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  • Uno sguardo sistemico sull'interculturalità
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.11 n.3 Settembre-Dicembre 2013

    DIALOGO TRA GLI ORATORI



    Giuseppe Cardamone

    cardamone@ala.it
    Medico Psichiatra, Etnopsichiatra, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’azienda USL 9 di Grosseto.

    Cecilia Edelstein

    cecilia@shinui.it
    Social worker, Psicologa e Terapeuta familiare, Counselor ed esponente dell’approccio sistemico pluralista. Presidente dell’Associazione Shinui, Centro di Consulenza sulla Relazione. Responsabile scientifica e docente del Corso di Counseling, Mediazione e Terapie Interculturali, è Collaboratore Scientifico dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, membro del Comitato Scientifico della rivista elettronica m@gm@ e del Comitato Scientifico della Collana dei Quaderni di m@gm@, pubblicata da Aracne Editrice.

    Salvatore Inglese

    inglese54@gmail.com
    Medico Psichiatra, Etnopsichiatra, dirige il Modulo Transculturale del Centro di Salute Mentale dell’ASL di Catanzaro, collabora con il Centre Devereux di Parigi. Docente del Corso di Counseling, Mediazione e Terapie Interculturali.

    Natale Losi

    natalelosi@gmail.com
    Psicoterapeuta sistemico e transculturale, direttore della Scuola di psicoterapia Etno-Sistemico-Narrativa di Roma. É docente del Corso di Counseling e Terapie Interculturali.

    Caterina Mattea

    caterina.mattea@fastwebnet.it
    Laurea in Filosofia e successivamente in Psicologia. Iscrizione all’Albo degli Psicologi della Lombardia. Membro dell’équipe clinica del Centro Shinui e coordinatrice della supervisione dei tirocinanti esterni e dei progetti di counseling sul territorio. Ampia esperienza in ricerca di mercato e Counseling Aziendale, specializzata in etnopsichiatria presso il Centro Devereux.

    Caterina Mattea: In ambito interculturale e nel lavoro clinico con i migranti è da anni che il dispositivo etnopsichiatrico sviluppato a Parigi, inizialmente al Centre Deveureux, viene seguito da colleghi italiani. Da sempre nel corso di counseling e terapie interculturali abbiano dedicato uno spazio a questo approccio per offrire agli allievi uno sguardo più ampio che vada oltre l’approccio sistemico pluralista e che consenta un dialogo fra i due. Per questo abbiamo invitato al convegno i docenti del corso legati a questa metodica. Vorrei aprire la tavola rotonda, costituita quindi da professionisti che vengono considerati in Italia esponenti del dispositivo etnopsichiatrico, chiedendo quali sono oggi i debiti e le evoluzioni dell’etnopsichiatria, in cosa ancora si sente il suo effetto e cosa rimane vivo, anche più concretamente nella pratica di lavoro.

    Giuseppe Cardamone: Esordisco indicandovi la mia esatta collocazione professionale: faccio lo psichiatra e non mi sono mai definito etnopsichiatra, anche se ho la passione per l’Etnopsichiatria. Lavoro da oltre ventisei anni e ho iniziato ad occuparmi di questi temi a metà degli anni Ottanta.

    Mi sono formato in un’Università del sud, per la precisione a Napoli. In quegli anni, molti nostri connazionali tornavano da migrazioni, a volte fallite, generando il cosiddetto fenomeno della “migrazione di ritorno”. L’oggetto della mia tesi di laurea verteva su questo argomento e, da allora, sono rimasto molto legato a queste tematiche che ho continuato ad esplorare da un vertice osservativo particolare, dal momento che, per una fortunata vicenda professionale, ho lavorato sempre nel servizio pubblico.

    Vi esporrò, quindi, la mia personale testimonianza di operatore del servizio pubblico. Partiamo da alcune questioni di carattere storico: nel nostro Paese, di fatto, il volontariato (detto anche Terzo Settore) sia laico che religioso (laico nel caso di Shinui, religioso nel caso della Caritas o di altri enti religiosi), ha svolto un’attività di supplenza fondamentale per l’accoglienza e per la reciprocità, nei confronti di tutte le numerose popolazioni migranti arrivate in Italia dalla seconda metà degli anni Ottanta.

    In questa cornice storica si inserisce il mio contributo critico e dialettico. Il mio attuale ruolo professionale e istituzionale di responsabile di un sistema di cura impegnativo, come il Dipartimento di Salute Mentale, mi permette di fornire alcuni elementi di consenso entro cui inserire all’interno delle attività del Dipartimento la questione della salute mentale dei migranti.

    Credo che per il nostro lavoro con i migranti ci siano tre paletti imprescindibili: il primo paletto è che, per affrontare il tema della salute dei migranti, bisogna essere disposti a una critica inesausta degli apparati disciplinari consolidati che vengono adoperati ormai da anni, anche nel trattamento dei migranti stessi. Questa mia considerazione colpisce l’attuale organizzazione dei servizi socio-sanitari, l’architettura del sistema che abbiamo di fronte, nonché i costrutti conoscitivi dei centri di sapere e di consenso, frequentati dalla comunità scientifica o dalle corporazioni professionali. Invito quindi a diffidare del fatto che i nostri saperi, anche quelli delle discipline psicologiche e più culturalmente sensibili, siano in grado di poter cogliere queste realtà altre, pur mantenendo continuamente un atteggiamento di critica. Tale atteggiamento appartiene a coloro che hanno fatto, in maniera mirabile, la rivoluzione psichiatrica in Italia, ovvero la deistituzionalizzazione. Questo processo ha riguardato il nostro Paese e continua a riguardarlo ancora oggi, anche dopo aver superato il concetto di ospedale psichiatrico, a causa del crearsi di nuove istituzioni, fra le quali anche alcuni servizi di salute mentale.

    Il secondo paletto, invece, consiste nella ridefinizione della genesi della sofferenza individuale, o meglio, della posizione dell’individuo sofferente e del riconoscimento delle sue forze. Elemento in comune con la presentazione fatta da Cecilia Edelstein è la definizione e lo statuto della sofferenza come risultante dell'interazione, delle pressioni esercitate, attraverso le quali il nostro stesso mondo si affaccia e avanza, interrogando e modificando non soltanto i dispositivi clinici, ma anche la visione che il soggetto ha di sé, degli altri e del contesto ospitante. Una delle questioni fondamentali è che, mentre noi cerchiamo di aiutare i migranti, anche loro cercano di aiutare noi. E mentre noi cerchiamo di capirli, anche loro cercano di capirci.

