'accademia di psicologia a strutturare il suo sapere in ambito scientifico–cognitivista–neuropsicologico.

    Per cui va da sé che tendenzialmente il quinquennio di psicologia, e la successiva specializzazione in ambito cognitivista o neuropsicologico, aprirà al lavoro nella sanità, mentre altri trienni, umanistici pedagogici, filosofici, ecc., apriranno percorsi nel privato e nel sociale.

    Lo sganciamento, quindi, della professione di psicoterapeuta da quello di psicologo, potrebbe essere ulteriormente facilitato, e quindi rientrare prima o poi dalla finestra, anche da questo processo di definizione, di profilazione della psicologia nell'area sanitaria.

    I due percorsi, umanistico, più orientato al sociale e al privato, e sanitario, più orientato al pubblico, esistono già di fatto in Italia, anche all'interno del mondo della psicologia e della psicoterapia.

    Nella psicologia, man mano che usciranno dal mercato gli psicologi riconosciuti con le norme transitorie (dunque con lauree e percorsi non sanitari), gli operatori di base della riabilitazione, del sociale, della prevenzione, saranno sempre meno psicologi e sempre più operatori formati con il sistema accreditatario e appartenenti ad altri profili, mentre nella psicoterapia questa dicotomia fra scuole evidence based e scuole umanistiche resterà, e si sta già costituendo questo doppio binario.

    Da una parte ci sono le scuole cognitive, neuropsicologiche, che tendenzialmente si struttureranno sempre di più in modo sanitario, che arriveranno ai numeri programmati, che accederanno con molta facilità ai concorsi pubblici nel SSN, e che tendenzialmente orbiteranno sulle professioni mediche e psicologiche, come vere specializzazioni, pubbliche e a numero programmato, proprie di queste due professioni.

    Dall'altra, ci sono tutte le altre scuole di psicoterapia, che sulla carta danno accesso ai concorsi nel SSN, ma nella pratica sarà così sempre meno. Le varie scuole di psicoterapia umanistiche, quindi, considereranno gli standard di legge (laurea in psicologia, o medicina) come standard minimi, e poi daranno diplomi che apriranno sempre più allo sbocco nell'attività privata, dando vita anche ad altri corsi, master, attività parallele di formazione di tutti quei professionisti del sociale che necessitano di competenze relazionali.

    D'altro canto, grazie alla normativa europea, grazie alla 4/2013, grazie alla riforma universitaria del DM 509/99 (Legge Zecchino, cioè grazie al 3+2) le scuole di psicoterapia potranno formare legittimamente counselor, cioè professionisti di base (diplomati e laureati triennali in tutte le facoltà), che poi potranno accedere, verosimilmente, all'approfondimento in psicoterapia, dal momento che questo è quello che prevede in realtà il percorso europeo, secondo gli standard della dichiarazione di Strasburgo e dalla EAP.

    Dunque questo è un processo di accreditamento che le scuole di psicoterapia e di counseling potranno benissimo fare, e che in parte è già in atto. I due segmenti – counseling e psicoterapia –  potranno sempre più avvicinarsi (cosa che già peraltro avviene) ricostituendo l'unità epistemologica che esiste fra le due professioni, pur diverse, con grande vantaggio per tutti: counselor, psicoterapeuti e psicologi, ma soprattutto per l'utenza. Questo senza impedire che il campo si auto–organizzi, che un counseling più sociologico e pedagogico decida di non strutturare percorsi di psicoterapia, e anche lasciando che le varie scuole di psicoterapia decidano liberamente quali standard minimi chiedere (al netto di un corso di laurea di base, che potrebbe essere lo standard richiesto dallo Stato, per questa professione, anche se esercitata nel privato).

    È possibile che questo porti, prima o poi, allo sganciamento delle psicoterapie e all'individuazione di un segmento a parte, in cui il criterio di accesso minimo sarà una laurea triennale in qualsiasi facoltà; ci sarà poi un triennio, che darà accesso a un diploma in counseling con indirizzo umanistico, gestaltico, sistemico, ecc., e in seguito un ulteriore biennio, magari a numero chiuso, dove alcune scuole potranno pretendere, per l’accesso, il conseguimento ulteriore di una laurea magistrale, a sua volta strutturata in modo più simile ai percorsi esteri (quindi numero chiuso, e diversificazione delle offerte).

