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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010

    LA PAROLA AGLI EMIGRANTI


    Fabio Olivieri

    f.olivieri75@gmail.com
    Educatore e Formatore in metodologie autobiografiche; Socio Collaboratore Osservatorio dei Processi Comunicativi, membro del Comitato di Redazione della rivista m@gm@.

    Bruno Vacca

    Consulta per l'emigrazione della Regione Lazio.

    Premessa

    La Parola è lo strumento mediante il quale il mondo “si significa” agli occhi di chi lo percepisce. Il soggetto che si trovi davanti una rappresentazione, di qualunque genere essa sia, sociale, emotiva, fisica, psicologica,etc., tende a limitare il Senso di ciò che egli osserva, ricorrendo all’uso di un “significato”, transitivo ma circoscritto al tempo stesso.

    La Parola, infatti, muta i suoi orizzonti di senso, li genera ogni qualvolta viene ad assumere un connotato diverso, individuale o collettivo. Contemporaneamente però, contrappone al distinguo semantico la sua natura avvolgente, limitante, poiché una volta espresso il significato, il senso stesso viene privato dell’opportunità di incarnare aspetti e possibilità diverse, inesplorate. Diviene allocuzione, il cui referente non è un soggetto umano, ma la vasta possibilità di senso che l’oggetto osservato, può contenere.

    La struttura ontologica della parola è quindi migrante per eccellenza. Essa si trasferisce da un contenuto all’altro del “senso”, calzandone un profilo capace di rendere discriminabile e traducibile agli occhi dell’uomo quanto egli osserva della realtà fenomenica che vive.

    Tale è il motivo per cui, la parola stessa, ben si presta nel rendere conto di quell’universale attitudine alla migrazione che appartiene al genere umano, perennemente in movimento e alla continua ricerca di un quadro biografico capace di compaginare la varietà degli elementi che lo compongono in un’unica rapsodia.

    Il migrante fa della parola il suo arto prediletto. Capace di afferrare l’universo culturale che quotidianamente fronteggia, l’uso dei vocaboli diviene condizione necessitante nel trasferire bisogni, emozioni e tradizioni verso altri membri della propria comunità, col fine di preservare quelle porzioni di mondo che si trova ad abitare.

    L’intento di questo breve articolo, redatto dal sottoscritto e da Bruno Vacca (Consulta per l’emigrazione della Regione Lazio), è finalizzato ad una rivendicazione della parola quale mezzo massimo per conoscere, soprattutto nei campi di indagine qualitativa, la percezione intima del migrante attraverso alcuni dei frammenti che compongono la sua storia di vita.

    Anche in questo caso, la narrazione assume una valenza socio-pedagogico. La sua declinazione consente di eplicitare, rafforzandola in veste di una relazione diretta con l’interlocutore privilegiato, la relazione comunicativa ed umana tra parlanti. Il contenuto che ne deriva risulterà forse deficitario di quella esattezza scientifica auspicata dal ricercatore o dallo studioso di turno, ma certamente il retaggio culturale dei partecipanti al dialogo (intervistato ed intervistatore) ne uscirà fuori arricchito di un’orizzonte nuovo capace di proiettarsi su altre condizioni utili all’interpretazione di dati e fenomeni sociali.

    La parola quindi diviene uno strumento indispensabile per “comprendere”, “preservare” e “rinnovare” il patrimonio culturale individuale e collettivo.

    Ciò purtroppo non si verifica nel panorama politico-istituzionale dove il limite piuttosto evidente, per i “professionisti-burocrati” impegnati nel settore delle migrazioni, consiste proprio nell’aver perso ogni contatto con il migrante e quindi con la parola stessa. La sua figura è un derivato rappresentativo che non agisce in prima persona ma è frutto di una costruzione indiretta di report, statistiche, studi settoriali, incapaci di rendere pienamente la complessità umana che abita ogni individuo, in particolar modo colui che vive “due mondi”, quello da cui è stato generato e l’altro, scelto consapevolmente con l’intento di migliorare la propria condizione di vita. Si perde così, l’opportunità di elaborare interventi che siano realmente mirati non soltanto all’integrazione, ma a custodire un capitolo di “storia” che tra qualche decennio nessuno sarà più in grado di scrivere.