    Questa necessità epistemologica diventa un elemento fondamentale per effettuare un terzo passaggio: il terzo paletto. Esso consiste nel provare a superare i nostri dispositivi tradizionali occidentali nella dimensione clinica; cosa che, in qualche modo, l’approccio sistemico ha già fatto da tempo, ma che tuttavia nel campo della salute mentale dei migranti viene gestita dal mediatore, necessario per il transito verso nuovi processi di negoziazione tecnica e culturale. Figura, quella del mediatore, non riconducibile né al facilitatore linguistico, né al conoscitore delle lingue veicolari, ma al clinico che eventualmente conosce più lingue e che può utilizzarle nell’interazione clinica.

    Di seguito prenderò in considerazione quattro aree di ricerca, rispetto alle quali mi trovo d’accordo con quanto detto da Cecilia Edelstein e che riguardano ciò che cerco di fare da anni nei contesti pubblici. Per esempio, in questo momento ho un incarico da parte della Regione Toscana nel tentativo di facilitare le prese in carico delle persone richiedenti asilo. L’impresa è di per sé titanica, anche perché una delle risposte più frequenti che ottengo dai miei colleghi dei Dipartimenti di Salute Mentale è: «Abbiamo i nostri; perché dobbiamo prendere quegli altri?». Questa obiezione, apparentemente volgare, acquista senso se collocata all’interno della fase storica in cui si trovano i servizi per la salute mentale in Italia: una fase di progressiva regressione verso un modello sempre meno aperto alla dimensione comunitaria. Per me questa è una questione centrale nel lavoro con i migranti, poiché rappresenta la possibilità di aprire dei tavoli d’incontro con i contesti associativi che li rappresentano. Tavoli che ogni servizio ha il dovere di aprire, perché sono la base su cui costruire delle reti di lavoro concrete.

    Per esempio, nel mio contesto di lavoro, esiste un tavolo permanente che lavora su come distinguere le problematiche di salute mentale dei migranti dalle necessità di cura psichiatrica degli stessi. È una prima operazione, banale, ma fondamentale: mai cadere nell’errore di far coincidere i problemi di salute mentale con i problemi psichiatrici di una minoranza o di una maggioranza. Sono due cose estremamente differenti. Infatti, nell’ottica della Sanità Pubblica, questo è un elemento decisivo anche per evitare stigmatizzazioni e, soprattutto, sanitarizzazioni eccessive.
    Espongo qui di seguito le quattro aree di possibile ricerca, nonché agenda di lavoro, per i prossimi anni. Enuncerò alcuni progetti in divenire, pertanto potenzialmente modificabili, soprattutto in base ai modelli di welfare, che l’Italia adotterà. E’ necessario, infatti, avere consapevolezza del fatto che i continui tagli al welfare sortiscono effetti di progressiva e inevitabile crisi del sistema di cura, fino ad arrivare a una totale assenza di welfare.
    La prima area di ricerca consiste nel provare a ragionare in maniera complessiva e sistemica (aggettivo che reputo adatto al campo della salute mentale dei migranti). Qualunque intervento terapeutico deve discendere da un tipo di osservazione che impedisca di pensare alla persona con problemi di salute mentale in funzione di categorie precostituite, che agiscono come qualcosa di cui siamo a conoscenza. Tuttavia, esse non solo sono fallaci, ma ci deviano da tutt’altra parte.

    Quindi un’area fondamentale di riflessione e ricerca continue deve riguardare il modo in cui avviene la dinamica dell’osservazione. Anche in questo vedo un punto in comune con quanto detto da Cecilia Edelstein, soprattutto all’interno di una necessaria sensibilità al contesto dell’osservazione, che non sempre nei servizi pubblici è presente. A questo punto vengo alla proposta di tipo dialettico. Penso che un servizio di privato sociale abbia senso se situato all’interno di una collaborazione forte con un contesto pubblico eticamente all’altezza, in termini di etica del fare. Questo tipo di collaborazione pubblico/privato deve misurarsi con diversi problemi: la capacità di costruire azioni, tavoli e pratiche, di interrogare, di porre le domande giuste. In caso contrario il territorio diventa una parola assolutamente priva di senso e di significato.

    La seconda area di ricerca, su cui da anni mi confronto con Salvatore Inglese, riguarda laquestione della postura dell’osservatore: l’osservatore deve impegnarsi nel sistema di cura in cui lavora, nel riesame critico dei modelli di funzionamento mentale adottati nella sua pratica clinica. Ciò richiede un lavoro approfondito di decostruzione delle categorie che hanno fissato il modo di concepire l’oggetto di studio, ma anche di riscoperta di tutte quelle archeologie dei saperi. La postura dell’osservatore non è tuttavia da confondere con la dinamica dell’osservatore: essa, infatti, si riferisce alla possibilità di lavorare mantenendo quell’atteggiamento di apertura degli apparati disciplinari, rendendolo però cogente all’interazione operatoria e operativa.

    La terza area di ricerca riguarda il provare a costruire delle analisi attente e cogenti delle tecniche operative, cioè delle pratiche. Sostanzialmente, la scena clinica deve dirigere la propria attenzione sulle azioni del terapeuta, o del supporto operativo, e non sulla pretesa dell’essenza del soggetto, né sulla sostanza della patologia. Essa deve invece occuparsi dei sistemi terapeutici, degli oggetti attivi, delle logiche tecniche, di tutto ciò che contribuisce a costituire quello specifico individuo, che in qualche modo ci accade di incontrare. Bisogna cioè capire come funziona la “fabbricazione culturale”. E’ questo ciò di cui ci interessa parlare non solo quando incontriamo i migranti, ma anche persone provenienti da un altro Paese.

    Infine, la quarta area di ricerca, su cui vedo un ulteriore punto di contatto con quanto detto da Cecilia Edelstein, è la co-emergenza individuo/gruppo sociale o culturale. Co-emergenza significa che la scena clinica non è occupata dal solo paziente, poiché in essa viene presentato anche il suo gruppo di appartenenza insieme alle articolazioni, che chiamiamo strutturabili, e alle strutturazioni funzionali del suo sistema di appartenenza sociale.

    Credo che questa nostra modalità di lavoro, tra l’altro attiva nei servizi pubblici di buona parte della Toscana come Firenze, Prato, Grosseto, Lucca e Arezzo, sia sostanzialmente una moltiplicazione di soggettualità; tale modalità va nella direzione di far sì che la co-emergenza dell’individuo/gruppo sociale/culturale sia fattiva e riconoscibile dagli operatori. I nostri servizi, infatti, devono assolutamente essere attrezzati per gestire le gruppalità.

