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  • Giornalismo narrativo
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
    Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia

    M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015



    IL VIAGGIO NECESSARIO: L'OTTOBRE CALDO DELLA TRAGEDIA LAMPEDUSANA

    Samantha Viva

    samanthaviva1@gmail.com
    Giornalista pubblicista dal 2006, laureata in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Catania. Dottore di Ricerca in Italianistica presso l’ex Dipartimento di Filologia Moderna dell’Università di Catania (ora Dipartimento di Scienze Umanistiche). Ha conseguito nel 2012 il Master “Maria Grazia Cutuli” per Inviati in Aree di Crisi, presso la Facoltà Tor Vergata di Roma. Ha collaborato per anni alla cronaca del quotidiano “La Sicilia”, occupandosi di sociale, scuola, cultura e lavoro. Ha al suo attivo esperienze di uffici stampa e dal 2012 si occupa anche di Esteri, seguendo da freelance aree di crisi, quali il Libano e l’Afghanistan. Da docente ha condotto corsi di formazione in Comunicazione e Marketing presso il Ministero dell’Interno e in Comunicazione strategica in Area di Crisi, presso lo Stato Maggiore Difesa.

    Era ottobre. L’ottobre caldo e triste della tragedia lampedusana, del lutto e delle parole. L’ottobre dei 366 cadaveri dei migranti di origine eritrea e dei 150, tra uomini e donne, recuperati e salvati. Non era ancora scoppiato il caso al Centro di Primo Soccorso di Contrada Imbriacola, non era ancora stato chiuso per le docce della vergogna, per i trattamenti da lager con cui i dipendenti della Cooperativa che gestiva il Centro di Primo Soccorso, si prendevano cura dei migranti. Io ero andata lì a vedere cosa restava di quelle vite, e di quelli che continuavano ad arrivare, anche dopo. Lo scopo era realizzare, con un cameraman, un servizio video. Si sarebbe dovuto chiamare “L’Isola nell’isola”, perché avrei raccontato per un noto programma televisivo la tragedia dei migranti e la difficile quotidianità dei lampedusani. Poi la storia è andata in un altro modo, e il mio lavoro è rimasto lì, col girato di una settimana e tantissime storie mai raccontate, di cui mi sentivo garante e ora mi sento responsabile.

    Le storie non sempre riservano un bel finale, però, vale la pena provarci, a viverle così come a raccontarle. Ho conosciuto tantissimi ragazzi, ne ho intervistati altrettanti. Ad esempio Yemanei, Bereket Ghide e Bereket, eritrei di Asmara. Da quando li ho visti sbarcare, in una notte come tante, col mare calmo e le luci stanche, sul molo di Lampedusa, non fanno altro che camminare, non hanno mai smesso dall’inizio di questo viaggio, iniziato mesi fa, e che li aveva portati lì, cercando di capire se anche questa fosse Italia, oppure no. Da Contrada Imbriacola, dove c’era il Centro di Accoglienza, si muovevano a gruppetti. Avevano dei dollari in tasca, ma non potevano cambiarli né usarli, per farlo sarebbero serviti dei documenti di cui non potevano disporre, perché il Viaggio si fa senza documenti, e quando arrivi sai che è meglio non farsi riconoscere, per poter sperare di andare via, fino al Nord Europa. I commercianti accettano solo euro nei bar lampedusani, e i giornalisti spesso, in quei giorni, avevano installato nei bar le loro attrezzature, e con la scusa di pagare un caffè, ascoltavano e filmavano le loro vite.

