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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    PADOVA E JOHANNESBUG: FARSI RACCONTARE LA ZONA DI ECCEZIONE COME PRATICA DI CITTADINANZA


    Elena Ostanel

    ostanel@iuav.it
    Dottoranda in “Pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio” all’Università IUAV di Venezia, è attualmente assegnista di ricerca per la cattedra Unesco SSIIM (https://www.unescochair-iuav.it/). I suoi contributi di ricerca spaziano dall’analisi delle politiche per gli immigrati, alla segregazione spaziale e alle forme di appropriazione di spazi urbani come configurazioni di cittadinanze non ancora riconosciute.

    Il territorio è l’uso che se ne fa e come lo si racconta

    Lo studio della città rappresenta una concreta possibilità di rappresentare una pluralità di orizzonti semantici. La città fa convivere persone, idee e appropriazioni differenti fra loro e questo processo non è consensuale né armonioso (Amin e Thrift, 2002, p.127). La città è una continua “cacofonia di discorsi” (ibidem, 2002), una serie di luoghi comuni che si possono utilizzare come risorse per descrivere più lati del soggetto che vogliamo osservare.

    Lo spazio urbano non può mai essere compreso in profondità: come descrive Latour (1998a) la serie di reti circolanti di comando e controllo non definiscono un ordine panottico in grado di rendere la città trasparente allo sguardo di chi ha il potere. Piuttosto vengono prodotti una serie di “oligopticon”: ordinamenti spaziali, insiemi localizzati, con la loro abilità a guardare fissamente in certe direzioni e non in altre, che consentono di dominare la città ma di trascurare, allo stesso tempo tanti oggetti.

    Lo spazio urbano non può mai essere totalmente condizionato (proprio perché non può essere compreso nella sua totalità): esistono “spazi di fuga”, “spazi tattici”, fortemente interattivi e plasmati dalla vita quotidiana, che dimostrano come lo spazio urbano sia “poroso” (ci sono spazi che tessono legami continui con altri tempi e luoghi) e “aconsensuale” (socialmente e spazialmente). Spazi difformi, stratificazioni sociali multiple, nuove forme di “farsi cittadini”, sono l’esito della costruzione di società sempre più differenziate. Simili pratiche e rappresentazioni non sono meno intensamente politiche per il fatto che non raggiungono il registro discorsivo e rimangono invece nell’ambito della politica molecolare; per Agamben (1999) questo processo porta all’invenzione di nuovi spazi potenziali della politica” dove generare nuove improvvisazioni e imporre nuove soluzioni originali per l’accesso alla città.

    Questi interstizi (La Cecla, 1997) non sono immuni dall’influenza del potere: esso è una forza mobile e circolante che attraverso l’utilizzo costante di “altre pratiche” produce conseguenze di governo che si caratterizzano per essere un “potere verso” più che un “potere su” (Amin e Thrift, 2002, p.151). In questo senso vita quotidiana e potere si inseriscono in una continua relazione dialettica.

    I processi migratori sono capaci di rendere la città ancora più problematica perché fanno si che essa sia attraversata da popolazioni in continuo transito e capaci di materializzare “domande di città” differenti che necessitano di intermediazione culturale. L’immigrazione è uno dei processi strutturali della globalizzazione e rappresenta una delle modalità attraverso cui si realizza la “localizzazione del globale”. (Balbo, 2009, p.1). L’immigrazione è un “fatto sociale totale” (Sayad, 2008, p.14) perché l’itinerario del migrante è un itinerario epistemologico: si situa all’incrocio delle scienze sociali come luogo geometrico di molte discipline come l’antropologia, la geografia, la sociologia, la demografia, la linguistica, le scienze politiche ed altre ancora. La migrazione è un soggetto multidisciplinare che può essere osservato da diverse angolature e, da ognuna, con lenti diverse. In altre parole parlare di immigrazione è parlare della società nel suo insieme, sia nella sua dimensione diacronica (in una prospettiva storica) sia nella sua estensione sincronica (ibidem, 2008).

    Due punti fondamentali devono seguire questo ragionamento: lo spazio degli spostamenti è animato da pratiche, progetti, percorsi di attribuzione di senso che vanno oltre alla dimensione fisica del territorio. In secondo luogo il migrante è un soggetto ben prima che sia giunto nella società di arrivo. Troppo spesso la comunità scientifica osserva la “migrazione” solamente in quanto “immigrazione” in una data società. Se consideriamo la città come qualcosa di dato e le popolazioni migranti solo in quanto immigrate ci dimentichiamo di osservare “che possibilità anno costoro di prendersi cura di se stessi dovunque abbiano interesse” (Crosta, 2010) e riduciamo il soggetto della conoscenza ad una infinitesima parte della sua complessità.

    Il transnazionlismo tenta di superare, o almeno fluidificare, le tradizionali categorie di “emigrante” e “immigrato” e cessare di concepire la migrazione come un processo che ha un luogo d’origine e un luogo di destinazione. In questa visione, i “trasmigranti” sono coloro che costruiscono rapporti tra le due sponde delle migrazioni, mantenendo attraverso i confini un ampio arco di relazioni sociali, affettive o strumentali (Marzadro, 2008, p.28).

    Se non facciamo questo sforzo intellettuale perdiamo l’occasione che la migrazione ci dona di ripensare radicalmente la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione tra Stato e nazione. Perdiamo, come già accennato, l’opportunità di problematizzare la nozione stessa di “territorio”: esso non è un qualcosa di dato e che preesiste rispetto alle relazioni sociali e alle pratiche che lo animano; al contrario molteplici territori vengono costruiti dalle diverse forme d’interazione sociale, sovrapposti ma mai coincidenti e sempre interferenti tra loro (Crosta, 2010, p.11). Ciò che fa problema [1] è la compresenza di popolazioni e attività differenti.

    La migrazione offre alla disciplina urbanistica un dispositivo di analisi dei fenomeni di deterritorializzazione (pluralizzazione del territorio) che contraddistinguono in termini sempre più significativi la città contemporanea. Le offre anche la possibilità di uscire dal proprio recinto disciplinare, verso la costruzione di una poli-disciplina (Cipriani, 2000) in grado di rappresentare un fenomeno complesso come la migrazione e la costruzione di territori e cittadinanze ibridi.

