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  • La lettura di sé e dell'altro
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.1 Gennaio-Aprile 2011

    SCRIVERE IL PROPRIO CORPO

    L’autobiografia tra ricerca di senso ed esperienza di cura

    Duccio Demetrio

    duccio.demetrio@unimib.it
    Professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’università degli studi di Milano-Bicocca. Fondatore della rivista Adultità, della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari(www.lua.it) e della Società di pedagogia e didattica della scrittura, si occupa di consulenza autobiografica e grafoterapia come supervisore scientifico dello Studio Scriba di Milano (holzknecht.unimib@tiscali.it). Tra i suoi scritti dedicati alla scrittura: Raccontarsi(1996); Autoanalisi per non pazienti(2003); La vita schiva(2007); La scrittura clinica(2008) tutti editi da R. Cortina. Di imminente uscita: Grafoterapia. Metodi e tecniche di scrittura nella sofferenza mentale ed. Erickson.

    “Io sono ciò che mi sfugge”: una conoscenza narrativa di sé

    La frase è di Franz Kafka. Ci rammenta che ogni presa di coscienza individuale del nostro stare al mondo rinvia a qualcosa di inafferrabile. Se tendiamo alla comprensione del senso della vita, se cerchiamo di conoscerci compiutamente almeno a livello personale. Ciò che, per consuetudine, denominiamo “io”- ben più di un pronome, piuttosto un simbolo, un linguaggio che indica la biograficità di ogni nostro vissuto - si presenterebbe contrassegnato, secondo il grande scrittore praghese, da una natura in verità quanto mai fragile e vulnerabile, rispetto alle funzioni egemoniche, che solitamente gli vengono attribuite. L’io si rivela quindi non solo una metafora rassicurante (io so di pensare, so di decidere, so di esistere nella mia differenza irriducibile, ecc) bensì soprattutto inquietante. Quando pur percependo, ragionando, soffrendo in prima persona ci accorgiamo che non potremo mai definitivamente possederci e sapere di noi per lo meno per quanto concerne un “sicuro sapere di sé”. Del resto, tale forma linguistica e rappresentazione mentale non poggia su alcuna legittimazione scientifica di carattere organico.

    L’io è una categoria filosofica prestata alla psicologia. Anche se fu senz’altro il nostro cervello, chissà dove e chissà quando, ad averne bisogno; ad inventarsi in lingue diverse, le sue proprietà. Anche se furono le vicissitudini ambientali e della sopravvivenza a provocarne indubbiamente l’insorgere, così come i processi genetici di differenziazione sia biologici che di ordine sociale. Sappiamo poi che, convenzionalmente, da secoli ormai l’io rinvia ad un principio razionale (pratico oltre che morale) che regolerebbe la vita psichica, il quale dovrebbe ordinare e governare secondo logica, convenienza, condotte culturali più accreditate in un dato luogo, in un dato tempo, i nostri istinti. Ma sappiamo anche che questi quanto mai nobili e preziosi compiti riferimento vengono meno o trasgrediscono agli ideali che lo informano. Poiché l’io, in quanto oggetto anche misterioso non è esente da debolezze: si mostra cedevole, accomodante è disposto, in quanto manifestazione della adattabilità dell’intelligenza umana, a smentirsi e a trasformarsi all’occorrenza. Per tali motivi c’è chi gli preferisce la dicitura My Self: indicante tutto ciò che mi riguarda, che mi appartiene. In tal modo designando, pur sempre con un’altra metafora, un’entità più complessa dove l’io si collocherebbe come parte di un tutto altrettanto inafferrabile, ma senz’altro più plastico e meno soggetto al vincolo del solo raziocinio, così caro alle tesi freudiane dell’origine.

