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  • Giornalismo narrativo
    Orazio Maria Valastro - Rossella Jannello (a cura di)
    Numero monografico pubblicato con il Patrocinio dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia

    M@gm@ vol.13 n.1 Gennaio-Aprile 2015



    DONNE: LA LIBERTÀ SOFFERTA

    Pinella Leocata

    p.leocata@lasicilia.it
    Giornalista professionista. Laureata in Scienze Politiche con indirizzo sociologico a Catania, master biennale in «Giornalismo e comunicazione di massa» alla Luiss di Roma. Ha lavorato al quotidiano «Il Messaggero» di Roma, al settimanale «Epoca» della Mondadori, a Milano, e alla Rai nel programma «Spot» di Enzo Biagi. Ha collaborato con i quotidiani milanesi «Il Corriere della Sera» e «La Notte». Nel 1987 è stata assunta al quotidiano «La Sicilia» dove lavora tutt’ora come cronista. Tra le tante iniziative intraprese in questi lunghi anni la collaborazione con Antonio Presti, presidente di Fiumara D’Arte, con cui ha programmato e guidato il «Grand tour di Sicilia. Viaggio a Librino» con gli scrittori Paco Taibo II, Jonathan Coe, Meir Shalev, Rachid Boudjedra, Sergej Bolmat, Hernàn Letelier, Amiata Traorè e Danielle Mitterand. Ha tenuto anche alcuni corsi di scrittura giornalistica alla facoltà di Lettere e al Cnr di Catania.

    Esito. Guardo le loro guance piene, gli occhi spalancati, l’espressione attenta, e non riesco a parlare. Non so da dove cominciare. Mi chiedo se sia opportuno farlo. Come faccio a raccontare di Lorena Cultraro a questi ragazzi imberbi e a queste ragazze dall’espressione dolce e seria? Come faccio a dire che è stata violentata e massacrata da tre compagni di scuola? In Sicilia, a Niscemi, a pochi chilometri da qui, da questa scuola catanese, la Dante Alighieri, le cui docenti mi hanno invitata a parlare di femminicidio agli allievi delle ultime classi delle medie. Aveva la loro età.

    Per prepararmi all’incontro ho fatto una ricerca d’archivio. Sono tante, negli ultimi anni, le ragazze e le donne ammazzate in Sicilia per mano dei loro compagni. Casi diversi, eppure simili, perché uguale è il movente della violenza: l’incapacità di accettare le decisioni della partner e, soprattutto, la sua volontà di sottrarsi ad una relazione diventata insopportabile, spesso proprio a causa della volontà di dominio del coniuge, del fidanzato, dell’amante. L’incapacità, dunque, di rispettare la libertà della donna, la sua autonomia, il suo diritto a decidere di sé.

    Ho tante storie, tante vite, da raccontare, perché i ragazzi possano capire da quali profonde insicurezze scaturisce tanta violenza e in quali modelli culturali e stereotipi affonda le sue radici, ma è da Lorena Cultraro che devo partire, perché aveva la loro età, era una ragazzina come loro, eppure è stata trucidata da «bravi» ragazzi che avrebbero potuto confondersi con questi che adesso attendono che cominci a parlare.

    Guardo le insegnanti che siedono tra i propri allievi, le mamme - e qualche papà - che hanno voluto condividere questo percorso di consapevolezza. Mi dico che sono stati loro a proporre il tema dell’incontro, che ne hanno valutato il possibile impatto emotivo. Attacco.

    Lorena Cultraro scompare il 30 aprile del 2008. Dopo la scuola. Sarebbe dovuta andare dalla nonna, come faceva ogni pomeriggio per darle una mano, scambiare quattro chiacchiere, e chiederle qualche soldo. Ma dalla nonna, quel giorno, non arriva. Scomparsa, come nel nulla. Le ricerche cominciano senza impegno. Voci incontrollate - e ce ne sono sempre in questi casi - malignano di un quarantenne con cui la ragazza aveva una relazione. «La fuga d’amore di un’adolescente», dicono e scrivono. Ma la nonna s’infuria. Falso, assurdo, ripete a tutti. Lorena indossava ancora i vestiti di scuola e non aveva con sé né soldi né un cambio. «Cercatela, cercatela bene, e subito», invoca. Lei sa che la nipote non si è allontanata volontariamente, e teme che sia successo qualcosa di brutto.