    È chiaro che mettere al centro i migranti con le loro pratiche e produzioni di senso obbliga il ricercatore a utilizzare un metodo che “li faccia raccontare” e che sia in grado di conferire nuova centralità alle relazioni che in-formano i luoghi e le persone che li costruiscono. Per questo motivo non è solo il migrante a dover riprendere posizione: è un senso più generale dell’umano (Attili, 2008) che deve essere riposizionato all’interno della disciplina urbanistica.

    Se il territorio è un costrutto sociale e comprende in sé sia gli aspetti oggettivati (manufatti, tecnologie) sia gli aspetti virtuali (regole d’uso, percorsi di attribuzione si senso), allora questi elementi devono essere ricostruiti a partire dall’uso che del territorio ne fa la gente (Crosta, 2010).

    Se “la città è un luogo di mobilità, flusso e pratiche quotidiane che deve essere letta a partire dai suo schemi fenomenologici ricorrenti” (Amini, Thrift, 2005, p. 248), in questo senso il rapporto tra popolazione (o meglio popolazioni) e territorio in cui vivono è di forte mutualità e reciprocità: sono le pratiche dell’abitare che costruiscono territori e allo stesso tempo popolazioni (Crosta, 2010).

    Gli spazi metropolitani costituiscono il luogo privilegiato delle pratiche del multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007): lo spazio metropolitano è lo spazio della differenza e della variabilità (Hannerz, 1992) dove utilizzare e riconoscere le differenze diviene una necessità per avere accesso a risorse materiali e simboliche altrimenti scarse e, ancora, per partecipare in modo appropriato a ricorrenti situazioni di interazione (Bauman, 1996).

    Un bricolage metodologico tra Padova e Johannebsurg

    His universe of instruments is closed and the rules of his game are always to make with “whatever is at hand”, that is to say with a set of tools and materials which is always finite and is also heterogeneous because what it contains bears no relation to the current project, or indeed to any particular project, but is the contingent result of all the occasion there have been to renew or enrich the stock or to maintain it with the remains of previous construction or destructions (Lévi-Strauss, 1966, p.17)

    Come un bricoleur utilizza materiali e mezzi differenti per produrre i suoi lavori, il bricolage metodologico utilizza diversi metodi di analisi partendo dal presupposto che ognuno di questi è ritenuto significativo per il lavoro di ricerca.

    La ricerca a Padova comincia nel 2003 per la necessità di comprendere cosa fosse quella “Via Anelli” che veniva spesso citata sui giornali locali e che colorava la discussione pubblica in città. Il lavoro inizia con un percorso di osservazione partecipante del quartiere grazie al contatto mediato con l’associazione Razzismo Stop [2] che mi ha accompagnata nel censimento degli abitanti del Complesso Serenissima del 2005 realizzato in preparazione alla politica di trasferimento messa in atto dall’amministrazione comunale. Grazie alla collaborazione con l’associazione, sono riuscita ad analizzare il contesto e le sue interazioni “dall’interno”. L’osservazione partecipante è continuata dal 2005 al 2008 anche grazie alla possibilità di svolgere un periodo di tirocinio presso l’Ufficio Open Windows, servizio Comunale situato in uno dei palazzi del Complesso Serenissima. L’osservazione partecipante ha costruito un’analisi che ha seguito lo svolgimento inatteso degli eventi e, allo stesso tempo, i contesti attivati mi hanno permesso di raccogliere storie di vita dei diversi soggetti interagenti: migranti, abitanti italiani del Complesso e del quartiere, frequentatori, operatori del settore alloggio e immigrazione. Il periodo di “inserimento” nel quartiere mi ha permesso di svolgere una ricerca in autonomia e in generale gli abitanti di Via Anelli sapevano collegare la mia presenza nel Complesso alla realizzazione di una “ricerca per l’Università”. Ho avuto l’opportunità di incontrare i soggetti intervistati nelle proprie abitazioni, di frequentare il ristorante allestito in uno degli appartamenti, di vivere la vita della piazza sotto i Palazzoni di sabato pomeriggio. È stata parallela l’analisi delle delibere comunali e l’osservazione partecipante alle diverse assemblee pubbliche organizzate oltre alla ricostruzione della Rassegna Stampa (cartacea e on line) degli articoli de “Il Mattino di Padova” dal 2001 a Maggio 2011.

    Dal 2008 al 2010, grazie ad una collaborazione con il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, ho potuto continuare il lavoro di ricerca sul campo a partire da un’angolatura diversa: se nel periodo precedente l’osservazione partecipante mi aveva portato ad analizzare il processo di produzione materiale e sociale di Via Anelli, in questo secondo momento mi viene data l’opportunità di entrare nelle case assegnate agli ex abitanti di Via Anelli dalla politica di dispersione messa in atto dal Comune di Padova. I metodi di ricerca utilizzati diventano in questo momento l’osservazione etnografica dei nuovi quartieri di inserimento, l’utilizzo di questionari semi-strutturati e la raccolta di storie di vita dei casi ritenuti più interessanti. Per lo svolgimento della ricerca sono state adottate sia metodologie quantitative che qualitative. Una prima fase (tra gennaio e giugno 2008) ha visto la somministrazione di un questionario a 107 migranti interessati dall’operazione del trasferimento da via Anelli. I questionari erano pensati come destinati ognuno ad un diverso nucleo abitativo (ossia famiglie ma anche nuclei di semplici conviventi), e comprendevano infatti anche domande relative agli altri componenti del nucleo. Dato che il numero complessivo dei nuclei trasferiti da via Anelli è di 179 (per un totale di 569 persone), raggiungere 107 ha rappresentato circa il 60% dei nuclei interessati dal trasferimento. Il questionario utilizzato era composto da otto sezioni: dati socio-anagrafici, forme di trasferimento e pubblica amministrazione, condizioni abitative, accesso ai servizi pubblici e tempo libero, socialità e reti di solidarietà, superamento dello stigma e nuovo vicinato, percezione della sicurezza e fase di sgancio. Nello specifico mi sono occupata delle parti relative all’accesso alla casa e ai servizi [3] e della fase di sgancio che aveva l’obiettivo di raccogliere una valutazione da parte dei migranti delle politiche messe in atto per Via Anelli e comprendere le prospettive (e strategie) abitative future.