    Concludendo, la necessità di rifondare alcune pratiche cliniche, a partire dall’occasione che fornisce l’incontro con i migranti, ci permette di ragionare in questi termini senza il maglio della costrizione e della necessità di innovare, soprattutto perché privi di una tradizione coloniale. Come sostiene Edgar Morin, «l’innovazione è una conservazione che camuffa la realtà. E’ una conservazione filtrata». Il mio invito, soprattutto poiché siamo fuori da una tradizione coloniale, è quello di essere tutti disponibili a ragionare insieme su come fare.

    Salvatore Inglese: L’Italia ha una peculiare tradizione coloniale che ha determinato il modo stesso della sua fondazione unitaria, e questo non va dimenticato: dal 1860 essa si è lanciata in una campagna di unificazione nazionale e ha annesso, per mano militare, l’area mediterranea del territorio peninsulare. Per questa ragione storica i discendenti di quella prima colonizzazione, quando si impegnano nell'esercizio critico di un pensiero fondato sulla pratica clinica e sociale, possono occupare un autentico vertice di competenza da cui comprendere e descrivere i fenomeni del passato prossimo e del futuro imminente, prendendo finalmente la parola in quanto soggetti subalterni ma immuni da desideri egemonici.

    Oggi dobbiamo interrogarci sul termine “migrazione internazionale”, chiedendoci se esso conservi ancora un'energia euristica o se non bisognerebbe procedere alla sua sostituzione per poter capire meglio le strategie complesse (demografiche, culturali) dei popoli che si proiettano in contesti geopolitici diversi dai propri.

    Facciamo l’esempio degli esodati: per poter classificare sociologicamente e giuridicamente un fenomeno del tutto peculiare si deve impiegare un emblema, utilizzare una parola simbolica che richiama l’allontanamento, lo sradicamento di molte persone dal loro luogo d’origine, per trovarsi poi gettati in una sorta di terra di mezzo identificata da caratteristiche privative o negative, difettuali, all'interno della quale si consumano drammi personali e collettivi, spesso silenziosi e puntualmente esiziali.

    Se la migrazione globalizzata del pianeta diventa il marchio fondamentale e generalizzato dell’umanità di questo Terzo Millennio, essa non può più essere assunta come un fenomeno sociologico contingente di cui rintracciare il possibile significato - l'effetto - su scala meramente individuale o di piccolo gruppo (es., famiglia, minoranze demografiche, strati sociali in sofferenza che, prima o poi, si emanciperanno dalla condizione iniziale di bisogno materiale). Essa riguarda intere popolazioni in movimento lungo un ampio arco temporale (un'epoca piuttosto che una fase cronologica) e all'interno di uno spazio geoculturale illimitato (coincidente con il mondo stesso - tendenzialmente aperto - piuttosto che con un territorio confinato).

    Se trattiamo la migrazione in quanto fenomeno individuale (come si tende a fare quando si incontra uno specifico migrante ben individuato), trasformiamo quell'individuo in una cosa inerte, un atomo sociale esodato (sganciato) dal reticolo delle sue appartenenze, separato (alienato) dalla propria dinamica storica costitutiva. In realtà, quando incontriamo un migrante non interagiamo con un individuo desocializzato e deculturato, ma siamo ammessi al cospetto di un’umanità del tutto diversa dalla nostra, costruita secondo i canoni propri di un  determinato mondo di provenienza.

    Le fabbricazioni culturali (a cui, giustamente, si riferisce Cardamone nel suo intervento) agiscono sul nucleo biologico dell’umano per concedere all’uomo di emanciparsi da una condizione di finitezza e diventare una soggettività in grado di concepire e di abbracciare l'infinito. Si pensi all’invenzione della lingua: le lingue ci permettono di pensare l’infinito, di articolarlo secondo rappresentazioni e pratiche sociali in costante mutamento, cosa che nessuna specie animale, utilizzando codici non linguistici, è capace di fare, riuscendo a determinarsi solo dentro uno spettro limitato di possibilità adattive ed evolutive.

    Il termine etnopsichiatria venne introdotto in Europa da Georges Devereux, che fece uso di tale concetto al riparo dall’insulto coloniale, proprio perché egli stesso era un migrante, un subalterno; il termine, da lui impiegato per indicare una metodologia interattiva piuttosto che una disciplina, proviene dall’Haiti creola, abbacinante e oscura, conosciuta nel corso del suo incessante pellegrinaggio scientifico e personale. Questa isola - un crocevia di culture in movimento, o deportate, e un intreccio irrisolvibile di storie e di Storia - pensa se stessa come un decisivo centro spirituale del mondo. Si potrebbe quindi affermare che il termine etnopsichiatria, in qualche modo, è terribile poiché esprime l’arroganza di una soggettività culturale che vuole imporsi sul mondo, trasformandovi ciò che non ama. E’ quindi un termine scandaloso poiché rimanda a una metodologia sostanzialmente sovversiva che innerva la condizione ontologica subalterna (resa tale sul piano storico dei rapporti di forza tra civiltà separate e in conflitto) con una tendenza irriducibile ad esprimere tecniche (saper fare) e saperi che si propongono come esperti.

    Per questo motivo, ogni volta che l’etnopsichiatria piomba sul mondo occidentale crea scandalo, scompagina i giochi delle corporazioni disciplinari: essa veicola un senso politico di contrasto irriducibile, ispirato al rifiuto di sottomettersi (recalcitranza) alla logica del dominio (scientifico, professionale, ideologico).

    In generale e in estrema sintesi, cosa sostiene l’etnopsichiatria e perché attualmente risultano insufficienti le categorie “migrante”, “migrazione”, e così via? Sostiene che, per fare attività di cura, è necessario comprendere lo statuto del disordine mentale all’interno del gruppo di individui a cui il soggetto sofferente appartiene. Essa invita a guardare e a saper riconoscere il popolo e il mondo retrostanti a quell’individuo; e poi aggiunge che, quando due mondi (ovvero due individui) si incontrano, la contrattazione e l’integrazione non riguardano solo i singoli soggetti o, al massimo, i piccoli gruppi, ma quei mondi lontani, nel loro insieme. In altre parole, l’etnopsichiatria è un termine politicamente scandaloso perché comunica che nelle società multiculturali forzatamente integrate, anche quando non vi è una vera e propria integrazione e al suo posto esistono ampie realtà di marginalità ed emarginazione, va rinegoziato il contratto sociale (vedi le questioni sulla cittadinanza al dipolo giuridico ius soli vs ius sanguinis). Essa mette inoltre in evidenza che esistono meccanismi che contrastano la possibilità di rinegoziare tale contratto (giochi politici e di potere, metodologie e linguaggi inadeguati).