    Tuttavia, all’io vengono di solito attribuite (anche così ridimensionato) compiti di regia delle condotte e del pensiero, seppur vincolati e sottoposti alla imprevedibilità, alle istanze istintuali, delle altre componenti il nostro sé: emblema di una totalità vitale di natura innanzitutto corporea. Il corpo rappresenterebbe il vero luogo delle nostre verità, segrete o evidenti. Le più materiali, organiche e le meno metaforiche: questa volta. L’io soggetto alle oscillazioni del Sé (corpo), ai rischi dei suoi malesseri, continuerebbe ugualmente a rivendicare il compito di adoperarsi per tenere insieme, contenere ed orientare, una molteplicità di pulsioni, di manifestazioni e comportamenti nient’affatto sempre disposti a sottomettersi ai voleri della ragione. Ma da signore assoluto si troverebbe retrocesso al rango di consigliere, talvolta pedante, e utile comunque ad evitare, non sempre con successo in molte circostanze, che il sé-corpo si auto destini alla distruzione. Al contempo, esso continua a legittimarsi per la presenza di un punto di vista del tutto personale, il quale, se non completamente svincolato dalla corporeità (il nostro io assomiglia in fondo e non poco al corpo che lo esprime), può autorizzarsi perlomeno a prenderne le distanze “come se” (ma è una delle illusioni dell’io) non dovesse sempre e giocoforza essere in balia della dimensione fisica del proprio esistere.

    L’io svolge però anche una funzione senz’altro operativa e pratica, ci aiuta nelle circostanze più diverse a far udire la nostra voce, a rimarcare le nostre volontà, a ribadire che ci sono questioni assolutamente personali e private, che non tollerano ispezioni, incursioni indebite, aggressioni da parte di una miriade di altri io. Dal momento che per altre tesi non un solo io ci abiterebbe, bensì saremmo frequentati da una “moltitudine” di presenze “egocentriche” – ebbe a sostenere lo scrittore Fernando Pessoa – in lotta tra loro, tutte dotate di ragioni recondite. Delle “loro” ragioni e auto giustificazioni, i cui nomi hanno a che fare tanto con le passioni irrazionali, con i vizi, con le attrazioni fatali, quanto con talenti virtuosi, vocazioni, inclinazioni ed abitudini. La distinzione classica e filosofica tra corpo e mente, in questa accezione si destituirebbe di senso. Il primo terrebbe la mente - sede elettiva dell’io - sotto continua osservazione e sorveglianza; non potrebbe darsi il contrario, anche se nella storia delle forme di autocontrollo, auto dominio, ascesi, elevazione spirituale i tentativi millenari degli esseri umani di piegare il corpo alle intenzioni della mente-io sono stati notoriamente infiniti.

    L’io di cui abbiamo fino ad ora parlato, in quanto “intelligenza personale o di sé”, in questa molteplicità di dizioni, svolgerebbe una funzione soprattutto meta riflessiva: ha il compito, impossibile ad altri suoi emuli e antagonisti, di descrivere, raccontare, interrogare il corpo (quel corpo singolo cui sente e sa di appartenere): “Muovendo dall’esperienza che l’io fa direttamente di sé, dalla percezione che ha di sé come io-corporeo … il nostro sentirci materia – un corpo, cosa del mondo nel mondo – entro la vita della mente, cerca perciò di attingere il soggetto a partire da se stesso come coscienza in atto. Per fare questo non si può procedere altrimenti se non raccontando se stessi … attraverso la presa di distanza dalla propria immediatezza corporea … l’io si comprende come una differenza e non può coincidere in assoluto con la sua corporeità” E se l’io non si percepisse come un’entità distinta “nell’ambiente” e, aggiungiamo, persino da se stesso, “non potrebbe neppure percepirsi come corpo” [1].