    Il contatto coi migranti per la somministrazione del questionario è stato effettuato tramite la mediazione della cooperativa “Il Sestante”, cooperativa incaricata dal Comune di Padova di supportare i migranti di via Anelli nel processo di trasferimento. Grazie alla mediazione della Cooperativa è stato possibile raggiungere gli ex abitanti di Via Anelli nelle nuove abitazioni: ho potuto in questo senso passare diverse ore nelle case assegnate, osservare i quartieri di inserimento in diverse ore del giorno, ricontattare i migranti in un secondo momento per raccogliere delle biografie più approfondite. Di contro diversi migranti incontrati avevano la percezione che io fossi “una del Comune” e di conseguenza alcune informazioni raccolte risultano essere “distorte”: in diversi casi è apparso evidente che i soggetti intervistati cercavano di minimizzare le possibili problematiche per mostrarsi “compiacenti” verso chi aveva dato loro una nuova sistemazione abitativa; in secondo luogo mi è stato spesso richiesto di essere un tramite con il Comune per chiedere di essere spostati in un altro alloggio o per rendere note alcune problematiche. Essere consapevole di queste questioni mi ha permesso, perlomeno, di essere attenta e di approfondire maggiormente risposte che mi erano parse ambigue o “indirizzate”. In questi casi la relazione intervistatore-intervistato ha messo in campo una serie di questioni che penso debbano essere esplicitate per rendere il lettore consapevole di possibili vizi interpretativi.

    Nella seconda fase della ricerca (tra ottobre 2008 e luglio 2010) ho raccolto le storie di vita dei migranti trasferiti e mi sono concentrata sulla realizzazione di interviste aperte ad attori privilegiati ritenuti rilevanti per la ricostruzione della policy inquiry.

    Il team di ricerca ha organizzato un focus group con gli attori, istituzionali e non, responsabili del progetto e della sua implementazione. Più in dettaglio, al focus group hanno partecipato l’allora assessore all’immigrazione e politiche abitative, il dirigente del servizio politiche abitative, il caposettore del provveditorato, la dirigente del servizio immigrazione, il presidente e un operatore della cooperativa “Il Sestante”, un operatore dello sportello “Open Windows” (sportello di segretariato sociale istituito in via Anelli).

    Nel focus group sono stati affrontati temi come gli obiettivi e le modalità di realizzazione del progetto di desegregazione, i criteri di individuazione e di assegnazione degli alloggi, i criteri di selezione dei migranti da trasferire, il lavoro di accompagnamento nel nuovo alloggio e di mediazione dei conflitti portato avanti da “Il Sestante”, i contenuti del progetto “Oltre il ghetto” e le azioni fino a quel momento implementate.

    I dati emersi dal focus group sono stati ulteriormente arricchiti da 7 interviste, realizzate tra aprile e luglio 2010, in cui una parte degli attori del progetto di desegregazione sono stati sollecitati ad approfondire ulteriormente alcuni aspetti, relativi soprattutto alla gestione dell’uscita dalle case popolari dei migranti che vi erano stati collocati in seguito allo sgombero delle sei palazzine di via Anelli.

    È stato rilevante osservare, grazie al materiale biografico situato in un arco di tempo dilatato come si fosse modificato lo sguardo su Via Anelli dei suoi ex abitanti e come il trasferimento avesse influito sul processo di costruzione dell’identità dei “non ancora cittadini”.

    Il caso studio di Johannesburg si è delineato invece in maniera completamente differente. Lo studio di Via Anelli mi aveva portato a familiarizzare con concetti quali confine, separazione e segregazione. Non mi era chiaro inoltre come la questione della cittadinanza (e di conseguenza le politiche di cittadinanza) avesse o meno influenzato non solo la costruzione di Via Anelli, ma anche la sua dispersione a mezzo di politiche. Ero convinta che un caso studio come Johannesburg, città post-apartheid, mi avrebbe aiutata ad approfondire alcuni di questi punti, soprattutto relativamente al rapporto tra cittadinanza e appropriazione degli spazi urbani. Per questo motivo, come descriverò nei paragrafi successivi, il caso studio di Johannesburg è stato strumentale per approfondire alcune questioni che il caso studio “intrinseco” di Padova aveva aperto.

    Sono stata a Johannesburg nei mesi di agosto e settembre 2009 a seguito di un lavoro di ricerca “a distanza” il collaborazione con l’Università di Witwatersrand che mi ha permesso di delineare un disegno di ricerca prima del mio arrivo. Dalla lettura di altri studi e ricerche, mi sembrava che il caso dei migranti mozambicani a Johannesburg potesse offrire del materiale fertile per andare a fondo nell’analisi dei significati del confine, della separazione socio-spaziale e del concetto di cittadinanza. I mozambicani, gruppo nazionale maggioritario a Johannesburg, vivevano una vita invisibile e ai margini nonostante il tema dell’immigrazione e della diversità urbana fosse all’ordine del giorno nell’agenda politica e mediatica locale. Ciò che mi interessava approfondire erano i fattori che avevano contribuito alla creazione di una zona di marginalità i cui confini erano definiti dalla vita quotidiana e dalle pratiche messe in atto dagli stessi mozambicani.

    A Johannesburg la ricerca è stata svolta grazie al lavoro di un contatto mediato di due migranti che mi hanno accompagnata durante la raccolta delle storie di vita. Se inizialmente avevo pensato all’utilizzo di interviste non strutturate, successivamente mi sono resa conto che utilizzare interviste non direttive per raccogliere storie di vita mi avrebbe aiutata a raccogliere maggiori informazioni utili e sicuramente più complesse. Accanto alla raccolta delle storie di vita ho utilizzato l’osservazione partecipante di alcuni luoghi indicati come significativi dagli stessi mozambicani (il M.C., il parcheggio di M.D., alcuni parrucchieri a Rosettenville [4]).