    Il Passaparola

    Per molti anni la fonte principale di informazioni sul paese di origine per i figli e i nipoti degli italiani nati all’estero, era costituita dai racconti dei nonni. 

    Nonni che quasi sempre in “italiese” raccontavano della loro  città o  del paese  di origine, in parte per rivivere i ricordi della loro giovinezza, ed in parte per non interrompere quel flusso emotivo, comunicativo-relazionale, con la propria gente, i familiari e gli amici che vivevano lontani dalla loro realtà quotidiana e professionale.
     
    A questa narrazione così rassicurante, per i 27 milioni di italiani emigrati all’estero ed i 65 milioni di oriundi ( figli e  nipoti) sparsi per il mondo,  è  stata spesso negata la sua funzione qualificante di trasmissione culturale e disvelamento di una condizione di vita (spesso vissuta ai margini dell’accettabile) da parte di alcuni professionisti del settore istituzionale e dei tanti oratori che hanno popolato convegni in materia di emigrazione (l’ultimo riguardava proprio la conferenza “Laziali nel mondo“ tenutasi a Frascati (Rm) il 27 e 28 Novembre del 2009). In queste occasioni la parola è stata negata agli emigranti, al di là di qualche sporadico intervento strutturato ed organizzato seguendo protocolli ben precisi. 

    Le rare occasioni  nelle quali  gli emigranti hanno preso parola, sono stati capaci di tradurre terminologie tecniche anaffettive in veri e propri romanzi di avventura, capaci di coinvolgere emotivamente tutto l’uditorio.

    Potenza della parola, dunque, intesa quale patrimonio culturale utile per costruire la chiave di lettura per una migliore comprensione della trasformazione sociale in atto nel nostro Paese da terra di emigranti a terra di immigrazione! 

    Di seguito passiamo la parola a due emigrati italiani rientrati definitivamente in Italia nella provincia  di  Frosinone, con l’intento di rilevare alcuni aspetti significativi del processo migratorio : Paolo  Fardelli  nato a  Cassino (Fr) classe “1951”, emigrato in Australia (titolo di studio licenza  di terza media),  e  Giuseppe  Troia nato a Caracas in Venezuela, emigrante figlio di emigranti, classe “1970” (titolo di studio geometra)”.
     
    Domanda: “Come è nata la decisione di andare all’estero?” 

    Paolo:

    Ho deciso di andare in Australia con moglie e un figlio, nel  1985, perché  avevo delle  cugine  a  Perth  (dal 1969)  che  avevano  letto  su un giornale locale che cercavano operai specializzati. 

    Giuseppe:

    Io  sono  nato  a  Caracas. Mio  padre  decise  di  andare in Venezuela nel 1957 perché  aveva uno zio che poteva aiutarlo a trovare subito il lavoro. 

    La condizione di partenza dei due soggetti è completamente diversa, ognuna presenta delle specificità del proprio vissuto migratorio. Paolo appartiene al cosiddetto gruppo di emigranti italiani “dimenticati”, coloro che ad oggi contano più di 4000.000 di soggetti iscritti all’A.I.R.E (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), di cui nessuno parla (al di fuori dell’annuale rapporto Caritas-Migrantes), quasi fossero stati diluiti in quel corpo storico del passato a cui siamo tanto affezionati, capace di produrre immagini mai desuete del viandante appeso alla zavorra della propria valigia di cartone!

    Per Giuseppe invece, il percorso è completamente opposto. La sua è un’emigrazione di ritorno, un ciclo che si conclude con il rientro in Italia da parte di tutta la famiglia. I processi di integrazione in questo caso, parlano la lingua italiana e potrebbero rappresentare un bacino di indagine molto significativo per comprendere i flussi di immigrazione che interessano il nostro Paese.