    Ma i problemi non sono finiti per l’io

    Se esso è simbolo di ciò che più ci appartiene e che giunge ad immaginare un’esistenza qualitativamente diversa da quella corporea, non per questo nelle sue allucinazioni di grandezza e libertà può dirsi indenne da crisi e spaesamenti che non dipendono dalla materia che gli ha dato vita, ma da se stesso. I limiti dell’io, le sue debolezze, fanno parte della sua intrinseca natura. Dinanzi ad uno spaesamento esistenziale, ad una ferita inferta al nostro amor proprio, alla privazione dei diritti più elementari, l’io si vede costretto a rinunciare alle sue prerogative. Sia razionali, sia meta riflessive. Poiché nei momenti di grande turbamento il suo potere conoscitivo e riflessivo non è sufficiente a spiegarci quello che sta accadendo e a salvarci. L’io si rifugia al suo interno, tagliando i contatti col resto del mondo, si incrina e va in pezzi. Se è già ben difficile rispondere senza esitazione alla domanda che cerchiamo sempre di scansare nella normalità, nella quiete, “chi sono io?”, negli stati di disagio, di smarrimento esistenziale, ogni sforzo esplicativo si rivela impossibile in mancanza di un sostegno, dell’io di un'altra corporeità vivente capace di sorreggerti e di “riaggiustarti” nel corpo, in primo luogo. E si tratta, come sappiamo, di circostanze che vedono l’io, quel che ne resta, impegnarsi nel danneggiare la sua stessa casa di carne, in un’alleanza di benessere irrimediabilmente annullata dalla supremazia autodistruttiva di altri demoni-io.

    Dinanzi alla intrinseca indeterminatezza della categoria “io”, potremmo a questo punto disporci a cercare un rifugio, se alla ricerca di qualche certezza, nell’idea quanto mai materiale di corporeità. Il corpo, quale sia il suo stato di salute, di benessere o patimento, è un dato certo, come abbiamo già visto. Possiamo non sapere bene, o più, chi siamo, però sappiamo che il nostro corpo sta pulsando, desiderando, spostandosi, godendo o soffrendo. E’ come dotato di una sua consistente autonomia. Se esso decide di ribellarsi agli ordini dell’io che lo spiega, racconta, giustifica, non c’è nulla da fare. Nessuna meditazione, nessuna attività di elevazione spirituale riuscirà ad evitare che il corpo si ammali e perisca. Il corpo è dunque la nostra verità esposta in tutta evidenza assoluta, non si può nasconderlo, camuffarlo, ritardarne la fine più di tanto. Pur inerte, apatico, anche quando l’io, emblema della nostra coscienza, sia costretto a tacere per un danno subito, il corpo “ci” testimonia comunque; pur nel suo disfacimento, verso il quale un io crudele, masochista, autolesionista può averlo condotto. Se troppo torturiamo l’io con i nostri affanni, torturiamo anche il corpo: non c’è scampo.

    Se potevamo, all’inizio del nostro discorre, ritenere che l’io sia l’entità che più ci sfugge, ora non possiamo che nondimeno il corpo è sottoposto ad un principio di indefinitezza. Ci sfugge quanto l’io. Ogni nostro gesto fisico, ogni fonazione che conferisce al corpo la sua udibilità, una plasticità e tattilità empirica, con tanto altro ancora, non fa che ribadire quanto le radici più materiali, più concrete, del nostro essere in vita, siano evanescenti. Per non accennare a quei molti frangenti vivendo i quali “troppo” corpo ci infastidisce, ci imbarazza, ci impregna di carnalità all’eccesso tacitando la voce dell’io. Non come “grillo parlante”, ma come almeno narratore di quanto ci sta accadendo. Preferiremmo la nostra ingombrante e molesta corporeità altrettanto impalpabile. L’amore del corpo, istintivo o con raffinatezza accudito, sopravanza quello verso un io poco propenso ad accettare servitù dalle quali non riesce a staccarsi. Più raramente accade il contrario: un corpo bello, sano, giovane, oggetto di desiderio rende tale anche l’io più malmesso. Non soltanto perché i piaceri della pelle sono una tentazione continua, ma perché essi sono il sale fecondo sia dell’una, sia il nutrimento sapido, dell’io. In ogni caso, ci si arrende al corpo più volentieri di quanto non accada con le esigenze dell’io, che ci pone continuamente domande; è soggetto ad incomprensibili sensi di colpa, suole dimenticarsi che taluni disagi risalgono a quel corpo che non riesce a mettere in riga e che soltanto accettandoli potrebbero tornare là dove la mente li aveva dimenticati e negati.