    I genitori, invece, non escludono che la figlia abbia fatto una ragazzata, vogliono pensarlo perché questa è l’ipotesi più rassicurante, quella che prevede un ritorno. «Torna a casa. Anche se hai fatto qualche sciocchezza non ti preoccupare. Ti accoglieremo a braccia aperte», le dicono dallo schermo di «Chi l’ha visto?» cui si sono rivolti, come tutti i parenti di chi scompare. Due facce pulite: la mamma casalinga e il papà imbianchino, disoccupato, vigile del fuoco volontario nella stagione secca.

    Il passaggio in video è del 12 maggio e, a questo punto, passati ormai tanti giorni e sotto il pungolo dell’opinione pubblica, si comincia ad indagare sul serio: nelle campagne e nei laghetti vicino Niscemi. Sono mobilitati carabinieri, cani e persino speleologi e sommozzatori. Ma non saranno loro a trovare Lorena il giorno dopo. È un agricoltore - andato a prendere dell’acqua per irrigare le proprie piante - che ne scopre il corpo in una cisterna in contrada Valle Giummarra, a pochi chilometri dal centro urbano. Galleggiava supino, con una corda attorcigliata alla vita e legata ad un grosso sasso, nel tentativo di non farlo risalire dal fondo. Lorena è stata strangolata e data alle fiamme: ha il ventre bruciato. Ci sono dei sospetti, degli indiziati.

    Appena un giorno e gli inquirenti accertano la verità, agghiacciante. Lorena, timida e vivace, Lorena che si sentiva esclusa dagli altri e faceva di tutto per farsi accettare, è stata uccisa da tre «amici», da tre ragazzi minorenni con cui aveva avuto dei rapporti sessuali. Il giorno della scomparsa li aveva cercati per accusarli: era incinta di uno di loro. La reazione era stata immediata. Il capobranco aveva inviato un sms ai due amici: «Dobbiamo ucciderla». E così hanno fatto attirandola in un casolare con la scusa di discutere del problema. Ma prima di ammazzarla ne hanno abusato ancora una volta. Poi la corda da elettricista al collo, e il fuoco al ventre nel tentativo di cancellare ogni eventuale traccia di una gravidanza. Bruciati anche i vestiti e il cellulare. Infine l’hanno trascinata alla cisterna. «Volevamo evitare problemi con le nostre ragazze», hanno spiegato quando, inchiodati dalle intercettazioni predisposte dall’autorità giudiziaria, sono stati inchiodati alle loro responsabilità.

    Nel salone-teatro della scuola il silenzio è così spesso che credo di sentire il ritmo inquieto del respiro dei ragazzi. Continuo.

    Tempo dopo - racconto - mi capitò di domandare alla direttrice dell’istituto penale minorile di Bicocca, a Catania, dove i giovani assassini erano stati portati dopo l’arresto, come trascorressero le loro giornate in carcere, se fossero tormentati dal ricordo e dal rimorso di quello che avevano fatto. La risposta mi lasciò senza parole. «I primi tempi non facevano che domandare quando li avremmo lasciati andare via: pensavano di tornare subito a casa, come nulla fosse». Ragazzi inconsapevoli dell’orrore di cui erano stati artefici. Sono restati nel carcere di Catania fino al compimento dei 18 anni. Per loro la direzione non ha chiesto che rimanessero a scontare la pena tra i minori fino ai 21 anni, come pure è possibile per legge. «Non era educativo. I responsabili di reati sessuali sono separati dagli altri, per evitare che siano oggetto di violenza. Stavano sempre soli, senza poter partecipare ai progetti comuni. Meglio, per loro, andare in carceri dove sono previste sezioni speciali per questi reati». E di nuovo mi sono domandata quale crescita, quali cambiamenti si possano conseguire confrontandosi solo con altri violentatori, con altri assassini.