    Domanda: “Come è stata l’accoglienza?” 

    Paolo:

    Sono stato sfruttato dai paesani. Era veramente un problema  farsi  pagare da loro e dai cinesi. Invece gli australiani e gli slavi erano pignoli ma buoni pagatori. All’inizio ho fatto il verniciatore di macchine, poi il lavapiatti al Casinò, il piastrellista e infine ho lavorato nel settore delle demolizioni delle case. Frequentavo molto le associazioni italiane e in particolare quella dei laziali. Eravamo senza una sede fissa e poi abbiamo avuto così tanti ostacoli dagli stessi corregionali che mi sono dimesso dalla carica di vice-presidente dei laziali. 

    Dalla risposta di Paolo sembrerebbe emergere un ulteriore aspetto che riguarda il sistema di accoglienza dei migranti: la possibilità di un inserimento professionale. Diversi emigranti del Lazio hanno infatti condiviso storie di “caporalato” spesso risoltesi in vere e proprie truffe a carico dell’emigrante. Alcuni degli italiani, che nel corso degli anni, hanno trovato una maggiore stabilità nel paese ospitante, hanno deciso di capitalizzare la loro esperienza ponendola al servizio dei nuovi arrivati. Non tutti però hanno condotto questa impresa con intenti filantropici! L’opportunità di soggiogare un altro “paesano” appena giunto nella nuova terra, è divenuta l’unica occupazione “seria” di alcuni soggetti poco raccomandabili. La realizzazione di una sub-economia che ruota intorno alle esigenze del migrante, non è affatto un argomento nuovo; in realtà già in epoca medievale, molti dei borghi della Toscana conobbero la luce proprio per aver investito su una serie di attività collaterali al progetto migratorio, quali ad esempio l’istituzione di spacci, vivande, alloggi,etc..

    Giuseppe:

    Mio  padre  ha  fatto  il  carrozziere. Io, invece, ho  lavorato prima in un ufficio tecnico di una piccola impresa  tipografica  e  poi  con  la  ditta  Francini  che costruiva macchinari per le birrerie “Polar”. Per ultimo e fino al rientro in Italia, ho lavorato nell’officina di mio padre. Abitavo in un quartiere misto con russi, iugoslavi, spagnoli e portoghesi. Non frequentavo le associazioni italiane e tantomeno il centro italo-venezuelano perché la quota d’iscrizione era troppo alta! Negli ultimi anni prima del rientro le cose in Venezuela sono cambiate in peggio. Nel 1997 mio padre fu derubato in autostrada e non ci fu alcuna  indagine nonostante la denuncia fatta. Le istituzioni locali non erano molto ben disposte con noi italiani! 

    In Giuseppe ritroviamo invece, la valenza multiculturale delle migrazioni. Quando il soggetto non è internato nel proprio ambiente culturale, perché preda di una disfunzione organizzativa delle istituzioni o della mancanza di adeguate proposte di integrazione, eccolo prendere parte ad una compagine internazionale che lo vede avviare relazioni con altri migranti provenienti da paesi diversi, ciascuno con le sue caratteristiche.

    Vi è inoltre un richiamo, molto forte, che per questioni di spazio non è possibile trattare in questa sede, riguardante l’intervento governativo di Chavez nei riguardi degli italiani emigrati.

    In qualità di associazione (www.sconfinando.net) impegnata nella consulenza e l’orientamento degli emigranti rientrati, abbiamo provato a richiedere fondi alla Regione Lazio per indagare questo fenomeno che già dieci anni fa aveva portato alla richiesta di un interrogazione parlamentare da parte di un esponente del PD con l’intento di far luce sui diversi sequestri a danno dei nostri connazionali oltreché delle espropriazioni inaugurate da Chavez di tutte le seconde case appartenenti ai nostri emigrati.