    L’esistere umano è innanzitutto atto “di parola” e le parole sono azioni, più o meno consapevoli, responsabili, accorte, quando servono a mutare il mondo esterno ed interno. Spostano l’io e la sua casa. Anche questo dato incontrovertibile dovrebbe definitivamente tranquillizzarci, conducendoci ad affidarci alle regole e alle voglie del corpo, piuttosto che alle eccentricità dell’io. Il quale dovrebbe mettersi l’animo in pace almeno in merito alla nostra identità di carattere spaziale (lasciamo un’ombra, ne abbiamo lasciate in ogni dove) e temporale: siamo nati un certo giorno, da un altro corpo o da Dna incubati e, a nostra volta, diamo vita ad altri corpi.

    Invece, il corpo ci inquieta ancora di più: poiché gli chiediamo di essere quanto non può diventare. Completamente indenne e refrattario al trascorrere degli anni; stabile e incorruttibile. Ci irrita il fatto che quanto più di noi (finalmente) sembrerebbe certo ed evidente, sia costretto a subire trasformazioni involutive fin dalla nascita: chè quando il corpo è fresco, scattante e gioisce chiedendoci ogni cura, ci sembra paragonabile ad una eterea forma semidivina. Ma dal momento che i corpi invecchiano, scendono dall’Olimpo, nonostante ogni escogitazione e protesi ritardante, ne consegue che non possiamo che riaffezionarci a quell’io instabile ed eccentrico. Il quale, se dotato da buona e raffinata intelligenza (una condizione indispensabile) riesce ad illudersi di poter oltrepassare la propria infausta materialità fin tanto che al suo “datore di lavoro” sia dato di respirare. Meglio, molto meglio, di conseguenza, accettare la tesi di Kafka; è preferibile che quell’io sempre sfuggente ad ogni nostro tentativo di comprensione, mantenga la sua enigmaticità fertile, aiutando semmai il corpo, quando possibile, ad assecondare le curiosità del suo ospite, a guidarlo con discrezione ad esplorare territori nei quali possa sperimentarsi più leggero. Territori che oltre a quelli del pensiero, sono quelli delle parole e delle scritture di sé.

    L’io cantore e scrivano di un corpo analfabeta: perché scrivere di sé

    La scrittura, gesto e decisione dell’io, impulso ancestrale e quasi genetico a lasciar traccia del nostro sé, sua ancella, non sempre sa che “si pensa e si scrive perché si muore” (perché il corpo ci abbandona in un assoluto e inappellabile controvoglia) e nemmeno sa che pensare e scrivere è già un poter andare “oltre la morte”; poiché è dall’io, e non dal corpo, che “emerge lo stupore del linguaggio”, la voglia di cimentarsi con una scrittura che possa dar luogo ad una finzione di immortalità: a quella escogitazione millenaria, che ha inventato l’arte della scrittura. La scrittura può nel delirio fare a meno di avvalersi dell’io che la sta inventando pagina dopo pagina. Ma sarà in tal caso una scrittura poco utile al restauro di un io ferito, di un corpo altrettanto offeso. E’ un’invenzione dell’io che si è avvalsa degli strumenti del corpo, piegandola e addomesticandola ai propri voleri, alle fantasticherie, persino all’idea che la morte ci stacchi dal corpo (finalmente) e ci faccia volare librati in aria da un io ormai totalmente libero.