    Sia a Padova, sia a Johannesburg il lavoro di ricerca sul campo si è svolto grazie all’aiuto di un contatto mediato (o più di uno) in grado di accompagnarmi durante la ricerca degli intervistati e in contesti dove la mia sola presenza avrebbe totalmente falsato la raccolta delle storie di vita. La scelta dei soggetti da intervistare/incontrare si è delineata in divenire, come se le storie di vita raccolte in precedenza mi avessero “accompagnato” proprio verso quel soggetto o consigliato di scartarne altri. Il processo di complessificazione è avvenuto non solo attraverso l’incontro di attori coinvolti a vario titolo all’interno del processo in osservazione, ma anche dalla capacità di condurre una conversazione che di volta in volta aprisse diverse parentesi, altre porte di analisi, a seconda della peculiarità dell’intervistato. Allo stesso tempo sia a Padova, sia a Johannesburg ho condiviso gli spazi di vita e i processi di attribuzione di senso dello spazio pubblico e privato con alcuni migranti in particolare, seguendoli nelle loro giornate quotidiane, rimanendo nelle loro case, partecipando alle loro interazioni altri, ai ritrovi nei luoghi pubblici e privati.

    Nella ricostruzione del percorso di ricerca vorrei rendere consapevole il lettore del processo attraverso il quale ho ricostruito la realtà e il suo racconto. Melucci (1990) chiama questo percorso di “doppia ermeneutica” perché è in grado di “attribuire un senso allo stesso percorso di attribuzione di senso”. La doppia ermeneutica è in grado di accompagnare il lettore in una lettura consapevole, non filtrata, ma resa palese anche nei suoi punti contraddittori e problematici. Credo che in questo modo il lettore possa effettivamente percepire allo stesso tempo la parzialità e validità del mio lavoro di ricerca. Per questo motivo parlo di “riflessività” del ricercatore: ho cercato di posizionarmi all’interno del percorso di produzione di conoscenza consapevole che questo processo influisca fortemente non solo sul materiale che si raccoglie ma soprattutto sulla modalità di significarlo.

    Quando il caso studio è intrinseco o strumentale: la comparazione come “modo di conoscere”

    Se la prospettiva di case study intrinseco si rivolge ad un caso ritenuto significativo nella sua singolarità, quello strumentale è funzionale ad un approfondimento teorico più generale o alla comprensione di qualcosa d’altro di ancora più significativo (Attili, 2002, p.88). Mi sono molto interrogata sul processo che mi ha portato ad indagare due casi studio così differenti sia per il tipo di contesto di osservazione (Nord vs Sud del Mondo, metropoli vs città…) sia per le dinamiche incontrate (una contesto di “quartiere”, un caso di conflitto spaziale situato Vs un gruppo nazionale e la sua inclusione urbana e sociale nella vita quotidiana).

    Via Anelli a Padova è stato un caso studio intrinseco (come definito sopra) la cui motivazione è derivata appunto dalla necessità di approfondire un determinato contesto territoriale. Uno studio così dilatato nel tempo ha poi permesso di ragionare su diverse questioni teoriche più generali: se il muro in Via Anelli esisteva ben prima che fosse costruito, quali sono i meccanismi capaci di definire confini, segregare e marginalizzare? Che tipo di cittadinanza esercita chi sta ai margini? Quale il significato di termini quali inclusione e esclusione?

    La post apartheid Johannesburg mi ha permesso, anche grazie alla sua storia peculiare, di osservare e approfondire alcuni di questi punti, senza la necessità di dover per forza comparare, ma con la possibilità di definire traiettorie di approfondimento situate. Il caso studio ha offerto materiale per rivedere sotto una luce diversa quanto raccolto negli anni precedenti, per ridare senso a frammenti non tenuti in considerazione o per risignificare quanto fino a quel momento osservato.

    I due casi studio, in maniera differente, mi hanno dato l’opportunità di “mettere a valore” (provare) delle ipotesi di ragionamento. Ipotesi che si sono costruite nel corso del percorso di osservazione: dal particolare al generale, per poi, attraverso il generale, illuminare ancora il particolare.

    Il lavoro di ricerca è un lavoro comparativo se pensiamo che la comparazione sia “un modo di conoscere” (Rebughini, 1998) che permette di riflettere (e riflettersi) su più universi culturali e di senso anche in tempi differenti. In questo senso la comparazione permette di mettere in rilievo la riflessività degli attori e la riflessività delle stesse società complesse, dove la circolazione delle informazioni impedisce di considerare i contesti comparati come sistemi chiusi. In questo senso, “l’andare e venire da un caso all’altro” su temi differenti, permette di costruire una contaminazione produttiva che cerca di ottenere il massimo significato da ogni contesto di ricerca, servendosi della conoscenza prodotta reciprocamente.

    La variabile tempo è fondamentale nel processo di costruzione della conoscenza: essa è in grado di modificare il processo di costruzione dei soggetti di ricerca e la relazione tra questi e il ricercatore. Inoltre, nel corso della propria esperienza di ricerca nei diversi contesti comparati, il ricercatore modifica ogni volta la sua esperienza e, attraverso l’azione riflessiva, cambia in parte i propri presupposti. La costruzione della realtà nel contesto successivo sarà quindi influenzata dall’esperienza precedente e così via ogni volta che la ricostruzione della ricerca passa “da un caso all’altro”. La comparazione, allo stesso tempo, permette più facilmente di tracciare quel filo che guida la spiegazione stessa: in altre parole permette di tracciare le tappe del percorso di attribuzione di senso non solo degli attori osservati, ma dello stesso ricercatore.

    Ma qual è la giusta distanza rispetto al contesto in osservazione? Questo punto è stato per me particolarmente problematico nel caso studio di Via Anelli, dove è risultato difficile “uscire dal quotidiano”: “è proprio il suo essere altrove rispetto al qui del mondo della vita quotidiana che permette al ricercatore di collocarsi ad un livello diverso, di operare quel passaggio che segna l’inizio di un percorso di apprendimento (Neresini, 1998). “Fare ricerca” e “riflettere sulla ricerca” sono pratiche differenti (ivi, 1998) anche se spesso coincidenti nel tempo: il processo di conoscenza passa in continuazione dal “fare” al “riflettere”, in un processo di creazione di conoscenza potenzialmente infinito, dove “i due tempi” della ricerca si contaminano a vicenda. L’altrove del ricercatore è quella “giusta distanza” che gli permette di operare una traduzione, dall’azione al significato dell’agire. In questo senso, teorie, altre discipline, conoscenza comparata, “entrano ed escono” continuamente dal soggetto di studio che il ricercatore ha portato, nel corso del tempo, da qui all’altrove (Latour, 1998b).