    Da qui si evince che se l’etnopsichiatria è un termine che proviene dai mondi subalterni, è un termine contemporaneamente politico e metodologico che non definisce una disciplina quanto, piuttosto, una metodologia.

    Tale metodologia è meglio comprensibile se si prova a scomporre il termine definitorio in tre segmenti concettuali e operatori:
    - etno - ci porta a chiedere all’altro “da quale mondo vieni?”, “a chi appartieni?”;
    - psi - lo interroga su “come respiri?”, “cosa dà calore al tuo corpo e dona un senso ai tuoi pensieri?”;
    - iatria, iatreia - implica l’essere disposti a riconoscere l’altro come soggetto, come una soggettività contestativa. L’incontro tra due persone, infatti, è un incontro polemologico, di contestazioni, di malintesi, essendo sempre caratterizzato dal conflitto. La pacificazione non è il presupposto dell’incontro ma, al contrario, il punto di arrivo.

    L’etnopsichiatria, infine, è un dispositivo: uno strumento che permette di mettere insieme una serie di fattori eterogenei come, ad esempio, regole, leggi, filosofie, visioni del mondo e, soprattutto, corpi. Un dispositivo ha un corpo, è un corpo!Ma non nella banalizzazione dei linguaggi universali di espressione dei corpi, perché i corpi non si esprimono, non sono capaci di esprimersi nella pura equivalenza tra codici comunicativi linguisticamente e semanticamente differenti se non ai più bassi livelli di espressione. Vedi, ad esempio, le cosiddette fisiognomiche della paura, le emozioni universalmente concesse a tutti gli esseri umani in quanto membri di fatto di quella stessa specie. Ma gli esseri umani sono costruiti come tali per non farsi chiamare più, semplicemente, una specie umana tra tante altre specie, ma perché i suoi membri siano, di volta in volta, eroi, divinità, più spesso demoni.

    Come si è visto, dunque, l’etnopsichiatria è qualcosa di complesso che non si lascia facilmente ridurre o ricondurre a rappresentazioni pacificatorie. E’ come quando uno tiene nel cassetto il libro maligno che legge nottetempo, ma che consente di ritornare al mondo della luce con una nuova e diversa ispirazione per poter essere nel mondo della luce più quieto, fattivo e, se volete, anche transitivo.

    Natale Losi: Sono abbastanza d’accordo con tutto ciò che è stato detto, in particolare con quanto affermato da Salvo Inglese riguardo all’etnopsichiatria come polemologia, in altre parole scienza o discorso sul conflitto, sulla guerra, sul Polemos.

    Non sempre, però, questa dinamica è introdotta dal paziente all’interno del lavoro clinico. Io dò una lettura divergente rispetto a quella dell’etnopsichiatria canonica – se ce n’è una – ad esempio rispetto a quella che, alcune volte, viene rappresentata da Nathan. Cerco di approfondire.

    Sono molto colpito dalla frase che leggo ora sul muro di fronte a me: “ricchezze vere sono la saggezza e la conoscenza”, mentre dal punto della sala in cui mi trovavo prima ne vedevo un’altra, che mi piaceva molto meno, che finiva così: “istruzione e amore”. La prima mi fa venire in mente che, i professionisti della salute mentale, specie quando lavorano con persone che provengono da altre culture, pensano di possedere saggezza e conoscenza: non è così. Cerco di fare un esempio riportando un breve passaggio di un libro che mi sembra rappresenti molto bene la mia idea di pensiero etno-sistemico-narrativo. Si tratta di un libro bellissimo di uno scrittore ceco, boemo, Bohumil Hrabal, che si intitola Ho servito il Re d’Inghilterra. Inizia così: «State attenti a quello che adesso vi dico. Quando arrivai all’hotel Praga, il capo mi prese per l’orecchia sinistra e tirandomela disse: “qui tu sei il piccolo di sala perciò ricordati, non hai visto niente, non hai sentito niente. Ripeti.” E così dissi che al lavoro non vedevo niente e non sentivo niente. E il capo mi tirò per l’orecchia destra e disse: “ma ricordati anche che devi vedere tutto e sentire tutto. Ripeti.” E così ripetei stupito che avrei visto tutto e sentito tutto» (p. 5).

    Quando lavoriamo in modo etno-sistemico-narrativo, cerchiamo di individuare questo posizionamento, quello che il capo dei camerieri indica al piccolo di sala all’inizio di questo romanzo. Significa, in qualche modo, essere all’interno di una sorta di labirinto. Qual è la caratteristica che tanto preoccupa e che tanto spaventa del labirinto nel pensiero occidentale? Il fatto che questo sia qualche cosa che si può pensare, ma che non si può rappresentare; il che, per la cultura occidentale, fondata proprio sulla possibilità di rappresentazione di ciò di cui si può parlare, costituisce un problema enorme. Perché non si può rappresentare il labirinto? Perché il labirinto, per definizione, non ha un centro e quindi, se potessimo rappresentarlo, modificheremmo questa sua essenza ontologica.

    Con quanto sto dicendo, che attingo da racconti e che qui utilizzo in modo metaforico, intendo dire che il nostro posizionamento nei confronti dell’altro deve essere di ricerca della possibilità di essere spiazzati, di non sapere cosa fare, di ascoltare. Quindi, un posizionamento completamente diverso rispetto a quello più diffuso, nella nostra cultura, dove il professionista della salute mentale si pone nei confronti del “matto” in funzione di una diagnosi. Quelle appena esposte, se vogliamo essere puntuali e riconoscenti, sono tutte riflessioni che ritroviamo già all’interno del pensiero sistemico. A proposito del posizionamento, ad esempio, già negli anni ’50, in riferimento alla costruzione di quella che è poi stata chiamata cibernetica di secondo ordine, Heinz von Foerster, fisico e cibernetico, sosteneva che il mondo emergesse dalle operazioni dei soggetti (von Foerster, 1987). Allora, quando parliamo di contrattazione, anche conflittuale, tra soggetti diversi all’interno di un dispositivo, non facciamo altro che parlare di questo. Potrebbe essere interessante riportare anche qualche passo di una delle ultime interviste che Gregory Bateson aveva rilasciato per una rivista di psicologia. Più esattamente: La mente dell'uomo è piccola quella del mondo è molto più grande. Questo è il titolo dell'intervista, rilasciata da Bateson un anno circa prima di morire, il 4 aprile del 1979, alla rivista “Psychologie”.