    Sono, queste, le celebri considerazioni del filosofo Jacques Derrida [2] che vogliono ora inaugurare qualche riflessione in merito allo stretto nesso tra corporeità ed impiego della scrittura: nel tentativo di far narrare l’io, in quanto cantore e scrivano di una corporeità analfabeta, troppo spesso capace soltanto di inviarci segnali elementari e primitivi di agio o disagio “scritti” sulla carne da se medesima. L’io per il tramite della scrittura sovrintende al riscatto della nostra corporeità e non soltanto alla descrizione di qualche sua manifestazione, che ci diede qualche felicità e più sovente angustie. Come diremo, introdurre di conseguenza nella clinica o in altri momenti di meditazione e auto riflessività, pratiche di scrittura significa raccontarsi in un doppio registro: quello dell’io narrante e quello del corpo evocato, il quale, una volta tanto, deve sottomettersi ad un io che, accettata la sua kafkiana “indefinitezza”, scoprendo riga dopo riga che il suo cammino proprio per tale destino gli aprirà nuovi orizzonti di consapevolezza esistenziale.

    Ma che possiamo intendere con scrittura di sé?

    Scrivere di sé, della propria vita al passato o al presente, di quel my self (ad iniziali minuscole), è un narrare auto-evocativo che quasi sempre ci conduce, se vissuto in autentico abbandono e sincerità (senza difese e pudori anche del corpo, poiché la scrittura ci mette a nudo), verso esperienze psicologiche insolite e ricordi imprevedibili. Tra questi, non possiamo certo ignorare quelli che attengono o attennero al nostro aspetto fisico, alla nostra corporeità, nelle sue implicazioni descrittive e “auto ritrattistiche” o in quelle più intime e segrete. Per pudore a lungo taciute e che, tutto ad un tratto, lo scrivere ci dà l’ardire e il coraggio di svelare. D’altro canto, ogni testo da noi redatto, soltanto poche righe, lasciano trapelare sempre qualcosa della nostra visibilità e non solo di ciò che è totalmente inavvertibile ad occhi altrui e, sovente, nemmeno ben nitido ai nostri. Perché temiamo gli specchi, i mutamenti ineluttabili dell’età, una faccia o un corpo che non ci sono mai piaciuti o che più non sopportiamo di vedere ogni mattina o riflesso negli occhi degli altri. Tuttavia, le tracce della nostra persona fisica si delineano comunque tra le righe, man mano che il lettore si interessa a quel che abbiamo scritto della nostra vita pur non conoscendoci. Ogni lettore si muove congetturando l’aspetto dell’autore o del personaggio che questi interpreta: fra l’altro sdoppiandosi, come appunto accade in autobiografia. Quando è la trasformazione dei propri ricordi in racconti ad aiutarci a prendere le distanze da noi, dalle memorie dolorose tornate a galla dagli abissi dell’inconscio ad assumere un ruolo di autocura, se non addirittura terapeutico. E’ questo, del resto, l’inimitabile potere evocativo ed immaginativo anche della lettura. Il quale ci spinge a inventare spesso quello che non esiste, alterando la realtà. Non per protervia e gusto dell’autoinganno, ma perché è la mente stessa che ha bisogno di falsificare gli stimoli sensoriali o memoriali. Scriviamo senza alcun riferimento alle nostre sembianze, nascondendo il nostro volto, eppure, un lettore attento a quel che raccontiamo, riesce (pur senza avvalersi di metodi e interpretazioni grafologici) a cogliere, a intuire, a intravedere qualcosa del nostro aspetto fisico, grazie ai processi emotivi e cognitivi che presiedono alla facoltà umana di produrre illusorietà, ipotesi, induzioni, illazioni, ecc. Ciò accade persino quando, intenzionalmente, non si voglia fornire alcun accenno e indizio referenziale.