    Parlo e il silenzio è assoluto. I ragazzi e le ragazze sono come impietriti. Non avrei dovuto accettare l’invito. Temo di avere sbagliato, che lo choc sia troppo forte per loro. Poi mi dico che di questo caso hanno parlato tutti i giornali e i telegiornali, che in televisione il racconto degli assassini di donne si sussegue a ritmo vertiginoso, seguendo quello della realtà, e che le scene di violenza e di sesso sono ormai abituali in tv e nella pubblicità. Per questo le docenti vogliono parlarne a scuola, perché i ragazzi capiscano, reagiscano, siano guidati.

    Riprendo a raccontare.

    Pochi mesi dopo l’assassinio di Lorena Cultraro, il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è da Niscemi che parte la campagna dell’Udi «Stop al «femminicidio», la prima in Italia. Qui, nel paese dove una ragazzina di 14 anni è stata trucidata da tre «bravi ragazzi», è scattata la reazione delle donne italiane contro l’oscena catena di assassini perpetrati da mariti, padri, partner. Le donne hanno detto basta. E l’hanno detto in nome di Lorena e delle altre sue giovanissime compagne di sventura, come Hiina Saleem, pakistana, uccisa a Brescia due anni prima, l’11 agosto 2006, a vent’anni, dal padre e dagli zii, che poi l’hanno sotterrata nel giardino di casa. Massacrata perché «aveva abitudini troppo occidentali», perché voleva scegliere la propria vita, non farsela imporre, così come la maggior parte delle donne uccise prima e dopo di lei con una frequenza agghiacciante, una ogni tre giorni, in Italia, negli ultimi anni.


    Partenza ufficiale della Staffetta di donne contro la violenza sulle donne - Consegna dell’anfora testimone della staffetta da parte di una delegazione nazionale dell’UDI (Unione donne in Italia) alle donne di Niscemi in Sicilia - 25 novembre 2008, Istituto Leonardo da Vinci, Niscemi

    E se possiamo darne conto, oggi, è perché abbiamo cercato le parole per dirlo, per non nascondere questi assassini di genere tra le tanti morti violente che si verificano ogni anno. E questa parola è «femminicidio».

    Racconto ai ragazzi che la prima volta che l’ho utilizzata nel mio lavoro, proprio per la campagna dell’Udi partita da Niscemi, i miei capi hanno protestato e i miei colleghi, donne incluse, mi hanno derisa. «Non puoi usarla. È una parola che non esiste in italiano ed è un termine orribile». E invece andava usata perché le parole delineano i fatti e nel farlo creano consapevolezza, coscienza. Ora, a distanza di anni, questo termine è entrato nel lessico condiviso e fa parte dell’impegno e delle battaglie per l’autodeterminazione delle donne e, dunque, del contrasto alla più radicale delle violenze di genere: il femminicidio, appunto.

    Una violenza estrema che ha origini lontane e che si manifesta già dal linguaggio che nega la differenza, disconoscendo ruolo e pari dignità alle donne. Per questo m’impunto ogni volta che cercano d’impedirmi di scrivere ministra, avvocata, assessora. «Devi usare il termine al maschile, perché è al ruolo che facciamo riferimento. E poi suonano male». E invece no, è la lingua italiana che prevede l’uso del femminile e del maschile, e se finora abbiamo declinato alcune parole solo in un genere è perché alle donne era impedito di ricoprire questi ruoli. Se poi le concordanze sembrano strane è soltanto perché non ci siamo abituati. Basti pensare che i nostri nonni e i nostri genitori, nella «Salve Regina», invocavano la Madonna come «Avvocata nostra», e nessuno ha mai protestato. La violenza patriarcale si manifesta anche nella negazione della doppia discendenza di ogni persona, paterna e materna, mentre la legge ci obbliga ancora ad assumere solo il cognome del padre, cancellando la discendenza della madre, come se fosse irrilevante. Una violenza incrementata dalla pubblicità sessista che mercifica la donna, e il suo corpo, proponendola come mero oggetto da usare, fino allo stupro. Una violenza che si alimenta della svalutazione delle donne nella sfera privata come in quella pubblica che le relega in ruoli subalterni e gregari.