    Come immagino saprete Gregory Bateson è stato uno degli intellettuali che più profondamente hanno segnato molti campi del sapere del novecento. Vi riporterò alcuni stralci che mi sembrano estremamente pertinenti con il dibattito odierno.

    Intervistatore. Quali sono le tappe fondamentali nello sviluppo della sua riflessione?

    Bateson. Uno spirito orientato verso i modelli è uno dei fattori fondamentali che permettono al vento dell'ispirazione di soffiare sulla mente. I lavori di mio padre mi hanno aiutato a uscire dalle false piste su cui mi ero avviato all'inizio. Ho cominciato a pensare che le idee fuori moda sull'epistemologia-in particolare quella umana-erano il riflesso di una fisica desueta e impropria. […]

    È l'epistemologia, la colpevole. È questa ristrettezza di vedute che ci impedisce di scorgere il modello che collega le cose. Vale a dire, un metamodello; un modello dei modelli.

    Per la maggior parte del tempo noi non arriviamo a scorgerlo. Fatta eccezione per la musica, siamo stati abituati a considerare i modelli come cose statiche. Il metodo corretto per iniziare a riflettere sul “modello di relazione” è di concepirlo come una danza di parti in interazione.

    (…) gli studiosi comportamentali hanno l'abitudine di cercare delle quantità, e  così non colgono i fattori realmente importanti. Ciò porta, per esempio, a una sorta di comprensione sterile del fenomeno sociale, che io chiamo “conoscenza soporifera”. Ho preso questo termine da Molière. Alla fine del suo “Borghese gentiluomo”, c'è una scena nel corso della quale dei medici medievali passano un esame orale di dottorato a un candidato. Gli domandano: “Perché l'oppio fa dormire?”. E il candidato risponde trionfalmente: “Ciò deriva, illustri signori, dal fatto che contiene un principio soporifero”.

    Applaudono tutti, e dicono che la risposta è proprio buona. Così, lei può constatare che un gran numero di spiegazioni offerte dalla psicologia sono di questo tipo. L'aggressione è spiegata con una “istinto aggressivo”. E via di seguito. Questo tipo di spiegazione suppone che la causa di un comportamento è una parola astratta derivata dal nome di quel comportamento stesso.

    Intervistatore. Qual è allora l'alternativa?

    Bateson. Ebbene, l'alternativa all'oppio e considerare le relazioni tra l'oppio e il paziente, e cercarne un metodo di indagine... Lì si trova la risposta: nella relazione [...]. Il problema tra gli psichiatri è che essi hanno perduto il contatto con i fondamenti dell'epistemologia.

    Intervistatore. Vuol dire che gli psichiatri fanno delle supposizioni sugli individui non basate sulla realtà?

    Bateson. Sono abituati a un modello falso, derivato dalle scienze dell'800. L'entità clinica è vista come una certa cosa (“soporifera”), che risiederebbe all'interno del paziente. Ciò che non vogliono vedere è che dare un nome a questa “cosa” non è sufficiente per conoscerla. La mappa non è il territorio.

    Intervistatore. Che differenza fa rispetto alla terapia?

    Bateson. Il terapeuta dice implicitamente al malato: “Lei deve controllare la sua aggressività”.

    Che è efficace più o meno quanto  chiedere ad un alcolista di controllare il suo alcolismo. Ciò conduce solo a una grande sofferenza, a un aggravamento della situazione: causata però dal medico, non già dalla malattia. La sofferenza è un prodotto inevitabile dell'azione guidata dall'ignoranza. Guardiamo la storia della psichiatria: l'insulina, la lobotomia, l'elettroshock, la ferocia del disprezzo popolare hanno contribuito a quell'aumento della sofferenza umana che va sotto il nome di schizofrenia.

    Mi vorrei ora ricollegare all’aspetto, espresso da Cecilia Edelstein, che riguarda la questione narrativa, o della narrazione, e mi chiedo: che cos’è per noi un lavoro sulla narrazione, sulla ricostruzione di storie? È essenzialmente, da un punto di vista terapeutico, una possibilità di riposizionare il paziente all’interno di questo dispositivo.

    Noi abbiamo una Scuola, facciamo psicoterapia, gestiamo la formazione per gli allievi che diventeranno psicoterapeuti e abbiamo anche uno sportello clinico nel quale gli allievi lavorano con i didatti della scuola; presso questo sportello clinico pervengono, in grandissima maggioranza, richiedenti asilo, che ci vengono inviati da associazioni che gestiscono Centri, strutture di accoglienza e così via, che si trovano in difficoltà in quanto non sanno come gestire queste persone. L’invio alla rete dei servizi pubblici è in genere fallimentare. Sarebbe interessante sentire da Giuseppe Cardamone cosa avviene per esempio in Toscana dove, come diceva, esiste un piano. Per esperienza, avendo lavorato a livello internazionale e in tante regioni d’Italia, posso affermare che a Roma, nel Lazio, tali invii sono in linea di massima, anche dal punto di vista degli operatori, fallimentari, poiché queste persone sono trattate solo farmacologicamente e rimandate nel Centro.

    Come diceva Salvatore Inglese, le persone non sono solo individui che arrivano da noi: hanno dietro una storia, un sistema, una comunità e, date queste precedenti esperienze, hanno difficoltà a comprendere dove li stiano portando i loro operatori di riferimento; in genere, questi ultimi dicono loro: “Ti portiamo da un dottore che lavora in modo diverso dagli altri”. La definizione di quello che andranno a fare è quindi sempre molto sfumata.

    Allora, la costruzione della comunicazione e della narrazione con loro è una costruzione che deve tener conto di questo e che principalmente deve essere in grado di collocarli in una posizione di esperti della loro esperienza. Non può essere una comunicazione che parte semplicemente dalla loro piccola e finale parte di relazione, ad esempio con i Servizi, ma è qualcosa che deve valorizzare la loro esperienza, le loro risorse e la parte del loro mondo significativo (ad esempio il loro villaggio) che continua a vivere in loro, anche se logisticamente si trovano all’interno di un altro Paese.