    La narrazione è anche potere, non solo resistenza

    ‘Narrare è un’azione transitiva. Lo è in senso duplice: si narra qualcosa e si narra a qualcuno’ (Jedlowski, 2000). È in qualche misura un’ esperienza, una pratica sociale in cui due o più persone mettono in comune una storia. La storia viene raccontata e ascoltata. Questo genera sia condivisone, sia riconoscimento dell’altro. Anche in questo senso l’interlocutore è una figura importante: “è come se raccontare sia portare a compimento la vita mostrandola a un altro; l’impossibilità o la difficoltà di raccontare possono essere così avvertiti come una deficienza dell’essere, una lacuna” (Jedlowski, 2000). Il racconto è una “thick description nella quale la descrizione degli eventi e degli atti è resa con le parole” (Geertz, 1973).

    Durante il lavoro di ricerca la narrazione ha avuto un ruolo centrale, non solo nella raccolta delle storie di vita, ma anche durante l’utilizzo di metodologie complementari. Questo è accaduto nella consapevolezza che la ricerca sociale, come azione di costruzione del mondo, ha bisogno non solo dell’osservato ma anche dell’osservatore perché possa cominciare.

    La storia di vita è un atto narrante (Attili, 2008, p.96) : è un rapporto dialogico tra chi fa ricerca e chi decide di raccontarsi. Il narratore riesce a riconoscere la propria identità e a dare significato alle proprie azioni attraverso il racconto; allo stesso tempo l’osservatore mette nella storia una serie di altri concetti complessi e ne astrae dei significati. Una storia di vita non è né l’azione né l’agente, ma la storia che l’agente nel suo agire si è lasciato dietro e che, attraverso la sua narrazione, produce percorsi di senso (ibidem, 2008).

    Un ragionamento di questo genere porta a sostenere che anche l’osservatore contribuisce a produrre conoscenza e che il processo di conoscenza è eventuale e relativo; allo stesso modo il metodo biografico non crede nell’esistenza di criteri di validità scientifica oggettiva perché la validità di ogni lavoro di ricerca si perde nella sua dimensione rappresentazionale e discorsiva (Melucci, 1998).

    Nella teoria metaforica del significato, il significante, cioè l’effetto che il segno produce sull’interprete, è rilevante. È l’osservatore allora che riveste di significato i concetti, e ciò implica che la produzione di nuovi concetti è potenzialmente infinita (Gangemi, 1999, p.151). Per questo la relazione dialogica fra l’osservatore e l’osservato deve essere lasciata libera di agire perché è proprio nel confine fra l’uno e l’altro che la relazione diventa vivente. La relazione fra osservatore e osservato viene argomentata all’interno di una cornice di senso.

    Attili (2008, p.55) sostiene che per rispondere al rischio di indeterminatezza, psicologismo e relativismo estremo dell’approccio biografico sia necessario situare la storia di vita all’interno di una cornice che oltre ad inquadrare la storia, esibisce l’atto del narrare. In altre parole, deve essere definito un orizzonte temporale, in grado di situare il materiale biografico. Deve essere palesato il più possibile il ruolo che il ricercatore ha svolto, le domande proposte, i suoi pregiudizi, la sua memoria, i filtri consapevolmente adottati tra l’osservatore e l’osservato. Devono essere intelligibili le reazioni dell’intervistato, le sue paure, i pregiudizi, le possibili realtà immaginate, le gestualità, la maniera di porsi rispetto al ricercatore nei diversi contesti affrontati; ancora il modo di condurre l’intervista, il luogo scelto (o non scelto) e i cambiamenti che queste situazioni impongono nella relazione fra osservatore e osservato fanno parte del materiale biografico.

    Mi sono chiesta, ad esempio, se al M.C. [5] di Johannesburg le storie dei mozambicani fossero amplificate per la voglia di comunicare la propria situazione ad una giornalista (si era infatti sparsa la voce che io fossi una giornalista italiana) che potesse rendere le loro storie visibili ad un pubblico internazionale:

    “Durante la prima visita al M.C. mi sono trovata a gestire una situazione complicata per la mole di informazioni da raccogliere: si era sparsa la voce che ero una giornalista italiana e che avrei scritto un pezzo sui mozambicani a Johannesburg. In un attimo i tre tavolini vicino a me erano popolati di persone che volevano raccontarmi la loro storia, parlando l’uno sopra all’altro, senza lasciarmi la possibilità di “mettermi un ascolto”. Quello che ho fatto nella mezz’ora successiva è stato spiegare meglio che cosa stessi veramente facendo in quel pub. Non sono sicura che tutti abbiano capito. Ma, come risultato, molte persone sono tornate ai tavoli di biliardo o a guardare la partita. E da quel momento ho iniziato a raccogliere alcune storie di vita” (estratto da diario etnografico di ricerca, Johannesburg, 2009).

    Allo stesso modo mi sono chiesta se a Padova, durante la seconda fase della ricerca, il mio rapporto con gli ex-abitanti di Via Anelli si fosse modificato perché mi percepivano come una persona “vicina al Comune”. Durante diverse interviste in profondità mi è successo di dover spiegare che io non avrei potuto fare in modo di prolungare la permanenza nella nuova casa o trovarne una più grande [6].

    La raccolta delle storie di vita e delle altre narrazioni non ha seguito la logica quantitativa dell’accumulo di biografie (Attili, 2008). Quello che ho cercato di privilegiare è la significatività del racconto piuttosto che la sua rappresentatività.