    Un tentativo del tutto vano, se si considera che le graduatorie stilate hanno visto al primo posto iniziative legate all’ entertainment, chiaro segno di quanto la nostra regione abbia a cuore la serietà di proposte progettuali rivolte al mondo dell’emigrazione, nonostante le accorate parole che Luigina di Liegro (ex assessore alle politiche sociali) ha speso durante l’ultima conferenza sui laziali nel mondo, realizzata dopo 11 anni di silenzio assoluto:

    (…) Se intendiamo davvero investire nella risorsa costituita dalle nostre comunità – all’estero - , dobbiamo, necessariamente superare la genericità degli interventi e passare ad una logica di programmazione e progettazione mirata. Adottare una pratica interdisciplinare non vuol dire necessariamente aumentare la spesa, ma vuol dire ottimizzarla.Significa soprattutto fare in modo che i 500 mila cittadini laziali all’estero possano usufruire di una serie più ampia di interventi. In particolare quelli in cui è possibile far fruttare al meglio le loro competenze e i loro saperi interculturali. Così nella cultura, come nel sociale, come in ambito economico. [1] (Atti della V Conferenza regionale sull’emigrazione, Frascati – Rm – 2009)

    Domanda: “Perché  il rientro in Italia?” 

    Paolo:

    Avevo sempre il chiodo fisso di rientrare in Italia.La spinta decisiva l’ha data mio figlio Raffaele che era rimasto innamorato dell’Italia dove era stato per le ferie prolungate da tre mesi ad un anno. Appena tornato mi raccontò  di avere pianto per tutta la durata del viaggio in aereo da Roma a Perth. Forte anche della notizia ricevuta da mia sorella che a Cassino si vendeva un’attività  di edicola decidemmo di lasciare l’Australia e tornare alla nostra bella Italia.

    La tematica del Ritorno è il nodo portante dell’emigrazione: l’idea di poter compiere un giorno il tragitto inverso, che ha portato l’emigrante lontano dai suoi affetti e dalla sua vita, rappresenta per quest’ultimo un approdo mitico che lo sostiene durante gli anni vissuti in “esilio”.

    Generalmente l’emigrante torna perché vicino all’età pensionabile o perché i progetti da lui intrapresi non hanno dato i frutti sperati, o ancora perché incapace di adattarsi al nuovo contesto presente nella nuova terra.

    Giuseppe:

    Abbiamo deciso di rientrare in Italia nel 2001 dopo che ci avevano rubato tutte le attrezzature dell’officina e poi le cose erano troppo cambiate con l’avvento di Chavez! 

    Nel caso di Giuseppe invece, le motivazioni legate al rientro sono dovute ad una politica migratoria, intrapresa da Chavez che ha condotto il Venezuela verso una ridistrubuzione di quelle ricchezze che gli italiani emigrati avevano accumulato nel tempo. Un rimpatrio forzato, che viene vissuto in modo drastico e definitivo dal soggetto che si vede privato di quella progettualità fondamentale alla costruzione di un percorso di cittadinanza e di appartenenza ad una comunità.
     
    Domanda: Com’è stato il rientro?  

    Paolo:

    Appena tornato, ho avuto la fortuna di sapere per caso che a Sant’Elia Fiumerapido c’era la “Casa dell’Emigrante” e dove ho trovato umana accoglienza e orientamento. Al rientro mia moglie e mia figlia si sono trovati subito bene. Io, invece, sono un poco deluso…Credevo di trovare un Paese diverso, migliore e invece..! Le Istituzioni funzionano male e non si riescono ad avere mai risposte precise. Mi sento due o tre volte a settimana con gli amici di Perth!  