    Bisogna quindi cercare di costruire dei ponti. Come si può perseguire questo obiettivo attraverso i tipi di narrazione? Noi abbiamo lavorato molto sul significato delle memorie: la memoria, come sappiamo, non è qualcosa di oggettivo, ma continua a ricostruirsi a seconda del contesto in cui siamo. Abbiamo riflettuto, inoltre, sul fatto che in italiano esistono quattro verbi che noi utilizziamo per riferirci alla questione della memoria e che si riferiscono a quattro differenti parti del corpo: la mente, con rammentare; la voce, con richiamare; il cuore, con ricordare; infine, le membra (in particolare le articolazioni), con rimembrare. Le narrazioni possono trovare degli spunti interessanti per un inizio di costruzione di nuovi e inaspettati sviluppi “co-costruiti” a partire da queste quattro parti del corpo. Cerchiamo, quindi, di lavorare utilizzandole tutte: non solo la voce, ma anche il corpo; non solo la mente, ma anche il cuore. Ci sforziamo di trovare all’interno di altre discipline, che su questi temi hanno approfondito molto più di quanto non abbia fatto la psicologia, le esperienze e le conoscenze utili a queste ri-narrazioni: un modo di lavorare che appunto chiamiamo Etno-Sistemico-Narrativo.

    Giuseppe Cardamone: L’etnopsichiatria, non essendo una specializzazione medica, non dovrebbe essere affidata solo a chi possiede una formazione psichiatrica. Essendo una metodologia nell’ambito delle scienze umane, è esercitabile da tutte le figure professionali. Essa, infatti, è una metodologia soprattutto critica, che processa i fondamentali di ogni disciplina esistente, all’interno della quale l’epistemico dell’occidente opera.

    In altre parole, l’etnopsichiatria è praticabile soltanto se prima si riesce a demolire la psicologia, la psicopatologia, l’antropologia e quant’altro e a dimostrarne le aporie, le contraddizioni, la fallacia. Per esempio, negli anni abbiamo sempre più focalizzato l’attenzione sulla narrazione, poiché l’interazione clinica è di fatto una narrazione. Quando abbiamo incominciato a ragionare su queste tematiche, ci siamo accorti che all’interno di tutte le psicoterapie, in Europa in generale e in Italia in particolare, non esisteva nessuno statuto scientifico, tecnico, operatorio, assegnato alla lingua. È paradossale non avere una teoria e soprattutto una tecnica linguistica, se poi l’interazione tra esseri umani avviene attraverso questa protesi. Questa è una problematica che ha afflitto la psicoanalisi già ai primi del Novecento.

    La psicoanalisi non ha mai sviluppato uno statuto per le lingue e sta faticosamente tentando di realizzarlo nell’ultimo decennio; tuttavia, è estremamente in ritardo rispetto alle questioni delle neolingue. Dobbiamo però ammettere che stiamo già assistendo a un regime diverso, in cui i compiti dell’analisi linguistica e dell’uso linguistico nel corso delle psicoterapie richiedono dei ragionamenti sulle neolingue. A questo si aggiunge la mancanza di un ragionamento teorico-clinico sulle lingue d’origine e su quelle veicolari. Pensate che compito immane possa essere sviluppare narrazioni con persone straniere che non parlano la lingua del paese ospitante. L’impegno di umanizzazione che cade sulle spalle del clinico, nel momento stesso in cui incontra suoni cacofonici provenienti da altre filiere linguistiche, fa crescere in lui la necessità di comprenderle, ovvero di tradurle e di inter-tradurle, perché la traduzione deve sempre avvenire almeno in due direzioni. Quindi l’etnopsichiatria, per quanto riguarda l’aspetto clinico, ha incontrato l’etnolinguistica, attraverso una serie di teorie della traduzione. Infatti, non esiste un’unica teoria della traduzione.

    Da questo punto di vista, l’etnopsichiatria è molto attiva, tant’è che di fatto ha influenzato molti servizi pubblici. Nel tempo questi ultimi hanno cominciato a pensare alla necessità di lavorare in lingua, e quindi di implementare, nei propri sistemi operatori, i cosiddetti mediatori linguistico-culturali.

    I servizi pubblici hanno grandi difficoltà, soprattutto perché non si basano su etiche e politiche generiche, ma su etiche specifiche e politiche precise, dettate dallo Stato o dalle sue autonomie articolate.

    In questi spazi comincia a delinearsi un elemento di eterogeneità e di contestazione progressiva: l’introduzione del terzo. Questa figura è infatti necessaria in tutti i momenti dell’incontro, dall’analisi della domanda e dall’invio che viene fatto al servizio pubblico, fino ai processi più intimi e decisivi, cioè quelli che noi chiamiamo psicoterapeutici.

    Vorrei però aggiungere un commento agli interventi dei colleghi. Oltre alle realtà descritte da Natale (Losi) e Salvo (Inglese), incentrate prevalentemente su una risposta farmacologica ai rifugiati, esiste un altro approccio, che è quello dei servizi, sufficientemente motivati a incontrare l’alterità.

    Penso che sia importante sottolineare il fatto che, se un migrante ha un problema di salute mentale, non si rivolge al servizio specialistico, ma a un setting di medicina generale, come dimostrato da una serie di evidenze empiriche. Questo, tuttavia, non ci esime dal compito di dover provare a immaginare delle politiche di salute mentale che siano sufficientemente sensibili alla dimensione culturale. Spesso i servizi territoriali non si applicano in questo senso, forti del fatto di essere relativamente stabili per quanto riguarda gli altri settori. Un esempio è rappresentato dalla regione Toscana. E’ anche vero che esistono delle reti che, partendo da contesti territoriali sensibili alla dimensione associazionistica, funzionano anche sul versante del raccordo con i servizi pubblici. E’ lì che l’incontro tra pubblico e privato fa sentire moltissimo la sua importanza.

    E’ quindi possibile che le reti comunitarie siano attivabili e attivate, passando attraverso tre elementi fondamentali:

    1) in primo luogo, un dialogo basilare tra privato sociale e pubblico. Infatti, è di fondamentale importanza che questi settori si parlino sempre e in qualunque situazione, soprattutto in quei contesti dove l’ente locale svolge un’importante funzione di mediazione. La responsabile dei servizi sociali, inoltre, ha oggi portato un contributo importante, rivelando l’esistenza, nel comune di Bergamo, di un servizio dedicato agli immigrati all’interno dei servizi sociali. Quella fra servizio dedicato e servizio generalista è una diatriba vecchia, ormai superata.

    2) Il secondo elemento consiste nel mantenere attive queste reti e nel renderle funzionanti, implementando un atteggiamento proattivo da parte dei servizi, che purtroppo tendono ad avere una predisposizione, come la chiamava Losi, alla presunzione. Esistono tuttavia dei servizi che non hanno la pretesa di sapere. I professionisti della salute mentale sono un bene della comunità che va in qualche modo riconosciuto e salvaguardato.