    Difficile pensare, purtroppo, che sia il CNOP a facilitare questo processo di sganciamento e autonomizzazione della psicoterapia. È un processo, però, che potrà essere favorito in modo naturale, man mano che il counselingverrà sdoganato, cosa inevitabile ormai e, anzi, è già avvenuto, come anche l’istituzione della Consensus Conference del CNOP dimostra inequivocabilmente.

    La governance degli psicologi, in ogni caso, ben difficilmente potrà opporsi a questo processo di progressivo avvicinamento ad una modalità accreditatoria, e dovrà cercare realisticamente con ogni mezzo di creare sinergie fra il mondo dell'università (il triennio di psicologia) e il mondo della formazione in counseling, fondamentalmente cercando di riassorbire il fenomeno entro il perimetro della 56/89, perimetro che non sarà però rigido, come peraltro doveva essere già all'inizio, dal momento che il primo step, l'elenco A, doveva ricomprendere attività sanitarie e non sanitarie, in ambito  psicologico.

    La riforma universitaria, con il 3+2, e la legge 4/2013, di fatto disegnano questo tipo di scenario e, in un modo o nell’altro, indurranno il CNOP a venire a patti con il mondo della relazione d'aiuto: pedagogisti, psicomotricisti, logopedisti, riabilitatori, educatori, counselor, coach,mediatorie chi più ne ha più ne metta. Il proliferare dei profili, anche nell’ipotesi di ampie sovrapposizioni, è quello che si intende quando si parla di professioni e arti liberali.

    La governance degli Ordini, facilmente, cercherà accordi con le scuole di formazione in counseling o con le associazioni di categoria, per offrire queste formazioni agli psicologi; cercheranno anche, e soprattutto, di creare maggiori sinergie fra università e mondo delle associazioni professionali, ma certo non potranno più illudersi di poter riservare l'accesso a queste nuove professioni soltanto ai laureati in psicologia.

    Questo processo è visibile anche dai movimenti della Consensus Conference, dove gli universitari stanno cercando di ottenere i corsi di laurea in counseling, che saranno lauree triennali radicate in facoltà differenti, e non inserite nel percorso 3+2 di psicologia, laddove – anzi – gli psicologi cercano di irrigidire il percorso tornando al ciclo unico.

    Penso che anche i vari board dei counselor dovrebbero accettare questa negoziazione, cercando di far riconoscere, grazie al sistema dei crediti, i percorsi privati svolti dagli iscritti alle Associazioni, ai fini del conseguimento in tempi abbreviati di lauree triennali (es. laurea in scienze della formazione, dell’educazione, ecc., e non è detto che il CNOP non cerchi di far partire corsi triennali pubblici in counseling).

    Per quanto riguarda invece la formazione ulteriore, per gli psicologi quinquennalisti,  e quindi per  le lauree magistrali e soprattutto i percorsi di specializzazione, occorrerà affiancare ai percorsi quadriennali in psicoterapia molti altri percorsi professionalizzanti e magari anche a numero chiuso: psicologia scolastica, psicologia giuridica, psicodiagnostica clinica, neuropsicologia (già esistente), psicologia del ciclo di vita e della salute o clinica, per l'accesso alla sanità pubblica, prevalentemente.

    Questi percorsi saranno per lo più universitari, pubblici, a numero programmato, ma andranno realizzati in modo da permettere agli psicologi di accedere a tirocini ed esperienze reali, frutto di accordi fra i diversi stakeholders.

    Il vero problema dell'Accademia, in Italia, è il distacco con il mondo del lavoro, con il sociale.
    La sfida, per la professione di psicologo, sarà quella di disegnare questa mappa di specializzazioni nelle varie aree, per l'accesso al SSN ma anche ai servizi territoriali, senza però pretendere di avere l'esclusiva, su questi settori non sanitari.