    Il lavoro di ricerca ha utilizzato un campionamento “non statistico” attribuendo valore alle tendenze ripetute all’interno delle storie di vita. La rappresentatività in questo senso è garantita dalla capacità dell’osservatore di raccogliere punti di vista che servono a complessificare il processo di conoscenza al fine di raccogliere “tendenze ripetute” che si costruiscono come profezie che si auto adempiono (Watzalvick, 1984). Questa metodologia, altresì chiamata, “knowledge saturation” viene a costruirsi grazie a un campionamento “a palla di neve” (Silvermann, 2000).

    Il lavoro di ricerca apre a nuove e future interpretazioni, nella consapevolezza che i criteri di validità del lavoro scientifico non sono proprietà ontologiche degli oggetti ma regole istituzionali prodotte da una comunità all’interno di un determinato paradigma/contesto (Melucci, 1998). Questo ragionamento porta a problematizzare l’esistenza stessa di criteri di validità scientifica oggettiva. Come Cipriani (2000) sostiene “una storia di vita risulta più vera in senso sociologico quanto è più costruita sul piano reale”. L’interesse si sposta dalla pretesa verità, al processo di attribuzione di senso da parte dei soggetti che raccontano perché è lo spazio retrospettivo ad essere rilevante. In questo senso il ricercatore sa di rappresentare uno sguardo parziale, ma allo stesso tempo valido rispetto ad un certo orizzonte spazio-temporale. La verità si perde nella sua forma rappresentazionale e discorsiva dove quello che conta è l’atto narrante in quello spazio e tempo e, di conseguenza, la profondità d’indagine.

    L’utilizzo di un metodo qualitativo, basato sulla narrazione e il metodo biografico, non è dovuto a “nobilitare l’indigeno” (Sayad, 2008, p.39), ma cerca di mettere al centro l’uomo, le sue pratiche e percorsi di attribuzione di senso. Questo a maggior ragione se l’obiettivo della ricerca è quello di indagare nuove forme di rappresentazione del rapporto società/territorio e di problematizzare il concetto di cittadinanza basato sulle categorie di “residenza”, “stanzialità”, “appartenenza”. Quali sono le pratiche che muovono i “non ancora cittadini” che abitano quei caravanserragli di cui parla La Cecla (1997)? Quale lo scarto, quella distanza, che divide l’outsider dal “buon cittadino”? Quali le forme di rappresentazione del territorio? Per cercare risposta a queste domande, i due casi studio hanno analizzato i modi e i luoghi in cui la differenza viene costruita e utilizzata (Colombo, Semi, 2007, p.37).

    Ho sempre avuto la consapevolezza, fin da prima di poter codificare un metodo, che avrei potuto indagare questi spazi solamente avvicinandomi all’umano, ricostruendone percorsi, sensazioni e pratiche. Poco mi avrebbero raccontato cartografie, documenti ufficiali e numeri.

    Sono allo stesso modo consapevole che gli uomini e le loro pratiche non esistono al di fuori di un contesto e che il metodo biografico sia possa portare a idealizzare di ciò che il “diverso” racconta. In questo senso, anche se a partire da un’angolatura diversa, Dal Lago (2004) sostiene che vi sia un’osmosi tra scienza e senso comune e di conseguenza l’attività scientifica (e di ricerca) è una pratica conoscitiva sociale. In merito ai fenomeni migratori, “tra tutte le questioni pubbliche la questione immigrazione suscita più facilmente di altri l’esercizio della retorica scientifica perché è gravido di implicazioni strategice […] nonché di presupposti, preoccupazioni e orizzonti di senso comune che lo scienziato condivide in tutto o per tutto con l’uomo della strada […]” (Dal Lago, 2004, p.149).

    Un lavoro di ricerca che si occupa di questi tempi deve essere consapevole dell’ “immigritudine” (Lazzarino, 2011, p.103), quel “brusio discorsivo diffuso che riguarda le migrazioni che trova spesso origine in una mancata conoscenza dei fatti e dei dati o, al contrario, in una iperidealizzazione di ciò che è “esotico” e che pertanto è facilmente sfruttabile e strumentalizzabile dalle diverse élite politiche/interllettuali/economiche” (ibidem, 2011).

    L’ “immigritudine”, allo stesso modo, ricollega la figura del migrante ad una sola delle sue condizioni esistenziali a scapito di una serie di posizionamenti soggettivi che rendono l’individualità di chi migra assai più complessa. Secondo questa distorsione cognitiva (che ha degli effetti sulla definizione di interventi e politiche) il migrante è un “nomade” prima che un “soggetto” inserito in una determinata società di “accoglienza”.

    È a partire proprio da questa consapevolezza che ho sentito l’urgenza, per il mio lavoro di ricerca, di usare un metodo che mi mettesse di fronte alla sfida della “giusta distanza” tra il coinvolgimento e l’empatia legate al fatto di calarsi in situazioni reali (e spesso di limite) e la necessità di esercitare forme di distacco dal soggetto di studio e di emersione delle differenze tra ricercatore e narratore (Cognetti, 2009, p.5). Quello che ho cercato di imparare è la pratica di “osservarsi osservare”: ho provato ad esplorare questa condizione di instabilità, tra il distacco e l’empatia, perché praticare questo confine e averne consapevolezza è stato un ulteriore modo per fare emergere paesaggi interiori, esito non solo degli spazi legati al racconto e all’immaginazione, ma anche del contributo di chi ascolta, orienta, custodisce e riporta alla luce (ibidem, 2009). Questo andare e venire, dal distacco all’empatia, mi ha allo stesso modo aiutata a osservare la relazione dialettica tra vita quotidiana e condizioni macrosociali (Alietti, 2004). Il tenere un “diario di bordo”, etnografico, mi ha aiutata in questo processo di consapevolizzazione e il secondo luogo l’attenzione alla riflessività nella ricerca rende il ricercatore perlomeno consapevole.