    I ragazzi non temevano le interviste, volevano capire cosa sarebbe successo adesso, dopo l’arrivo concitato a Lampedusa, insieme ad altri 161 disperati, dopo la traversata di cui tutti chiedono, ma che è solo l’ultima parte del viaggio, “la più facile”, diceva Bereket. Questo è quello che mi hanno raccontato anche i ragazzi che ho intervistato in quei giorni. Seduti al bar, si sorprendevano delle vecchie foto alle pareti: «Sembra una via di Asmara – raccontava Yemanei, che è un maestro elementare e ha 25 anni – e anche la chiesa qui è uguale alla cattedrale della mia città. Le parole che avete sono simili alle nostre, siamo fratelli in molte cose, ma non nel destino», un sorriso ad accompagnare l’ultima frase. Bereket Ghide, suo compagno di viaggio, è un soldato; quando si è rifiutato di caricare dei giovani come lui, durante una protesta, è stato punito, poi l’hanno sospeso dal servizio e portato in un campo lavoro, da lì è scappato: «Ho lasciato mia moglie e le mie due figlie, ma ho promesso che sarei tornato a prenderle». L’altro Bereket, il terzo dei ragazzi che hanno scelto di condividere con me il racconto del “Viaggio”, guarda la strada e ascolta, interviene poco, è un professore di geografia, e vuole tracciare sul foglio ogni tappa della sua esperienza: «Dall’Eritrea siamo arrivati in Etiopia, lì stavamo in un campo profughi, alcuni ci restano sei mesi o tre anni, io sono rimasto solo sei settimane. Sono scappato dal campo e ho viaggiato cinque giorni nascosto su un camion, fino a Khartoum, in Sudan». Nei vari spostamenti lo aiutavano quelli che Bareket chiama “contrabbandieri”, a loro ha pagato ogni tappa del viaggio, e una percentuale fissa, circa 160 dollari, per il “contatto” che ritira i soldi spediti man mano dalle famiglie.


    Meskerem e Samantha Viva

    Per tanti giorni ho sentito parlare di mappe, di progetti, di soldi e di traversate. Mai di paura, la paura in queste storie non trova posto, è una cosa che mettono in conto da bambini, quando qualcuno che ha provato il “Viaggio”, torna per raccontarlo; la paura è per chi non ce la farà, perché non serve; è un bagaglio che non possono permettersi. «Ma non sapete che molti sono morti e sepolti in mezzo al mare?», chiedo quasi con rabbia, e loro: «Certo che lo sappiamo, ma non importa, per tanti che muoiono qualcuno ce la fa». Quando ormai pensavo di aver sentito tutto, all’ennesimo caffè bevuto troppo in fretta, davanti ad un’esistenza frugata come una ladra maldestra, ecco che la noto. È seduta al bar, bella e giovane, è una ragazza di origine eritrea, Meskerem Mehary, che, come avevo già immaginato e come mi confermerà lei stessa, non è arrivata sull’isola da migrante ma da turista. Si nasconde il viso, quasi a schermirsi, e quando mi avvicino e le chiedo se posso sedermi, per un attimo esita, poi mi dice di sì. Comincia a raccontarmi la sua storia e così scopro che i suoi genitori sono partiti dall’Eritrea tanti anni fa, quando ancora lasciare il paese non era così difficile e si sono trasferiti in America, in cerca di un futuro migliore. Il loro tenore di vita era già alto, essendo il padre un ingegnere, e le due figlie, Meskerem e la sorella, avevano potuto frequentare scuole prestigiose, fino all’idea di studiare design a Londra. Negli anni Meskerem era tornata spesso in Eritrea per visitare i parenti e lì aveva mantenuto i contatti anche con gli amici d’infanzia, che non erano stati così fortunati da poter andar via. Così, quel tragico giorno di ottobre, quando tutti i telegiornali si erano accorti della tragedia che ripetutamente portava con sé, in fondo al mare, le vite di chi la Storia non la subisce ma la affronta, solo per il numero sproporzionato che i fondali avevano inghiottito, proprio ad un passo dalla spiaggia, proprio lì a pochi metri dalla salvezza, questa ragazza eritrea-americana-inglese, aveva visto per caso, dalla tv della camera del suo college costoso, in Inghilterra, i volti di alcuni amici, tra i dispersi, riconoscendoli tra le foto diffuse, mentre alcuni altri le erano apparsi stremati e infreddoliti dal plasma, quasi irriconoscibili, tra i migranti superstiti, sbarcati a Lampedusa.