    La scrittura è comunque specchio, seppur opaco, opacizzato apposta, dei nostri gesti, delle scelte, delle emozioni provate in date circostanze: il riferimento ai veridici moti del corpo di cui si racconta, non va rapportato però alle sole percezioni. La scrittura ci trasforma tutti, scrittori quotidiani, domenicali o professionisti della penna, in una voce arcana, lontana, diafana che fa intuire all’ascoltatore-lettore qualche accenno di come siamo fatti. E, come quasi sempre accade, quando finalmente ci è dato conoscere intenzionalmente o per avventura la persona che ci parlava al telefono e alla radio, ovvero di cui abbiamo letto, l’impressione piacevole o sconcertante che ne traiamo dinanzi allo svelamento in “carne ed ossa” (non oltre rinviabile o accidentale) non fa che meravigliarci, dinanzi alle oscure ragioni personali che ci hanno indotto a “percepirla”ben diversa da quello che lo è nel sembiante.

    La voce udita, come la scrittura, possiede il dono incomparabile, sconosciuto ai media visivi, di indurci a pensare per approssimazioni, per accostamenti per difetto o per eccesso; si tratta di “mediatori corporei” che stimolano la fantasia, non si preoccupano di far coincidere l’apparenza alla realtà, nella supposizione che quel che vediamo possieda una sua potenza veritiera. Ciò che diciamo, dovrebbe sempre corrispondere a ciò che pensiamo, ciò che siamo dovrebbe essere specchio del nostro corpo, ciò che scriviamo dovrebbe eguagliare quanto abbiamo vissuto? Nulla di più ingannevole, eppure, continuiamo a credere che una coincidenza perfetta tra le immagini e i corpi, tra le parole e il pensiero, tra il racconto e la sincerità dei fatti narrati sia possibile e sempre auspicabile. Nelle molteplici scene della vita reale tutti noi veniamo percepiti inizialmente, e reciprocamente, come corpi; ci presentiamo in quanto corpo attraverso quel che abbiamo fatto o facciamo e non soltanto in ragione della nostra immagine.

    Ciascuno entra nel ricordo dell’altro soprattutto in base a come il proprio corpo si è trovato ad interagire con quello altrui, in modo continuativo, erotico, come fonte di piacere o di dolore, di cura o viceversa di aggressione. Per questo non dovrebbe essere necessario affannarsi a fotografare e a fotografarsi freneticamente per abituare la memoria alla rimembranza profonda. Scrivere è di per sé un fotografare in un linguaggio che alimenta ogni volta i nostri processi cognitivi, che non ambisce - come diremo - ad idolatrare la realtà, quanto piuttosto a sfumarla, a trasfigurarla, a truccarla in funzione di quella indeterminatezza che appartiene, ormai lo sappiamo, oltre che all’io, alla letteratura e alla poesia.

    Scrivere evitando suggestioni ausiliarie: gli intenti autobiografici

    Le ragioni delle evocazioni mentali e connesse con la scrittura, sono difatti ben differenti da quelle suscitate dal rivedersi in una fissità corporea o in moto. Una sufficientemente buona scrittura della propria storia che non può certo dimenticarsi di questa dimensione, dovrebbe perciò non adottare immagini scattate o quant’altro come fonte di ispirazione. Il corpo immaginato a posteriori, più che quello esposto in una evidenza video-cinegrafica, è la più incontaminata fonte di ogni scrittura rimembrante.

    Scrive a tal proposito Raffaele La Capria: “La memoria che ti arriva quando intingi nel tè la madeleine di Proust, quella mi sta bene. E’ gentile, romantica o dolcemente malinconica, e la sua capacità di trasfigurazione si accompagna alla disposizione dell’animo, gli tiene compagnia. Ma la memoria che bruscamente mi arriva dall’album di fotografie che sto sfogliando, quella non mi sta bene, mi assale e disturba l’accomodamento che ho stabilito con la mia vita. Quel ragazzo che vedo nella foto ed io, siamo la stessa persona? Come è possibile? Eppure è così, lo dice la foto…Tra me e quella foto c’è il tempo, ma il suo trascorrere dov’è? E’ stato tutto così inavvertibile!” [3]