    Dunque, non c'è oggi alcuna vera necessità di andare a trasformare la legge 56/89, che anzi ha retto in questi 24 anni. Se fosse stata una cattiva legge sarebbe stata ampiamente emendata e, in effetti, in alcuni suoi assi è stata modificata, sia direttamente, sia, soprattutto, a causa dei nuovi interventi del legislatore, che dall’esterno ha fatto molta pressione per indebolire gli aspetti corporativi.

    La legge è stata modificata dal 3+2 con l’istituzione dell’Albo B e ha dovuto man mano adeguarsi al sistema europeo, così come dovranno adeguarsi, sempre più, in generale, le corporazioni, trasformandosi in associazioni. Questo è un processo che potrà essere più o meno lento, ma che è in atto, ed è irreversibile.

    La legge in sé, del resto, conteneva già molte possibilità che per lo più non sono state colte, come il discorso della psicoanalisi, lasciata volutamente fuori (e che gli psicoanalisti non hanno saputo cogliere, bisogna dire), la possibilità che il percorso per la psicoterapia si autonomizzi come professione a sé, tutte cose contenute, come potenzialità, nella legge, così come era stata disegnata, e che ancora oggi possono essere realizzate.

    La legge, prima della sciagurata trasformazione in professione sanitaria, conteneva pure la possibilità di aggredire meglio il mercato privato, anche da parte dei professionisti iscritti al solo elenco A, i quali invece si sono lasciati soffiare quei territori dai counselor, dai mediatori, dagli educatori e riabilitatori in ambito psichiatrico, e dagli altri professionisti della relazione d’aiuto. Tuttavia, anche questa prospettiva di sanitarizzazione, pensata difensivamente, ha prodotto, come risposta, l'impetuoso nascere e svilupparsi delle nuove professioni d'aiuto e, in seguito, cosa che per la società civile è un'ottima cosa, ha dato un contributo anche alla riflessione degli Ordini sullo statuto effettivo, sull'identità dello psicologo e sulla necessità di costruire percorsi professionalizzanti per questo profilo. Anche il varo del sistema accreditatario sancito dalla legge 4/2013 apre scenari che potranno solo aggiungere valore a questa immensa ricchezza, se solo i diversi professionisti e i loro rappresentati accetteranno la sfida.

    La legge 56/89, esattamente come la legge 4/2013, è pensata per regolamentare percorsi e non per creare corporazioni chiuse. Lo abbiamo visto dai lavori parlamentari.

    L’idea che purtroppo alcuni gruppi politici interni all’Ordine degli Psicologi, hanno di una legge 56/89 da pensarsi solo in “combinato disposto” con l’art. 348 del Codice Penale, è puro terrorismo, peraltro del tutto infondato. L’articolo 348 del Codice Penale (1930, codice Rocco, piena epoca fascista) è una norma in bianco, che si trova dentro al capitolo «Reati contro la pubblica amministrazione».

    L’idea di punire penalmente, con un’ammenda o con il carcere fino a sei mesi, chi fosse reo di esercitare una pratica non autorizzata, è semplicemente voler garantire elenchi speciali di tesserati.

    Non si tratta di reati contro la persona. Nessun PM, in assenza di una denuncia di un cittadino che lamenti un danno, si muove per l’art. 348 del c.p.

    Le poche condanne andate in giudicato riguardano, infatti, situazioni in cui è il cliente ad aver denunciato, e gli Ordini possono al massimo costituirsi parte civile, insieme al soggetto.

    Gli Ordini, dopo aver subito molte archiviazioni d’Ufficio, hanno imparato che devono prima intercettare il reclamo di un cittadino, poi cercare di prepararlo e sostenerlo bene, e dopo aver documentato un danno, hanno imparato a costituirsi parte civile, sostenendo il falso sillogismo, secondo il quale se un professionista del benessere o uno psicoanalista laico fa un danno, questo danno è correlato con una precisa causalità al fatto che questi non è iscritto all’Albo degli Psicologi.

    Tutto il dibattito sugli atti tipici – a chi spetta prescrivere una dieta, per il singolo, per la comunità, a chi appartenga il colloquio, oppure se mettere un piercing all’ombelico sia un atto chirurgico o no – sono discorsi che non reggono più e non hanno motivo di essere, in una società complessa, dove l’attività intellettuale, le arti e le professioni si moltiplicano, si annodano e si sovrappongono. Abbandonare la prospettiva dei contenitori per andare verso l’idea accreditatoria, modulare, è la cosa giusta, e i nostri dispositivi di legge lo permettono. Una legislazione non “rotonda”, appunto, ma aperta al progredire dei processi e dei fenomeni professionali e scientifici.