    Non ci aveva pensato un attimo, Meskerem, aveva prenotato un volo da Londra ed era partita, senza nemmeno avvisare i genitori. In quei giorni lampedusani Meskerem faceva un po’ da tramite, tra gli amici e le loro famiglie, i bisogni e le necessità. Li incontrava tutti in un bar, e in quello stesso bar l’ho notata anche io, e ho deciso di capire chi fosse e cosa facesse in quel limbo estremo di sud. Alcuni uomini dei servizi, in borghese, si aggiravano spesso tra i tavolini, conducendo delle indagini, per così dire parallele; proprio uno di questi mi aveva confessato che inizialmente avevano scambiato la ragazza per una spia del Governo eritreo. Non ne mancavano infatti, mischiati tra gli altri turisti, di spie. Ascoltavano i racconti di chi era sbarcato, per poter poi inviare nome e cognome ai parenti. Scoppiò anche un piccolo scandalo al funerale delle vittime, celebrato senza rito musulmano, ma con gli onori dei nostri politici, cosa di cui l’Imam delle Comunità di Sicilia, in quei giorni a Lampedusa, aveva già fatto notare la gravità, perché tra i vari politici in bella mostra, non si disdegnarono nemmeno di mandare un invito ad un rappresentante del governo eritreo; poco importa se da quel governo quei disperati erano appunto scappati, trovando la morte in mare e la beffa in terra.

    Ma Maskerem non era una spia, solo una giovane ragazza ingenua, convinta che se hai avuto la fortuna di nascere e crescere in una famiglia che guadagna più del corrispettivo di una confezione di zucchero, che più o meno è quello che possono permettersi al supermercato le famiglie di molti migranti, devi fare qualcosa per i tuoi amici. Aveva messo su una sorta di mini associazione umanitaria in quei giorni, coinvolgendo altri giovani eritrei che vivevano in Europa, ed era già al suo secondo viaggio a Lampedusa quando l’ho incontrata io. Dopo quel giorno l’ho sentita un paio di volte e poi un giorno, improvvisamente, il suo cellulare è rimasto muto, disattivato. Probabilmente la sua famiglia ha deciso di farla rientrare in America, oppure il peso di quello che è successo ai suoi amici, e di quello che non è riuscita a fare per gli altri, le è piombato addosso di colpo, facendola optare per una fuga e nessuna spiegazione. Da facebook ho appreso che sta bene, che si è laureata, che è tornata negli Stati Uniti. Le foto del suo profilo parlano di una vita normale, e sono felice per lei, per i suoi 19 anni ritrovati, lontani da un orrore troppo grande da sopportare. Le ho chiesto di contattarmi, per poterla ringraziare del suo racconto, ma non mi ha mai risposto.

    Tutte le storie che ho raccolto in quei giorni sono accomunate da un unico filo: il dopo. Mi interessa di più il dopo, perché l’onda emotiva lascia il posto alla riflessione, alla ricerca dei perché, alle domande che nessuno riesce mai a porsi in tempo. Il “prima” non piace agli editori. Il dopo è fare i conti con la verità, senza il peso dell’emozione e dell’istinto, ma a volte, il dopo significa anche saper lasciare andare, poter dimenticare, morire un po’ per continuare a vivere. Quando raccontiamo una storia è come se la trattenessimo in un eterno presente, un presente che dura appena un giorno, il tempo di leggerla ed è già passata. Non ci curiamo quasi mai di quello che succederà oltre quel presente, non riusciamo ad immaginare cosa possa esserci dopo. Maskerem ha pensato, quel giorno al bar, che in uno di quei barconi avrebbe potuto esserci lei, avrebbe potuto non vedere mai l’America, avrebbe potuto non avere desideri da realizzare e un dopo a cui aspirare, che sapesse di colori e di arte; ma lei aveva il suo dopo, e a quello è ritornata, con dolore, con sofferenza. Il suo era pur sempre un Viaggio, ma con un altro finale.



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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