    Concetti, parole, problemi oggetto di confronto e di scontro quel 25 novembre 2008, a pochi mesi dall’assassino di Lorena, al liceo Leonardo da Vinci di Niscemi da dove ha preso avvio la carovana dell’Udi contro il femminicidio. Una carovana che poi ha risalito tutta l’Italia fino a Brescia, la città dove Hiina ha vissuto e dove è stata trucidata. Emblema di questa processione laica, segnata dal dolore e dalla ribellione, un’anfora di terracotta, impreziosita dal colore dell’oro e segnata dagli antichi segni della dea madre, le spirali delle mammelle e del ventre e il taglio del pube. La forma di un corpo di donna fatta della materia del quotidiano. In quest’anfora - simbolo mediterraneo di un’età preistorica quando la rappresentazione del corpo nudo non era pornografia e incitamento alla sopraffazione, ma ne esprimeva la sacralità - le ragazze delle scuole di tutta Italia hanno deposto un loro pensiero, hanno affidato il racconto di un cammino di dolore e di speranza. Quasi che questo utero d’argilla, all’opposto del vaso di Pandora, potesse accogliere il male per eliminarlo. Un rito - questo del ritorno all’origine di tutto, al materno, al femminile - che arriva a conclusione di un confronto serrato in cui le donne dell’Udi, come in seguito quelle di tante associazioni, invitano le ragazze a prendere in mano la propria vita, a progettare, a desiderare, a impegnarsi in politica, perché bisogna interloquire con le istituzioni per cambiare le leggi e per fare applicare quelle che ci sono. Un impegno da portare avanti insieme, donne e uomini, ragazze e ragazzi, modificando i rapporti reciproci, liberandoli dalle gabbie soffocanti e mortifere degli stereotipi.


    Una delegazione siciliana dell'UDI (Unione donne in Italia) consegna l'anfora testimone della staffetta alle donne di Reggio Calabria (10 gennaio 2009) - La Staffetta di donne contro la violenza sulle donne prosegue per le regioni dell'Italia e arriverà a Brescia il 25 novembre del 2009

    Ai ragazzi e alle ragazze che mi stanno ad ascoltare dico che il «femminicidio» e la violenza contro le donne è soprattutto una questione maschile: sono gli uomini a fare violenza, che è fisica, sessuale, verbale, psicologica, economica. E la fanno perché i modelli cui sono educati sono modelli improntati al potere, modelli di cui bisogna imparare a liberarsi. La strage delle donne è strettamente correlata alla loro maggiore autonomia, ad una conquistata libertà che i maschi non sanno accettare e alla quale reagiscono con sempre maggiore aggressività. Sempre più spesso gli uomini uccidono le fidanzate, le mogli, le compagne, le figlie perché non accettano che abbiano interessi e attività autonome, perché sono gelosi e insicuri, perché non reggono l’abbandono e la separazione. Perché sono fragili, dunque. Fragili, non forti. E se il problema è questo, va affrontato soprattutto dal punto di vista culturale, perché culturale è il modello da cui questi comportamenti scaturiscono.

    «Il modello per cui - come sostiene la storica e femminista Emma Baeri - gli uomini nelle donne cercano la madre. E se tua madre ti lascia, ti uccide. In questo modello gli uomini hanno interiorizzato una relazione con l’altra che ne nega l’identità, una relazione proprietaria nella quale si ripresenta il fantasma ancestrale della madre che dà la vita e la morte». Per questo, più che l’informazione sessuale, pure importante, per i giovani è necessaria un’educazione sentimentale che insegni a vedere il partner come altro da sé e a rispettarlo. «In questo senso il rapporto uomo-donna è il paradigma che include tutte le diversità, di colore, di cultura, di religione. Per questo bisogna educare i bambini e i ragazzi al rispetto dell’altro e bisogna farlo nei luoghi in cui si produce cultura, a partire dall’asilo, dalla scuola».



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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