    La stessa impressione sconcertante non la “soffriamo” quando ci accade di scrivere; poiché, avendo l’accortezza di non farci aiutare da qualche foto, da un oggetto a lungo conservato divenuto un talismano, come ci consiglia non a caso La Capria, la scrittura dovrebbe soprattutto scaturire, attingendovi pur con grande imprecisione, dalle nostre figurazioni interne; dovrebbe rispetto ad esse mostrarsi dotata di potenza archeologica discreta e al contempo lirica. La facoltà scritturale ci consente sia di ritrovare i reperti attendibili di quanto veramente accadde, o venne vissuto emotivamente, in situazioni già in quel passato dotate di una loro fissità ed estaticità mitica; sia di rivivere quei climi e quelle atmosfere che sarà compito dello scrittore o della scrittrice rendere “poetanti”.

    A differenza della letteratura d’invenzione, dove il narratore non scrive solitamente per scoprire qualcosa di sé che gli sfugge, ma lo fa – semmai - dando vita ai personaggi e ai protagonisti del romanzo (ricordiamo la celebre frase di Gustav Flaubert: “Madame Bovary c’est moi!”), la letteratura autobiografica, definita personale o dell’io, nasce invece da un esplicito desiderio di auto-svelamento e di re-identificazione [4]. Specialmente quando si vadano attraversando momenti bui dell’esistenza che, non a caso, quasi sempre hanno implicazioni corporee: connesse a malattie, a infermità temporanee, a perdite d’altri che ci feriscono nella carne e non solo nell’io.

    Si scrive di sé, insomma, per riconquistare il proprio volto, la propria persona e la propria storia, senza però alcun bisogno di tratteggiare le proprie fattezze, di raccontare i piaceri o i dolori di cui il proprio corpo ha goduto o sofferto. Roland Barthes questo intendeva, quando notò: “Le immagini, il lessico, il fraseggiare di uno scrittore, nascono dal suo corpo e dal suo passato e a poco a poco diventano gli automatismi stessi della sua arte… .Lo stile è quindi sempre un segreto … è un ricordo racchiuso nel corpo dello scrittore” [5].

    Gli scritti di questa natura, se sinceri, se mossi da nessun altro scopo o investimento, se non perseguono alcun successo e benessere diverso da quello di conoscere di più il proprio io irraggiungibile e di usare la scrittura per interpretare le proprie vicissitudini, costituiscono di conseguenza una sorta di ancoraggio a quel corpo che andava cedendo, trascinando con sé la recalcitrante coscienza dell’io, che sempre coscienza innanzitutto di stare ancora vivendo e almeno respirando oltre che pensando. Seppur in sopori, in esperienze di indeterminatezza e stati alterati di consapevolezza. Non solo su un piano metaforico, questa volta, bensì letteralmente sensoriale, fisico, materiale. Poiché l’esercizio della scrittura ci impone di impiegare facoltà che riattivano una relazione corporea sia con uno strumento (la penna, la tastiera...), sia con una superficie (la carta o lo schermo).

    La scrittura, pur scaturendo da un impulso mentale, ha bisogno di poggiare le proprie parole su una consistenza tattile. Il suo valore certamente simbolico che ci rinvia al senso e agli scopi per i quali ad essa ci rivolgiamo non è così distante da quell’arcaico bisogno di incidere immagini, segni, graffiti su un’area pur minuscola visibile, concreta, palpabile. La relazione corpo-scrittura si realizza di per sé già nel momento stesso in cui vi poniamo mano; l’autore scrive qualcosa del proprio corpo anche quando intende parlare d’altro, ci rivela il desiderio di ristabilire un contatto con la propria fisicità come gesto di attaccamento alla vita e come rinnovata, estenuante, affezione a se stesso. Quando è la sfera sessuale ad imporsi sia come una delle storie biografiche più importanti, nelle sue delizie e vicissitudini; sia quando, viceversa, essa venga intenzionalmente sottaciuta per pudore o rimossa.