    Sia dentro ai contenitori regolamentati, sia nell’ambito delle professioni non regolamentate, le aree di sovrapposizione sono moltissime. I medici psicoterapeuti e gli psicologi psicoterapeuti si sovrappongono completamente, in termini di prerogative e di atti, anche se spesso vengono da percorsi del tutto differenti. Il medico psicoterapeuta, certo, per legge, può anche prescrivere farmaci al suo paziente, ma spesso non lo fa, perché le specializzazioni mediche sono ormai così vaste e diversificate, e l’erogazione di farmaci specialistici è talmente regolamentata, anche per esigenze di controllo della spesa pubblica, che di fatto il medico psicoterapeuta, se non è psichiatra, difficilmente si avvale di questa prerogativa. Osteopati e fisioterapisti sembrano occuparsi della stessa cosa, eppure sono professionalità e percorsi del tutto differenti.

    Non è l’atto, non è l’autorizzazione che definisce un professionista, ma i suoi percorsi formativi, il loro riconoscimento entro coordinate condivise, la formazione continua, l’informativa chiara al paziente o cliente, la possibilità di rispondere, davanti a terzi, degli eventuali errori o davanti a reclami.<

    Gli Ordini, anche degli psicologi, potrebbero sostenere e promuovere questa trasformazione verso i percorsi, semplicemente sostenendo l’obbligo di formazione continua, senza difendersene e senza aspettare che ci venga calato dall’alto. Collaborare con i piani ECM, renderli compatibili con la nostra professione, sostenere e incentivare drasticamente l’abolizione dell’Esame di Stato, riassorbire i tirocini dentro il quinquennio formativo, sostenere la differenziazione del percorso triennale rispetto a quello quinquennale, favorendo accordi e percorsi, protocolli e piani formativi con le università, con le associazioni delle altre categorie professionali, regolamentate e non.

    Essi potrebbero incentivare tutte le forme di incremento della qualità e di scoraggiamento del precariato professionale, tramite le assicurazioni obbligatorie, l’iscrizione obbligatoria alla Cassa di Previdenza e Assistenza, la strutturazione delle carriere in termini di incrementi progressivi, misurati con cadenza triennale.

    Insomma, gli Ordini potrebbero apprendere la lezione dai counselore dai pedagogisti, introducendo standard accreditatari dentro il contenitore ordinistico, favorendo la sua trasformazione.<

    In tutti questi anni, la governance della Categoria ha cercato di opporsi in ogni modo a questo processo di ammodernamento; tuttavia, non ha potuto fermare la storia.

    Tutti gli interventi del legislatore, i contenziosi e le vicende a cui abbiamo assistito, se lette con una certa distanza, mostrano che il percorso di europeizzazione è inevitabile ed è andato avanti.

    La legge 4/2013 non è che una di queste tappe.

     

    Il CIPRA, e in generale i professionisti e i loro coordinamenti, possono dare un contributo significativo e prezioso a questo processo, se diventano consapevoli e se costruiscono reti e relazioni reali fra loro, superando le contrapposizioni sterili, valorizzando invece le differenze, coinvolgendo e aiutando, dialogando, con l’Ordine degli Psicologi.

     

    Che senso ha farsi la guerra, fra medici e pittori? Si possono condividere anche quartieri e luoghi di vita in comune, dove però ognuno ha i suoi appartamenti e trovarsi poi a dialogare, scoprendo che anche la medicina è un’arte, e che anche l’arte è una cura, la cura del mondo.

     

    Note

     

    [1] Ringrazio il dott. Roberto Cheloni, psicoanalista, filosofo e giurista, dal quale ho tratto diverse suggestioni per la scrittura di questo testo, fra cui il riferimento alle corporazioni medievali, le citazioni relative ai Decreti di recepimento delle direttive Europee, nonché le considerazioni in merito all’art. 348 del Codice Penale.



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