    La “Casa dell’emigrante”, collocata alle pendici dei monti che costeggiano il piccolo comune di Fiumerapido Sant’Elia, ha rivestito un ruolo basilare nell’accoglienza degli emigranti del basso Lazio. Diretta dallo stesso Bruno Vacca, si occupava di fornire supporto pratico e psicologico a coloro che rientravano dopo decenni di emigrazione. Anche in questo caso, alcuni membri istituzionali della Regione Lazio hanno preferito sollevare dall’incarico il suo direttore per sfruttare le possibilità offerte dal servizio a vantaggio di fini politici. Il risultato è che ad oggi, dopo due anni e mezzo, la struttura è completamente inoperante. Nelle affermazioni di Paolo troviamo un sentimento di rassegnazione che lo pervade, decisamente comune in coloro che per lunghi anni hanno investito nella rappresentazione “fantastica” del proprio Paese. La distanza congela ogni trasmutazione e finisce col rendere generosi molti aspetti critici della comunità di origine. Questo duplice isolamento (dal contesto istituzionale e dalla collettività) può condurre l’emigrante rientrato a rispolverare le sue vecchie abitudini cercando di intrattenere e preservare le relazioni amicali avviate durante la fase migratoria.
     
    Giuseppe:

    Al rientro è stata dura. Non abbiamo trovato nessuno che ci desse informazioni precise. Poi nel 2006 il Dr. Manzi Ennio ci mise in contatto con il Direttore della Casa dell’Emigrante di Sant’Elia Fiumerapido che ci ha aiutato a realizzare una attività  commerciale che oggi funziona abbastanza bene. Prima avevamo un'officina in perdita e male gestita perché non conoscevamo bene le leggi in materia. Comunque mantengo frequentemente i rapporti con gli amici che ho lasciato in Venezuela e con quelli che come me, e sono tanti, sono rientrati in Italia, in particolare su facebook! 

    Anche in questo caso , il motore istituzionale è stato il grande assente. L’individuazione di strutture idonee al supporto dei migranti rientrati è stata frutto di un passaparola all’interno della microcomunità. Il riconoscimento di un’ ignoranza assoluta rispetto al contesto normativo italiano, è un ulteriore campanello di allarme che riecheggia in quel vuoto in cui precipitano le opportunità di avviare forme stabili di relazioni tra il corpo istituzionale e la compagine migratoria.

    Domanda: “I ricordi più belli del Paese che hai lasciato?” 

    Paolo:

    Le spiagge bellissime e la pesca anche se non sapevo pescare. La caccia ai conigli selvatici , i parchi stupendi, il buon funzionamento degli uffici governativi e il rispetto delle regole. 

    Giuseppe:

    Gli incontri e le feste con gli amici italiani. Il mare bellissimo e la colonia tedesca sul monte Tovar. 

    Domanda: Cosa pensi degli immigrati e di quello che accade in Italia? 

    Paolo:

    C’è razzismo verso gli immigrati perché la classe politica è  troppo arrogante e i giovani imitano questi atteggiamenti. Gli immigrati fanno i lavori più  sporchi e pesanti come abbiamo fatto noi all’estero. Perché  non si colpiscono quelli che sfruttano gli immigrati ed in particolare quelli clandestini? 

    Giuseppe:

    C’è un forte razzismo verso gli immigrati. Vanno rispettati ma anche loro devono rispettare le nostre leggi, usi e costumi. Non esiste una politica seria sull’immigrazione da parte del governo.

    La conclusione di queste brevi interviste, ci forniscono lo spunto per evidenziare un atteggiamento, dei nostri emigranti nei confronti degli immigrati attuali, di tipo altalenante. In altre occasioni, io e Bruno Vacca, abbiamo avuto modo di rilevare un certo margine di intolleranza nutrita nei riguardi degli immigrati in territorio italiano. Quasi agisse un sentimento di rivendicazione nell’aver affrontato le difficoltà insite in ogni migrazione a vantaggio, non dei propri familiari, ma di cittadini provenienti da altri paesi che hanno trovato la loro collocazione nel mercato del lavoro italiano. Un aspetto che meriterebbe di essere approfondito da ulteriori ricerche condotte sul grado di empatia tra italiani rientrati e “nuovi” immigrati.

    Note

    1] Lazio_nel_Mondo.org , Maggio, 2009.


    Collana Quaderni M@GM@


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

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