    Chiunque scriva o si sia trovato a scrivere un’autobiografia, un diario, un memoriale, ecc. si è cimentato nella narrazione delle storie intrattenute, subite, più o meno risolte, con aspetti diversi della propria dimensione corporea. Il nostro io narratore, se moralista, se casto, potrà anche censurare sentimenti, eventi, evocazioni che abbiano avuto a che vedere con essa. In ogni caso, sarà impossibile non scrivere del sé in quanto corporeità rivissuta o agita nel presente, per il fatto stesso che l’atto di scrivere è espressione già di per sé della nostra storia. E’ in essa che possiamo rintracciare le ragioni profonde che ci spingono a preferire la scrittura, piuttosto che affidarci alla sola parola e voce, per esporci, per esprimere quanto le parole non riescono sempre a spiegare, per ristabilire un contatto smarrito con gli altri.

    La scrittura di sé soltanto così diviene autenticamente autobiografica. Non può esservi autobiografia se non la si pensa, non la si progetta in corso d’opera, non la si consideri un tormento e un travaglio non molto dissimili da quelli che vissero e vivono scrittori di fama. Autobiografia è lavoro estenuante dell’io su se stesso, oltre che sulla propria ambulante dimora corporea; c’è talento autobiografico soltanto quando si siano oltrepassati quei timori che ci impedivano di avvicinarci alla penna e alla carta, scoprendo che è terapeutico il passaggio dalle paure alla voglia di non nasconderle più alle curiosità del proprio io.

    Le quali, per Jacques Lacan, andavano ricondotte a fantasmi, ad angosce, a vertigini non della scrittura, bensì del corpo (abusi, violenze, perdite, traumi, carenze affettive …) che per il suo tramite parla e ci parla. La scrittura diventa la rabdomante di ogni io che si vada confondendo nei corpi; diviene l’esploratrice degli interstizi più riposti e seppelliti tanto dalla coscienza quanto dall’inconscio; si rende l’avamposto di ogni pensiero non ancora pensato. Diceva lo psicoanalista francese: “interrogatevi sulla vostra paura di scrivere di voi ed essa vi spiegherà i vostri spettri”. Per questi ed altri motivi, gli sviluppi cui stiamo assistendo in campo clinico e psicoterapeutico in merito all’impiego della scrittura di sé e autobiografica nel trattamento di sindromi gravi o soltanto di momenti di fragilità esistenziale [6], ci offrono nuove suggestioni e metodi di cura. Sia nei disturbi inerenti più strettamente la corporeità (ad esempio per quanto concerne le sindromi di carattere alimentare, depressivo, traumatico, croniche …), sia quando quell’io, che fin dall’inizio abbiamo descritto anche “fecondamente”in fuga da sé, perché presiedere al compito di non cessare di problematizzare il nostro esistere, può rintracciare i fili della propria storia smarrita, ridando speranza e occasioni a quel corpo offeso dalle circostanze della vita e del dolore vanamente da essa del tutto emendabile.

    Note

    1] S. Natoli, Guida alla formazione del carattere, Milano, Morcelliana, 2006, pp.22-23.
    2] Su questi temi cari al filosofo francese, ha lavorato recentemente L. Barani, Derrida e il dono del lutto, Verona, Anterem, 2009.
    3] R. La Capria, Il disinganno di una fotografia, C.d.S., Rizzoli, 2009, riproduzione riservata.
    4] Per R.Barthes “la letteratura” non poteva non includere ogni “complesso grafico relativo alle tracce di una pratica: la pratica dello scrivere” cfr. Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo (1973), trad. it., Torino, Einaudi, 1999, p.IX.
    5] Barthes, Il grado zero della scrittura (1953) trad. it. Torino, Einaudi, 2003, pp.10-11.
    6] D. Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, R. Cortina, 2008.


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