    La mia posizione nella ricerca non è a-valutativa: la “spinta al cambiamento” che mi ha mosso verso questi due casi studio male si concilia con la pretesa di distacco dal mondo osservato. Quello che sicuramente ho cercato di mantenere è un approccio “non ideologico” all’analisi delle pratiche, consapevole che non è solamente la gente ai margini a “fare qualcosa”. Se una pratica è “ciò che la gente fa” devono essere poste sotto osservazione anche le pratiche disciplinanti, le pratiche del potere, le pratiche di chi non è ai margini. Troppo spesso gli studi urbani sembrano mitizzare un approccio di pratiche per descrivere i territori della marginalità senza indagare quali altre dinamiche abbiamo spinto/coadiuvato i comportamenti e le azioni della gente. Se si accetta un approccio del genere la differenza sembra essere qualcosa di dato, mentre essa è una condizione socialmente costruita ed elaborata esito di un processo spesso conflittuale.

    Questa mia posizione nella ricerca è una posizione “politica”: la responsabilità che sento è quella di raccontare “le buone ragioni per cui le persone ai margini fanno quel che fanno [7] (Jedlowski, 2011) e allo stesso tempo situare questa narrazione all’interno di un discorso più ampio sul contesto politico-sociale che dà ai racconti di vita una specifica “curvatura”. In questo senso nel racconto singolare abita “il generale”: se la narrazione è un “agire sociale-politico” (Jedlowski, 2011) dotato di senso e significato tramite pratiche narrate, allora il sociale-politico può essere allo stesso tempo ricostruito e analizzato a partire dai racconti della gente. In questo senso le pratiche narrate diventano pratiche di resistenza attraverso le quali leggere il potere e i suoi dispositivi.

    Wright Mills (1995) osserva i nessi tra processi sociali e vita individuale: l’ “immaginazione sociologica” è quella facoltà e attitudine della mente che permette di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società. Sono gli individui e le loro esistenze quotidiane a mettere in moto i processi sociali più complessi e a riprodurli e sono questi processi, che allo stesso tempo, hanno capacità di influire sulla vita di ogni giorno. È in questo senso che “ogni breve descrizione è molto più ricca di possibilità analitiche di quelle disponibili nella analisi convenzionali delle scienze sociali” (Becker in Turnaturi, 2003, p.34).

    “Assistiamo oggi al declino delle grandi identificazioni collettive e all’emergere di attori sociali frammentati e plurimi” (Melucci, 1990, p.206): a partire da questa consapevolezza l’osservazione del ricercatore si sposta sui processi di costruzione dell’azione sociale e l’azione è un processo interattivo all’interno di un campo di possibilità e di limiti che gli stessi attori riconoscono.

    Vita quotidiana e condizioni macrosociali

    La vita quotidiana è il piano su cui si misura la qualità della vita che è oggetto di rivendicazioni, aspirazioni, critiche e strategie individuali e collettive (Jedlowski, 2003, p.167). La realtà come costruzione sociale è il risultato di processi di interpretazione e di azioni ripetute rispetto a cui ciascun individuo per la sua parte ha una dose di responsabilità. Le lenti di una sociologia della vita quotidiana sono in grado di portare alla luce riflessioni su ciò che gli esseri umani compiono, in maniera irriflessiva, nel loro agire giorno per giorno.

    Secondo Melucci (1998) i processi di individualizzazione delle società complesse tendono a creare condizioni di autonomia per i soggetti individuali. Per questo la vita quotidiana assume valore come spazio in cui i soggetti costruiscono il senso del loro agire e in cui sperimentano opportunità e limiti per l’azione (ivi, 1998). Il senso dell’agire, di conseguenza, è sempre più prodotto relazionalmente invece che assegnato dalle strutture sociali e sottoposto ai vincoli rigidi dell’ordine costituito.

    Ancora, secondo Jedlowski, le pratiche sono insieme di azioni fissate più o meno dall’abitudine o dalla tradizione. Tendono spesso ad assumere forma di routine, dando per scontate alcune azioni. Crosta va oltre sostenendo che “è meglio non dare mai per scontato il funzionamento della pratica” (Crosta, 2010, p.131): una pratica è quello che la gente fa con l’intenzione di fare, senza però farsene ogni volta un problema; non è la somma di singole azioni che vengono coordinate tra loro in modo deliberato da coloro che le compiono. Una pratica non è nemmeno un’azione congiunta: è invece un’azione collettiva non intenzionale che si costruisce attraverso le interazioni di un insieme di agenti, umani e non umani assieme. Una pratica, quando è agita, forma una rete di relazioni e gli agenti che vi intervengono acquisiscono identità e significato.

    L’atto di non dare per scontato il funzionamento di una pratica riporta l’attenzione sulla possibile rottura della routine: la vita quotidiana vissuta in omogeneità sociale e culturale, ad esempio, si interrompe come routine nel momento in cui outsiders utilizzatori del territorio urbano e sociale irrompono nella scena pubblica. In questo senso il conflitto può diventare un momento in cui gli utilizzatori diventano visibili e nuove condizioni di interazione vengono sperimentate (Crosta, 2010, p.144). È chiaro che in questo senso i confini della vita quotidiana vengono ridefiniti e di conseguenza mai dati per scontati. In questo senso i territori della diversità non sono degli a-priori, ma dei costrutti che vanno analizzati nella pratica per comprenderne modalità di costruzione e definizione di confini. A partire da questo punto il conflitto sociale diventa un conflitto politico perché in grado di dare forma all’identità. Il conflitto, come sostiene Vitale, è un processo di identizzazione (Vitale, 2006, p.16).

    Lo studio dell’immigrazione è essere uno “strumento” in grado di facilitare un processo capace di rimettere in discussione la nozione amministrativa di territorio, la figura del migrante come “solo immigrato”, la nozione di differenza preesistente all’interazione sociale e la concezione della cittadinanza come possesso di uno status.

    Come sostiene Jedlowski, la ricerca sociale ha il compito di scoprire l’equazione fra i contenuti individuali e sovra individuali della vita cui le formazioni sociali specificatamente moderne danno luogo (Jedlowski, 2003) in altre parole ciò che conta è indagare i movimenti con cui la personalità si adegua alle forze ad essa esterne (Simmel, 1996, p.36). Allo stesso modo la ricerca sociale dovrebbe avere il compito di indagare le pratiche sociali che, pur non costituendo un’alternativa all’azione dello Stato, sono peculiari modalità attraverso cui produrre beni pubblici plurali. Questo avviene con più enfasi in una società delle differenze (Crosta, 2010, p.51).