    3) Il terzo elemento fondamentale consiste nel fatto che questo terreno non possa essere d’appannaggio alla mera dimensione della cura. Sto parlando del rischio di sanitarizzazione, un rischio fortissimo invalidato soltanto da un lavoro di rete consapevole.

    Vorrei inoltre precisare che lavorare con i rifugiati o i richiedenti asilo è un lavoro di altissima complessità. Si tratta, infatti, di un territorio che andrà progressivamente a essere sempre più frequentato da tutti coloro che si occupano di migranti. La migrazione forzata è una specificità fino a oggi poco conosciuta e poco frequentata, ma è in espansione e merita un ulteriore livello di consapevolezza. Al riguardo è importante rendersi conto del fatto che abbiamo a che fare con delle dimensioni fortemente complesse, dove le nostre capacità di risposta, se non coordinate o inserite all’interno di una dimensione pubblico-privato, rischiano di essere fallaci e dannose, soprattutto per chi le fa.

    Caterina Mattea: Mi sembra che l’intervento di Salvatore Inglese prima, e quello di Giuseppe Cardamone dopo, abbiano fatto luce su una delle grosse differenze metodologiche e di impostazione tra i contesti. L’approccio metodologico sistemico pluralista di Shinui, illustrato stamattina da Cecilia, e l’importanza e la centralità della lingua nell’etnopsichiatria, comportano la scelta ineludibile di un mediatore. Mi piacerebbe sentire Salvatore Inglese su questo punto e poi non so se Cecilia vorrà esprimere il suo parere.

    Salvatore Inglese: Potrei porre la domanda in altri termini? Nel Sud Italia arriveranno pressappoco ottocento persone dal blocco africano. Dal momento che pochi di loro parlano una lingua occidentale, approdano quasi immediatamente all’area sanitaria, saturando le risorse della protezione civile e della guardia di frontiera, si tratta di istituire delle narrazioni e un’interazione con queste persone. Che cosa facciamo della barriera linguistica? Come la superiamo?

    Natale Losi: Direi che innanzitutto bisognerebbe cambiare la struttura dei centri dove queste persone sono imprigionate, e non accolte. All’interno di questi dovremmo dare alle persone la possibilità di esprimere le loro competenze e non semplicemente di dover rispondere a domande precodificate e formulate in una lingua che necessita di traduzione.

    Salvatore Inglese: La domanda è più insidiosa di quanto sembri. Questo è il problema: c’è una barriera linguistica. Perché se si desse spazio alle competenze, permarrebbero comunque delle cacofonie, che renderebbero il messaggio incomprensibile all’ospitante. E’ una situazione cogente, non le si può sfuggire.

    Natale Losi: Una risposta a questa situazione che tu descrivi può essere data solo a livello politico, sanitario o sociale.

    Salvatore Inglese: Non parlando la stessa lingua ed essendo deputati alla funzione clinica, cosa potremmo fare? Dobbiamo far irrompere una figura terza.

    Natale Losi: La figura terza, che dal tuo punto di vista si identifica con il mediatore culturale, fino a ora ha rappresentato una figura di comodo all’interno dei servizi. Essa funge principalmente da capro espiatorio per qualunque tipo di sistema, sollecitato al cambiamento. Infatti, tutti i sistemi, posti di fronte alla necessità di un cambiamento, passano attraverso tre stadi, che non sono meccanicamente consequenziali:

    • Il primo è quello della negazione, ovvero il sistema reagisce affermando che il problema posto per richiedere il cambiamento non c’è, non esiste;
    • Il secondo è quello della cooptazione e, secondo me, noi siamo in questa fase. A questo livello i servizi ammettono l'esistenza della necessità di cambiamenti, data la presenza di persone che parlano lingue differenti. I servizi, di fronte all'esigenza di comunicare con questa nuova utenza, ricorrono all'utilizzo di una figura terza, a cui però viene affidato esclusivamente il compito di trasmettere dettami e di dire loro cosa devono essere;
    • Il terzo stadio è la riforma. Da un punto di vista etimologico riforma significa cambiare la forma, mutare completamente le cose. Questo cambiamento non può però essere addossato alla figura del mediatore culturale, che ricopre oltretutto un ruolo socialmente, contrattualmente ed economicamente marginale, in qualunque tipo di sistema. Io non conosco un mediatore culturale che abbia un contratto stabile: sono tutti a progetto o a chiamata. Allora non possiamo pensare che il sistema possa cambiare attraverso questo meccanismo perverso.

    Cecilia Edelstein: La tua domanda, Salvo, ci pone di fronte a una situazione di emergenza. Secondo me è utile distinguere tra una prima accoglienza di massa e il lavoro di cura, che ha inizio nel momento in cui la persona si trova nel nostro Paese da un po' di tempo. In una situazione di accoglienza emergenziale, sicuramente la lingua - e non il linguaggio - è importante e basilare.

    Quando invece andiamo a parlare dei nostri interventi, che, oltre all’ambito clinico, possono essere in ambito educativo, sanitario, sociale, ma anche legale, con persone che si trovano nel paese di accoglienza da un po’ di tempo, c’è un passaggio e una trasformazione tale che possiamo parlare di incontro: anche gli operatori che fanno una formazione per lavorare con il migrante vivono una trasformazione. Essi si avvicinano attraverso il linguaggio, che va molto oltre la lingua e che ci consente di entrare in relazione e lavorare con il singolo, la coppia, la famiglia o un gruppo.

    Le tecniche per riuscire a creare questo incontro sono tante e riguardano il linguaggio e la relazione. La lingua che accomuna le persone, invece, è quella del Paese di permanenza, in questo caso l’Italiano. L’operatore, imparando a parlare lentamente (e non a urlare), scegliendo le parole, utilizzando sinonimi e spiegando i termini potrà entrare in relazione anche con il migrante che ha poca conoscenza della lingua locale, grazie alle sue competenze nella relazione di aiuto in ambito migratorio e interculturale. Sul discorso della lingua ci sono altre regole, come per esempio costruire delle frasi intere, perché se parliamo con singoli sostantivi o verbi in una frase non congiunta, è molto più difficile capirsi: basta non conoscere una singola parola e si rischia di perdere il senso di tutto il discorso. D’altra parte, al di là del parlato, c’è un aspetto linguistico molto più ampio, che riguarda non solo il non verbale e il para verbale - le ricerche ci dicono che il non verbale arriva fino al 93% della comunicazione - ma anche un livello universale, senza per questo ridurre l’aspetto socio-culturale.