    Se ciò che rende un migrante mozambicano invisibile a Johannesburg è il suo rapporto con il potere, è necessario, oltre a ricostruire la sua narrazione di sé, indagare “altre pratiche” che rendono l’invisibilità l’unica possibilità di resistere alla “deportabilità” (De Genova, 2004) della città post apartheid.

    In una prospettiva etnometodologica, “l'ordre social ne découle pas automatiquement du partage de modèles d'évaluation et de rôle sociaux, mais est constitué, comme activité pratique, dans le cours des interactions quotidiennes” (Di Maggio, Powell, 1997, p.138). È questa consapevolezza che mi ha portato ad approfondire la prospettiva neoistituzionalista per trovare quel filo che lega le pratiche quotidiane individuali alle strutture collettive e di potere.

    Il neoistituzionalismo si fonda su una teoria dell’azione pratica e quindi dà centralità ai comportamenti non riflessivi, alle routine, e alle pratiche: “Ensuite, ces travaux s'éloignent de l'intérêt que Parsons portait aux aspects rationnels, calculateurs, de la cognition pour centrer leur attention sur les processus et les schémas préconscients parce qu'intégrés dans la routine, dans un comportement non réflexif (l'activité pratique), et pour décrire les dimensions evaluative et affective de l'action comme étant intimement liées - et dans une certaine mesure subordonnées - à la cognition” (Di Maggio, Powell, 1997, p.141). In questo senso se le istituzioni vengono analizzate come strutture cognitive, normative e di regolazione, il comportamento individuale può risultare come un riflesso di pressioni esterne piuttosto che di scelte intenzionali.

    I casi studio analizzati durante la ricerca mi hanno raccontato come l’azione e il suo soggetto vi hanno preso forma. Quello che ho definito “zona di eccezione”, a Padova come a Johannesburg (Agamben, 2003; Soja 1996; Bay, 2007; Ostanel, 2010), è lo spazio sociale e materiale che identifica un’articolazione stretta tra attività e passività, tra fare e subire, tra pratiche di dominazione e resistenza (Quéré, 2002: Dewey, 1934; Sassen, 1996). Ogni narrazione che ho raccolto deve essere collocata all’interno di questa prospettiva che lega la vita quotidiana e la sua rappresentazione al “locale” (Crosta, 1998) nella quale il soggetto agisce. L’insistenza sul contesto non richiede necessariamente che ci si concentri sulla contemplazione isolata del frammento, ma richiede che sia fatta emergere la “trama” e l’incessante circolarità che lega micro e macro (Marcus, 1998). Inoltre quando la differenza viene costruita è essa stessa parte di quel contesto che andiamo ad osservare e con cui gli attori coinvolti si devono misurare.

    Foucault (1994) parla di strategia senza soggetto per ricordare come l’azione si finalizza in rapporto ad un obiettivo che non si è imposto, ma che si è trovato ad imporsi. Un dispositivo è “un insieme decisamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, sistemazioni architettoniche, decisioni filosofiche, morali, filantropiche, insomma un detto ma anche un non detto…[…]. Il dispositivo è la rete che si può stabilire tra questi elementi”. Il motto “non esistono che le pratiche” (Crosta, 2010) deve essere inserito in questo quadro di analisi, capace di ritornare all’azione pratica situata di chi abita il territorio. In questo senso un lavoro di ricerca può ridare centralità al rapporto tra lo spazio e il politico, tema che troppo spesso viene lasciato ai margini della trattazione.

    Note

    1] Come sostiene Cipriani citando Popper “noi non siamo studiosi di certe materie bensì di problemi. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina” (Popper, 1993).
    2] Per maggiori informazioni sull’associazione si consiglia di visitare il sito web https://razzismostop.wordpress.com/chi-siamo-2/.
    3] L’obiettivo era raccogliere alcuni dati dettagliati sulla situazione abitativa dell’intervistato e sulla sua soddisfazione sulla base di alcuni parametri, rispetto ai quali gli era richiesto di operare un confronto tra l’abitazione attuale e quella in Via Anelli. In secondo luogo quello di indagare se con il trasferimento sia o meno migliorato l’accesso ai servizi, anche in questo caso con domande specifiche riguardo a una serie di elementi (medico, asilo, scuola materna, trasporti, strutture ricreative e sportive, chiesa o moschea, negozi e centri commerciali, bar, banche e poste), e come/dove trascorra il proprio tempo libero l’intervistato.
    4] Ho deciso di non utilizzare i nomi completi dei luoghi frequentati perché mi è stato chiesto dai migranti mozambicani di non rivelare la loro identità o i luoghi in cui li avevo incontrati. Un dato importante per comprendere, tra gli altri elementi, la questione dell’invisibilità ricercata che approfondirò nei capitoli successivi.
    5] Il M. C. è un locale gestito da un Mozambicano nel centro di Johannesburg che viene usato come luogo di ritrovo per molti mozambicani della città.
    6] Per approfondire la politica di dispersione che è stata oggetto dell’analisi riporto un estratto del volantino diffuso nel dicembre 2008 a firma del sindaco e dell’assessore alle Politiche abitative, dell’accoglienza e dell’immigrazione in occasione della proiezione presso il cinema “Astra” di Padova : “La caratteristica saliente del progetto in esame è stata quella di trovare una degna sistemazione abitativa alle persone e alle famiglie che vivevano in via Anelli in condizioni igieniche e umane non degne del livello di civiltà di cui Padova e l’Italia sono portatportatrici. È bene sottolineare come queste persone sono tutte titolari dei diritti necessari a ricevere questo tipo di assistenza abitativa di emergenza (permesso di soggiorno e contratto di lavoro), e che la sistemazione è provvisoria, in quanto, una volta cessata l’emergenza, esse potranno concorrere ad un alloggio con gli altri cittadini padovani nelle normali liste di attesa per l’assegnazione della casa sulla base dei criteri ordinari ed ordinati dalla legge”.
    7] Questi estratti sono riprese dalle conclusioni del Convengo “Raccontare, Ascoltare, Comprendere” organizzato dall’Università di Trento il 22-23 settembre 2011.

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