    La specie umana è comunicativa, socievole, è portatrice di pensieri, vive emozioni e ha bisogno di cura; c’è un qualcosa nella relazione di aiuto che è sempre stata e che consente di avvicinare gli esseri umani. Il problema della lingua, quindi, deve essere giocato in quell’incontro e il ruolo di un interprete (e non lo chiamerei mediatore interculturale) in queste situazioni, corre molti rischi (per enunciarne soltanto due: a) creare distanza fra i protagonisti della relazione di aiuto e, b) porsi paradossalmente in posizione etnocentrica “spiegando” la cultura minoritaria. Quindi è l'aspetto emotivo del linguaggio che ci permette di raggiungere un salto qualitativo all'interno dell'interazione: è grazie al linguaggio che possiamo fare un viaggio insieme ai nostri pazienti. Penso, infatti, che ci sia spazio e luogo, oggi, per la formazione in ambito interculturale e che i professionisti della relazione d’aiuto in ambito interculturale non debbano rincorrere la figura dell’interprete inserendo così un terzo nella diade operatore/utente: non a caso ci troviamo qui.

    Grazie ad abilità, competenze e tecniche specifiche, e non grazie a un terzo, credo che i counselor, i mediatori familiari e gli psicoterapeuti specializzati in ambito interculturale, possano oggi incontrare i migranti e stare nella relazione di aiuto. Soltanto qualora ci fossero incomprensioni o conflitti si può pensare a introdurre la figura del mediatore interculturale. A mio avviso, in ambito clinico è bene che sia il professionista a lavorare direttamente con i clienti creando una situazione di parità, con ruoli ben distinti. In contesti altri, come quello scolastico o ospedaliero, la figura del mediatore può essere utile, invece, fermo restando che rimanga un mediatore e non diventi “l’avvocato dif

    Salvatore Inglese: Rispetto alla sensibilità che aveva mostrato Natale Losi, il problema va approfondito. Se si controllano i programmi di formazione oggi in Italia, questi sono sbilanciati al 98-99% in programmi di formazione per mediatori, perché si abituino a lavorare nelle scuole, nei tribunali, sui luoghi di lavoro, in sanità. Non esiste alcun corso di formazione che insegni ai clinici a lavorare con i mediatori. Ciò è ancora più importante se consideriamo che imparare a lavorare con i mediatori significa tout court imparare a lavorare con la soggettività straniera.

    Questo è un gap da colmare, un punto di investimento enorme. Negli anni Trenta, uno psicoanalista di scuola freudiana si rese conto che passare da un registro linguistico, veicolare, cioè dal tedesco colto che veniva parlato nella Germania del ‘900, alla lingua madre della paziente, aprisse un paesaggio interpretativo e trasformativo per quella teoria, che nessuno aveva nemmeno potuto immaginare.

    Da questo articolo “Saggio orfano”, che Samuel Ferenci licenziò alla fine degli anni Venti, sono dovuti passare venticinque anni per arrivare al ‘56, anno in cui un altro analista affrontò il problema dello statuto delle lingue nella psicoanalisi. Come se la lingua in sé fosse un’evidenza e non uno degli elementi, più caratterizzanti l’umano e soprattutto più complicanti o gratificanti la relazione interumana. Solo in seguito a questa consapevolezza sono in grado di lavorare con tutte le geometrie e le configurazioni di interazioni possibili, con o senza mediatori, con lingue matrici o senza, in lingue veicolari o neolingue, perché di fatto la curvatura dei clinici procede in questa direzione. Si è arrivati così a un punto che non era immaginabile da nessuno dei padri fondatori della stessa etnopsichiatria, né dai fondatori di tutte le grandi scuole occidentali di psicologia clinica.

    Caterina Mattea: Mi sembra che il dibattito di oggi abbia bene messo in evidenza alcuni punti che appaiono condivisi nei diversi modelli che i relatori rappresentano, pur nel comune orientamento sistemico. Innanzi tutto la consapevolezza che occorre diffidare dei propri saperi e che l‘incontro con le nuove soggettività che vengono da altri mondi e da altre culture impone la disponibilità a mettere in discussione fino alle fondamenta gli apparati disciplinari su cui ci siamo formati.

    Una messa in discussione radicale che chiede di sottoporre a critica costante il proprio posizionamento nei confronti di “un oggetto che si può pensare ma che non si può rappresentare”, come nella bella metafora del labirinto di Losi.

    La consapevolezza che il pensiero sistemico, nella sua essenza, esige un lavoro incessante di interrelazione è ancora più ineludibile se ci si muove nel campo dell’intercultura , dove è fondamentale non perdere mai di vista la reciprocità: mentre noi impariamo a conoscere i migranti, i migranti imparano a conoscere noi.

    Un secondo tema comune mi pare essere la consapevolezza di quella che Cardamone, in accordo con Cecilia Edelstein, chiama la  “coemergenza individuo/gruppo sociale, culturale” cioè la coscienza che la clinica non interagisce solo con l’individuo ma con il gruppo sociale cui questo appartiene. Inglese mette in guardia dal pericolo di riferirsi al migrante come a un “atomo sociale esodato (sganciato) dal reticolo delle sue appartenenze” e Losi ci invita a costruire ponti con la Storia, il sistema, la comunità, il mondo significativo che sta dietro all’individuo migrante.

    Questa posizione metodologica va portata anche nel pubblico, con un lavoro di sinergia tra pubblico e privato che tutti i relatori hanno segnalato come importante, ancorché difficile. Dai vari interventi si conferma poi che l’etnopsichiatria, in quanto metodologia interattiva, costruisce i suoi modelli sulle pratiche e sui contesti e non su un corpo disciplinare.

    E’ all’interno di questa cornice che sarebbe forse bene inquadrare l’ultimo dei temi discussi e cioè quello della barriera linguistica e della mancanza di una teoria e di una tecnica della lingua. E’ questo probabilmente, in una prassi clinica sempre più intesa come interazione narrativa, il tema su cui sono emerse oggi posizioni e impostazioni più differenziate tra i vari modelli. La “figura terza”, il mediatore linguistico-culturale, appare come un tema complesso e denso di contraddizioni. Sembra importante riconoscerlo come un ambito in cui è fondamentale continuare il confronto e il dibattito in attesa di passare alla fase della “ri-forma”, cioè del cambiamento profondo della forma politica, sociale, culturale, di cui parla Losi.

    Edelstein ci ha invitato ad ancorare le riflessioni e l’approfondimento ai contesti in cui si opera superando la polarizzazione “mediatore sì – mediatore no”, ma soprattutto incrementando il lavoro di arricchimento di competenze, abilità e tecniche specifiche degli operatori. L’incontro di oggi va in questa direzione.



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